Il sestodecimo libro di Lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1604)
a cura di Anna Laura Puliafito
Il Sestodecimo libro di Lettere dedicatorie di diversi si compone di 23 carte numerate che raccolgono 13 dediche, cui seguono l’indice dei Personaggi, a’ quali sono dedicate le lettere (c. 23r) e quello degli Autori delle Dedicationi (c. 23v).
Il volume è introdotto dalla dedica di Comino Ventura (datata «il dì 2 di Gennaro 1604») a monsignor Publio Fontana (cc. n.n., ma [1r]-[rv]), «poeta illustre» di origini bergamasche, noto soprattutto come compositore di poesia latina, ma anche pittore, scultore, musicista e medico naturalista, membro di numerose accademie (cfr. «Margini», i, 2007). Comino sottolinea il gran numero di opere del Fontana uscite dai suoi torchi (almeno cinque entro il 1601) e si pregia di offrirgli il libro che − secondo le consuete considerazioni numerologiche − riunisce le virtù del denario e del senario. Varrà la pena in questo senso di ricordare che tre anni prima della dedica Comino aveva pubblicato i Quattro discorsi di Publio Fontana ne’ quali con varia dottrina si hanno di molte considerationi intorno al misterio de’ Numeri Ternario, & Quaternario & intorno all’Honore, & alla imitatione (In Bergamo, per Comino Ventura, 1601).
I testi cui si riferiscono le dediche del Sedicesimo libro sono tre favole pastorali, cui si affiancano quattro commedie, una tragedia, una tragicommedia, un testo di retorica, uno di storia e una raccolta di prediche.
Apre la serie la dedica di Agnolo Guicciardini (cc. 1r-3r, «Di Firenze il giorno 3. di Settembre 1561») al granduca Cosimo I de’ Medici (cfr. «Margini», iv, 2010) della stampa dei primi sedici libri della «Historia delle cose accadute in Italia dalla passata di Carlo viii, Re di Francia, insino all’anno 1500» composto dallo zio Francesco Guicciardini (L’historia d’Italia di m. Francesco Guicciardini, gent[i]l’huomo fiorentino, In Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 1561). Come è noto, il Guicciardini non aveva pubblicato nulla in vita, ed aveva anzi disposto per testamento che le sue carte fossero date alle fiamme. Agnolo spiega come invece, dopo alterne vicende, i nipoti avessero deciso di dare alle stampe la Historia; ma aggiunge di aver preferito rinunciare alla pubblicazione degli ultimi quattro libri per essere questi «più presto abbozzati che finiti». Comino non trascrive completa quest’ultima frase, omettendone una seconda parte che compare invece nell’originale («i quali per tal cagione non si mandano fuori al presente»). Gli ultimi quattro libri della Historia uscirono tre anni dopo a Venezia (Dell’historia d’Italia di m. Franc.co Guicciardini gentil’huomo fiorentino gli ultimi quattro libri non più stampati, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1564).
La seconda dedica, non datata (cc. 3v-8v), è tratta dalla celebre Retorica di Bartolomeo Cavalcanti, uno dei primi trattati in volgare sull’argomento, e certamente quello che ebbe più successo e diffusione entro la fine del secolo. L’opera uscì nel 1559 a Pesaro (La retorica di M. Bartolomeo Cavalcanti, gentil’huomo fiorentino. Divisa in sette libri: dove si contiene tutto quello, che appartiene all’arte oratoria. Con le postille di M. Pio Portiniaio giureconsulto, che dimostrano sommariamente tutto quello, che vi si tratta. All’illustrissimo e reverendissimo Signore, il Cardinale di Ferrara, In Pesaro, Per Bartolomeo Cesano, 1559) e a Venezia (La retorica di M. Bartolomeo Cavalcanti […]. Con la tavola de i capi principali contenuti nella presente opera. All’illustrissimo […] Cardinale di Ferrara, In Vinegia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1559), introdotta da una lunga dedica del Cavalcanti al Cardinal di Ferrara, Ippolito II d’Este, che gli aveva chiesto un volgarizzamento della Retorica di Aristotele. Come afferma nella dedica, Cavalcanti rinunciò esplicitamente a tale impresa, preferendo invece comporre un’opera negli intenti agile, una sorta di manuale tecnico ad uso soprattutto degli ambasciatori, che seguisse i principi della retorica aristotelica, ma riunisse gli insegnamenti dei maggiori autori classici.
La terza opera non strettamente letteraria presente nel volume è la raccolta di prediche che Francesco Panigarola, francescano eletto vescovo di Asti dal 1587 (cfr. «Margini», i, 2007; ii, 2008), dedica, significativamente (cc. 18v-19v, «Di Asti, a li 25 di Giugno 1591»), a Roma (Prediche di monsig. rever. Panigarola vescovo d’Asti. Fatte da lui spezzatamente, e fuor de’ tempi quadragesimali in varii luoghi et a varie occasioni più illustri, In Asti, per Virgilio Zangrandi, a instantia di Gio. Dominico Tarino, 1591). Panigarola giustifica la sua scelta con il fatto di poter ricondurre a Roma − intendendo «sotto cotesto nome, Roma, o la tua Sede […], o la tua corte, o la tua città» −, le tre «cause» che spingono gli autori a dedicare i loro «componimenti». Ciò avviene infatti «o per sottoporgli alla censura, et al giudizio di coloro, a’ quali gli presentano; o ver per illustrargli co’l nome, a che gli dedicano: o finalmente, per mostrarsi grati de’ benefici ricevuti da quelli, a chi donano». Non rientra nei suoi intenti l’ultima e quarta causa che ispirerebbe il dedicare («questa a me non fa mistieri»), cioè per «appoggiare» le opere «al favore, et alla protettione di chi le diffenda»: a Roma, come massima autorità è infatti rimesso il giudizio assoluto in materia teologica. In chiusura Panigarola annuncia che a questi «primi componimenti» seguiranno le «sei Quadrigesimali» tenute proprio a Roma. Una raccolta delle prediche tenute in San Pietro venne pubblicata, per esempio, nel 1597 (Prediche quadragesimali del reverendiss. monsig. Panigarola vescovo d’Asti dell’Ordine di san Francesco de’ minori osservanti, predicate da lui in San Pietro di Roma l'anno 1577. Con aggionta di nove discorsi del medesimo, sopra le sette parole di Christo pater ignosce, etc. Con una tavola copiosissima delle cose notabili, In Venetia, appresso Roberto Meietti, 1597).
Venendo ora ai componimenti poetici, a c. 8r-v si incontra la dedica, non datata, al nobile eugubino Cesare Panfilo, che Bernardino Pino da Cagli premette alla sua commedia pastorale in cinque atti e prosa Gli ingiusti sdegni, messa in scena per la prima volta e stampata a Roma nel 1553 (Gli ingiusti sdegni. Comedia di m. Bernardino Pino, Roma, Valerio e Luigi Dorico, 1553). L’opera fu poi ripresa e ristampata almeno venticinque volte entro il 1626. Da ricordare l’edizione veneziana del 1597, più vicina cronologicamente alla raccolta del Comino (Gli ingiusti sdegni, comedia di m. Bernardino Pino [...]. Di nuovo con somma diligenza corretta, & ristampata, In Venetia, presso Gio. Battista & Gio. Bernardo Sessa, 1597).
Dell’editore Ludovico Domenichi (cfr. «Margini», ii, 2008; iv, 2010; v, 2011; xi, 2017) è la dedica «al Sig. Aldigieri Della Casa» della commedia I Lucidi, che compare a c. 9r-v. In essa Domenichi spiega di essere entrato in possesso della «Comedia composta già dal Rev. et molto virtuoso M. Agnolo Firenzuola», e sostiene di darla alle stampe con la «tacita licenza del padrone [morto nel 1543], il quale senza dubbio havrà molto più caro vedere le sue virtuose fatiche poste in publico, che non lasciarle defraudate dal [sic!] suo nome, et divulgate con l’altrui». Nella raccolta del Comino la dedica è datata «Di Fiorenza a’ 26 Feb[braio] 1559», ma si tratta di un errore che va corretto in 1549. La dedica, firmata, accompagnava infatti l’editio princeps del 1549 (I Lucidi. Comedia di messer Agnolo Firenzuola fiorentino, In Fiorenza, apresso Bernardo Giunti, 1549).
La dedica successiva, datata «Di Venetia, a dì 16. Giugno 1596» (cc. 10r-11r), è quella della tragicommedia Perla a Giulio Cesare Mamiani Della Rovere da parte dell’autore Simone Balsamino (Perla, tragicomedia in rima libera di Simone Balsamino, dedicata all’illustrissimo marchese De La Rovere con privilegio, In Venetia, appresso Niccolo Moretti 1596). Balsamino, compositore, cantore e suonatore, fu per anni al servizio di Francesco Maria Della Rovere, cugino di Giulio Cesare, per divenire poi maestro di cappella nel «Domo» di San Pietro di Castello a Venezia.
L’autore Cristoforo Castelletti offre invece (cc. 11v-12r, «Di Roma il primo di Marzo 1581») la sua commedia in prosa I Torti amorosi a Clelia Farnese, figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese e poi sposa prima del nobile romano Gian Giorgio Cesarini e, in seconde nozze, a partire dal 1587, di Marco Pio signore di Sassuolo (I torti amorosi Comedia di Christoforo Castelletti alla illustrissima sig. la s. Clelia Farnese de’ Cesarini. Nuovamente posta in luce, In Venetia, Apppresso Gio. Battista Sessa & Fratelli, 1581). I Torti erano stati riproposti con la stessa dedica a Clelia nel 1602 (Venezia, Eredi Sessa, 1602). Castelletti ricorda di avere dedicato alla Farnese l’anno precedente anche l’Amarilli, rappresentata per la prima volta a Roma nel 1580 e pubblicata ad Ascoli nello stesso anno (L’Amarilli egloga pastorale di Christoforo Castelletti, In Ascoli, Appresso Gioseppe de gl’Angeli, 1580).
Della favola pastorale La Fida Ninfa, Comino decide di riprodurre la dedica del curatore Giovan Battista Cavalieri al granduca Ferdinando de’ Medici (cc. 12v-13r, «di Vicenza, il primo d’Agosto, 1599»; cfr. «Margini», x, 2016), e, a seguire, quella dell’autore Francesco Contarini sempre al granduca (c. 13v-14v, «Di Padova, li 10 Marzo 1590 [ma 1598]»). Cavalieri era stato segretario del padre di Francesco, Taddeo Contarini, podestà di Vicenza, e si pregia di dare alle stampe la versione originale del componimento, che «per l’altrui colpa» era stato mostrato «rozzo, tenero e difettoso» e che ora veniva invece presentato al granduca «culto, adulto e perfetto». L’edizione di riferimento è quella vicentina (La Fida Ninfa Favola Pastorale. Del M. Illustre Sig. Francesco Contarini. Da lui rinovata, et ampliata in questa terza impressione, In Vicenza, Per gli Heredi di Perin Libraro, 1599. Con Licenza de’ Superiori), la terza dopo le due edizioni del 1598. A quella padovana del 1598 (Padova, per Francesco Bolzetta, 1598, ripresa nello stesso anno anche a Venezia per Giacomo Vincenti, cfr. «Margini», x, 2016) è collegata la dedica del Contarini, che dice di offrire degli «scherzi giovanili» ambientati nella finzione ad Arquà per omaggio al Petrarca, dei «boscherecci amori», la cui composizione sarebbe iniziata nell’estate di tre anni prima. In maniera singolare, nell’atto di offerta al granduca, Francesco unisce a sé, nel ruolo di dedicanti, anche il padre Taddeo e la famiglia tutta.
Due dediche sono tratte dall’opera di Luigi Groto (cfr. «Margini», i, 2007; xi, 2017). Si tratta de La Calisto, ristampata alla fine degli Novanta a Venezia (La Calisto nova favola pastorale di Luigi Groto Cieco di Hadria. Nuovamente stampata, In Venetia, Appresso Agostin Zopini, & Nepoti, 1599), sulle cui vicende editoriali non sembra essere stata fatta finora completa chiarezza. Si sa che essa venne rappresentata a Roma nel 1582; la dedica qui riprodotta (cc. 20r-21v, datata «Di Hadria il primo di Settembre 1580») è quella ad Alfonso II duca di Ferrara che comparve nell’edizione considerata princeps (La Calisto nova favola pastorale. Di Luigi Groto Cieco di Hadria. Nuovamente stampata. Con privilegio, In Venetia, Appresso Fabio, et Agostin Zopini Fratelli, 1583). L’epistola è una lode sperticata del duca, nel corso della quale Groto accenna al fatto di aver «prodotto e maturato in luce la maggior parte di questo silvestre componimento» in una villa del ferrarese che ricadeva sotto la sua giurisdizione. La seconda dedica è quella de La Hadriana tragedia nova. Di Luigi Groto Cieco d’Hadria, In Vinegia, Appresso Domenico Farri, 1578. In questo caso la dedica del Groto al procuratore di San Marco e riformatore dello Studio di Padova, già ambasciatore in Francia Paolo Tiepolo (cc. 16r-18r, «Di Hadria, il dì 29 di Settembre 1578») inserisce la tragedia nella produzione dell’autore e sottolinea la funzione di difesa che l’autorità del Tiepolo potrà esercitare nei confronti di un’opera «di Piombo, e d’Assentio» che «ricevuta dalle sue mani, proferita dalla sua bocca, diventerà d’oro, e di mele».
La dedica della commedia Il Ragazzo (c. 15r-v, «Di Venezia, a 10 di Marzo 1560») è firmata dal suo autore, Lodovico Dolce (cfr. «Margini», iii, 2009; xi, 2017; xii, 2018), e viene offerta a Prospero Podocataro, già professore di diritto civile a Padova. È tratta dall’edizione del 1560 che raccoglieva diverse commedie del Dolce (Comedie di m. Lodovico Dolce. Cioè, Il ragazzo. Il marito. Il capitano. La Fabritia. Il ruffiano, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1560), a quasi vent’anni dalla princeps (In Venetia, per Curtio de Navò et fratelli, 1541). La scelta di Podacataro viene giustificata in virtù non tanto della sua cultura e delle sue conoscenze «in tutte le lingue più nobili», nella latina come nel volgare, quanto della serie non meglio precisata dei suoi «passati travagli», a maggior riprova che la virtù «tanto più se medesima innalza, quanto più altri col mezzo delle calunnie cercano di opprimerla».
La raccolta si chiude con la dedica (c. 22r-v, «Dalla Città del Borgo San Sepolcro il 1. Di Gennaro 1601») della Honesta Schiava di Girolamo Pico (Honesta schiava, comedia del signor Girolamo Pico dottore di legge della città del Borgo S. Sepolcro. Con gli Intermedi apparenti del sig. Gio. Francesco Pico suo fratello [...], novamente posta in luce con privilegio, In Vinegia, presso Altobello Salicato, 1601, poi ristampata nel 1609). Il volume veniva offerto dall’autore ad Ascanio della Corgna, Marchese del Chiuso, celebre condottiero che si era distinto in diverse occasioni, soprattutto in Ungheria. Pico presenta la commedia come un’opera giovanile, frutto dei suoi interessi letterari, sempre coltivati al di là della professione giuridica. Qualche anno prima la commedia era stata messa in scena da «alcuni virtuosi giovani Borghesi», con gli intermezzi del fratello Giovan Francesco, morto nell’anno precedente alla pubblicazione. Il timore che il testo potesse uscire in forma imperfetta e passando per troppe mani aveva spinto Girolamo ad intraprenderne la stampa lui stesso.
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