18, 2024
 
Saggi    
 
Abstract


Nicola Ribatti

Una «vibrazione archiviante».
Sulle recensioni d'arte di Carlo Emilio Gadda




L'interesse di Carlo Emilio Gadda per le arti visive è testimoniato non solo dal gran numero di riferimenti (espliciti o impliciti) a oggetti d'arte o ad artisti disseminati in tutta la sua produzione narrativa e saggistica, ma anche dalle numerose recensioni di argomento artistico (generalmente dedicate a mostre d'arte) che egli scrive nel corso degli anni. Tali recensioni, nonostante le dichiarazioni di modestia o di incompetenza che l'autore spesso esprime, testimoniano in realtà una grande sensibilità artistica e risultano particolarmente significative perché spesso contengono dichiarazioni di poetica utili a comprendere la produzione stessa dell'autore. Nel caso di Gadda, parlare e riflettere su un artista (così come su uno scrittore) significa sempre riflettere anche sulla propria opera.
1. La mostra d'arte sacra. Consensi e dissensi
La prima recensione gaddiana di argomento artistico è La mostra d'arte sacra. Consensi e dissensi1 in cui lo scrittore recensisce una mostra allestita presso la Galleria di Villa Giulia, a Roma, nel 1934. In quegli anni Gadda lavorava presso l'Ufficio Centrale dei Servizi Tecnici della Città del Vaticano e la recensione appare sulla «Rivista d'arte sacra» a firma di Leone Castelli, superiore di Gadda.
Nella recensione lo scrittore riconosce alla mostra anzitutto il merito di aver fatto dialogare passato e presente «accostando, con uno spirito di vitale antologismo, le opere del passato prossimo e del presente» (MAS 780). È da questa iniziale considerazione che deriva il primo, importante assunto teorico, secondo il quale la vera opera d'arte non deve opporsi ipso facto alla tradizione, ma deve collocarsi rispetto a essa in una posizione di confronto e di dialogo: Ora il crisma della bellezza, più che da pertinace insistenza in una direzione preconcetta, [...] è raggiungibile da una sorta di ingenua felicità del creare, che tuttavia abbia occhio alle posizioni raggiunte e eliminate, o comunque sfiorate dall'esperienza. Il gusto deve confrontarsi mediante la cognizione di quanto il passato abbia fatto (MAS 782). Quello del rapporto con la tradizione e della necessità di un dialogo con essa è un tema su cui Gadda ritornerà più volte negli anni successivi in testi come Tirinnnanzi o Autografo per Giorgio De Chirico. Gadda si interroga poi su quale debba essere la caratteristica precipua dell'arte sacra. Secondo lo scrittore questa deve essere caratterizzata anzitutto dall'autenticità dell'espressione: La purezza dell'intento espressivo, il disinteressato sforzo di rendere [...] il proprio animo sinceramente agitato dall'idea, questa mi pare debba essere, non altra, l'esigenza discriminante le opere degne e le indegne di ottenere l'«accessit» all'ideale collezione d'arte sacra d'un popolo e di un ambiente (MAS 782). L'autenticità nell'espressione dovrebbe essere, in realtà, prerequisito di ogni oggetto artistico: «le cose belle e ben fatte sono ovviamente quelle che piacciono [...] al mio animo desideroso di comprendere e anche di applaudire, ma desideroso, anzitutto, di sentire, in comunione con l'artista, la sua manifestata verità» (MAS 782). L'opera d'arte in sé, non solo quella di carattere religioso, deve avere come fine la ricerca e l'espressione della verità. Da qui derivano le riserve che Gadda manifesta nei confronti di una corrente artistica che egli definisce «deformistica» (MAS 782). Si tratta di opere che, in mera opposizione alla tradizione ottocentesca, si caratterizzano per la presenza del deforme e di un «proposito manieristico» (MAS 785), vale a dire «insincero» (MAS 785). Gadda elogia nel complesso le opere che appartengono all'Ottocento: tra queste egli cita un cartone di San Filippo Neri, opera di Giuseppe Mancinelli, e il San Luigi Gonzaga di Eleuterio Pagliano,2 autori di «accettabilissime e nobili pale d'altare che avvincono il nostro animo con la giustezza e la validità del disegno e del colore» (MAS 784). Lo scrittore ricorda ancora opere di Morelli, Landi e Benvenuti per poi individuare, in due specifiche opere, il «trapasso» (MAS 785) verso la forma «deformistica»: si tratta dell'Adorazione dei Magi di Previati (fig. 1) e de La bottega di San Giuseppe di Faustini (fig. 2). Nella prima Gadda coglie «del Segantini e del D'Annunzio fuori posto [...], un troppo accentuato spasimo di femminilità post-romantica» (MAS 785); nella seconda, che raffigura in modo dettagliato la bottega di San Giuseppe, lo scrittore vede un esempio «di strano e puntuale verismo» (MAS 785) che anticipa i «deformi» (MAS 785). Gadda cita poi, tra le opere esposte nella mostra, alcune statue di terracotta di soggetto sacro che presentano tratti somatici grotteschi: si assiste «qui alla gratuita e sistematica ipertrofia delle membra e de' nasi [...] alla istupidita atonìa dei volti» (MAS 786), a una gratuita divinizzazione dell'abnorme. Lo scrittore ricorda che anche le opere di Michelangelo o di Caravaggio «si allontana[no] alquanto dagli aspetti tradizionali» rappresentando «le figure de' poveri, dei semplici, dei malati, degli affaticati [...], ma né l'uno né l'altro sono raffigurati da imagine deforme, l'uno e l'altro hanno un contenuto espressivo potentissimo e, ai fini rappresentativi del tema, veramente sacro» (MAS 786). Un'altra caratteristica di questa produzione di maniera è data dalla raffigurazione goffa e schematica delle figure: Altrove il brutto non è dovuto alla premeditata ricerca dell'abnorme, sì al bambolesco schematismo delle figure, o alla piattezza scialba e uniplanare di essa [...]. Qui non tanto la Fede quanto la Fiaba sembra aver inspirato il compositore e guidatagli la mano: egli vuole raccontare una bella storia ai bambini. Se non che la religione è altra cosa che una fiabesca e puerile sceneggiatura [...]. La religione è bisogno e ricerca di spiriti adulti e i suoi mezzi espressivi non consistono nel balbettio degli infanti (MAS 786). Un ulteriore tratto che caratterizza la produzione manierista è l'eccessiva artificiosità, «una sorta di voluta schiavitù dello spirito alla materia dell'opera» (MAS 787). Per Gadda invece, come detto, all'arte è sottesa una profonda istanza noetica che trascende la mera dimensione fenomenica: «Le ragioni della materia sono una premessa obbligativa. D'accordo. Ma l'opera d'arte esprime [...] un tentativo di superamento del materiale e del finito [...]. L'anima deve prevalere sul corpo, anche nell'arte» (MAS 787). Un ultimo elemento che denota la produzione di maniera è l'«ingenuità affettiva della rappresentazione», vale a dire una falsa tendenza a raffigurare il primitivo: l'ingenuità non risiede colà dove alcuni artisti mi paiono scorgerla, nel piano cioè dei primitivi, rivissuti in una sorta di regresso manieristico: ma risiede in quanto vi può essere ancora di tumultuoso, di revoluto, di incerto, di cieco, di doloroso nella storia degli uomini (MAS 788). Già da questa prima recensione è dunque possibile cogliere alcuni temi importanti che caratterizzeranno tutta la produzione gaddiana: il necessario confronto con la tradizione, l'idea che l'arte e la scrittura debbano essere intese come uno strumento conoscitivo volto alla ricerca e alla comprensione della verità.
2. La «Mostra leonardesca» di Milano
Tra il 9 maggio e il 22 ottobre del 1939 si tiene a Milano, al Palazzo dell'Arte, La mostra di Leonardo da Vinci e delle invenzioni italiane.3 Si tratta della prima, importante mostra monografica dedicata a Leonardo nel Novecento e viene organizzata sotto l'egida del fascismo. L'esposizione era in realtà duplice perché, oltre a presentare le opere artistiche e, soprattutto, ingegneristiche di Leonardo, essa proseguiva con un percorso sulle invenzioni italiane «da Leonardo a Marconi», come recitava il titolo della sala.4 Il fascismo intendeva celebrare Leonardo come prototipo del genio "italico" e anticipatore dell'homo novus che il regime stava forgiando. Non a caso per la mostra era stata scelta come sede Milano, la città più industrializzata e moderna d'Italia che aveva visto, tra l'altro, la nascita del futurismo e del fascismo.
Gadda visita la mostra due volte, secondo quanto ipotizzato da Carlo Vecce5 che ha studiato il materiale preparatorio autografo; la recensione verrà pubblica sulla «Nuova Antologia» il 16 agosto del 1939 per poi confluire come appendice in Verso la Certosa (1961).6 Lo stupore e l'ammirazione dello scrittore per Leonardo trapela sin dall'inizio della recensione: Avvicinare la mente del disegnatore e del meccanico della Rinascita, cioè seguir da presso condotti per mano il cammino della indagine; dimettere la facilità dell'apprendimento standard, la lestezza banale dell'esposto informativo, per adeguarsi con l'animo a quel travaglio necessitante, che sembra essere pervenuto alla espressione sua come a termine unico della conoscenza. [...] Ci troviamo, davanti a lui, come alla sorgente stessa del pensiero. Qui la nativa acuità della mente si dà liberissima dentro la selva di tutte le cose apparite, dentro la spera di tutti i «phaenòmena»: a percepire, a interpretare, a computare, a ritrarre: a profittare per «li òmini»: del profitto di ragione e verità (ML 401). Ciò che colpisce Gadda è anzitutto la modalità conoscitiva del genio leonardesco che, lungi da ogni forma di «apprendimento standard», tende ad abbracciare la molteplicità del reale («la selva di tutte le cose apparite») in tutte le sue sfaccettature per conferire ad esse un ordine espressivo («a computare, a ritrarre»), fino a cogliere la verità sottesa al mondo fenomenico. Si tratta di un programma gnoseologico che Gadda non poteva non condividere giacché scopo della sua stessa scrittura era quello di «organare il groviglio conoscitivo».7 Gadda, scrittore e ingegnere, ritrovava poi in Leonardo un tratto comune nella Doppelbegabung, nell'interesse duplice per le Natur- e le Geisteswissenschaften, ma l'artista toscano sarà anche un modello di stile: ci ammalia quella brevità sicura del detto, e il preciso contorno della reminiscenza, la libera configurazione della frase: o il rimando d'un giudizio-cristallo sui ragnateli delle idee e delle formulazioni consuete. Vivida, come folgore, è scaturita la immagine, dall'accumulo nubiloso dei pensieri (ML 410). La prosa di Leonardo, per Gadda, assume la chiarezza e l'organicità di un cristallo che "balena" come un'immagine «dall'accumulo nubiloso dei pensieri». Anche alla prosa dell'artista Gadda riconosce dunque, come accade con altri autori come Belli e Manzoni, una specifica qualità "icastica" che ne potenzia le capacità semantiche. Come è noto, del resto, le Favole e facezie di Leonardo costituiscono un importante modello (gnoseologico e stilistico) del Primo libro delle Favole. Come ha notato Francesca Longo,8 nella sua ammirazione per il genio di Leonardo Gadda si discosta nettamente dalle posizioni di Longhi, che pure ammirava in maniera straordinaria. All'indomani del ritrovamento nel 1914 della Gioconda,9 trafugata qualche anno prima al Louvre, il giovane ma già influente critico d'arte ne Le due Lise si scaglia contro la tela leonardesca, cui contrappone e preferisce un'altra Lise, quella dipinta da Renoir. Così Longhi si rivolge, con piglio iconoclasta, a politici, istituzioni e regnanti: Io dico a:
questi ministri che tra le frasi acciarpate di un artista-letterato pescano la più sciocca,
a questi direttori generali, lacrimosi − e speciali, raggianti
questi uomini politici, che, per un'ora, vacano,
questi professori, vecchi e giovini, esalando l'ammirazione in muggiti,
questi critici che vogliono riconquistare − estremo snobismo − l'ultima verginità classica,
questa impenitente coppia regale,
questo principe abituato per tempo a capir l'arte a rovescio, queste signore e signorine,
questi militi,
vi sono due Lise!10
Le posizioni del critico nei confronti di Leonardo perderanno, in altri scritti successivi, la loro virulenza polemica di stampo "futurista", ma non cambieranno nella sostanza. Nella Breve ma veridica storia della pittura italiana, redatta sempre nel 1914 ma pubblicata solo nel 1961, Longhi affermava in modo perentorio: Come scienziato va considerato Leonardo, perché in lui lo scienziato soverchia l'artista: lo scienziato è abbastanza contento nel raccogliere i fatti e nel classificarli: non pensa a coordinarli o a fonderli in una creazione. È così che Leonardo nelle opere di pittura fa sempre pensare ai suoi famosi quaderni di note scientifiche (codice Atlantico ecc.): là potreste vedere la sua indifferenza mentale nel passare da uno studio di una mano a uno di monumento equestre di macchina idraulica di fiore e di panneggio: ciò che dimostra una ammirabile molteplicità di interessamento mentale ma la impossibilità organica di interessarsi della pittura come tale soltanto.11 Longhi rimprovera dunque all'artista l'incapacità di coordinare le osservazioni empiriche nella sintesi unitaria dell'opera d'arte.12 Il giudizio negativo su Leonardo verrà ribadito nel più tardo Difficoltà di Leonardo (1952), dove lo storico dell'arte critica l'interesse eccessivo per l'anatomia: questo interesse anatomico degli artisti [scil.: del Pollaiolo e del Verrocchio] volgeva ormai a una ossessione di crudele fisiologia agonistica che è il nodo iniziale, e, per sempre, centrale, della cultura figurativa e del genio stesso di Leonardo.13 Opposto, si diceva, il giudizio di Gadda, che ammira gli studi anatomici di Leonardo14 e osserva come essi non siano affatto estranei alla produzione artistica: «Ferve già l'opera degli anatomisti italiani. E Leonardo, a loro imitazione, incide cadaveri: e stupendamente ritrae» (ML 414). Gadda ammira proprio il rigore dell'osservazione che sa tradursi nella verità dell'opera d'arte. Se Longhi, nella Breve ma veridica storia della pittura, stigmatizzava «l'indifferenza mentale»15 con cui Leonardo passa da uno studio anatomico alla descrizione di una macchina, senza tuttavia giungere a interessarsi in modo organico «della pittura come tale soltanto»,16 Gadda al contrario scrive: Fantasioso certo può dirsi il suo peregrinante ingegno, in quanto precorre ben spesso ogni possa dell'arte (nel senso di tecnica) e del secolo suo: [...] non arbitrio o giuoco; ma un lento cammino della indagine, verso lontane, forse, ma già intravvedute verità. Parlare di un Leonardo ghiribizzone e pieno di fisime [...] mi par troppo (ML 408). Lo scrittore riprende qui un termine, «ghiribizzo», che era già stato usato da alcuni contemporanei con riferimento a Leonardo,17 ma che giunge forse a comprendere le riserve del più influente critico d'arte del Novecento. Si può anzi pensare che la recensione gaddiana alla "Leonardesca" costituisca una risposta polemica proprio alle posizioni di Longhi, di cui Gadda poteva essere venuto a conoscenza anche direttamente grazie alla frequentazione personale con il grande critico. Lungi dall'essere un ghiribizzo, per Gadda i documenti leonardeschi mostrano un «lento cammino» ma sicuro verso la verità. Se Longhi considerava i «quaderni di note scientifiche (Codice Atlantico ecc.)»18 come qualcosa di "allotrio" rispetto ai puri valori formali che la vera opera d'arte doveva incarnare, Gadda afferma perentoriamente: «No: l'appunto di Leonardo è "una cosa seria"» (ML 409) e ne elogia «la stupende evidenza del disegno» (ML 410). Dopo aver espresso la propria ammirazione per il genio leonardesco all'inizio della sua recensione, Gadda procede ricordando il merito principale della mostra, che consiste nell'aver raccolto in modo organico le principali opere artistiche e le ricostruzioni delle opere ingegneristiche di Leonardo: Quest'ordine veramente ci soccorre nel cammino, alleviandoci quello sgomento, quella confusione, che prende ognuno di noi davanti a un compito di troppo superiore alle sue forze [...]. Questi veramente mi paiono i pregi concreti della mostra (ML 402). La recensione prosegue accompagnando quasi per mano il lettore nelle varie sale che si succedono. Si inizia con la Sala dell'iconografia vinciana, dove sono raccolte (spesso in riproduzione fotografica) le principali raffigurazioni di Leonardo, dalla Scuola di Atene di Raffaello (nelle fattezze di Platone) all'autoritratto del museo di Torino. L'attenzione di Gadda è colpita poi in particolar modo dal David del Verrocchio, le cui fattezze quasi efebiche sembrano ricordargli alcune opere del Manzù, creando un interessante cortocircuito tra Rinascimento e arte contemporanea. Gadda procede passando alla sala dei documenti vinciani, in cui sono presenti alcune significative testimonianze come il contratto che attesta la commissione della Battaglia di Anghiari. Seguono poi, in ordine cronologico, le sale dedicate alla Firenze medicea e alla Milano degli Sforza. È l'occasione per ricostruire le vicende delle due signorie e per constatare, con una certa mestizia, il declino della terra lombarda e, con questa, della stessa civiltà rinascimentale che si avvia verso l'età barocca: In questa Lombardia sforzesca [...] in questo ducato dalla smarrita fortuna sembra dissolversi in un lungo tramonto la luce della ragione rinascimentale: riverberata sul silenzio e sul popolo infinito dei pioppi dalle alte specchiature marmoree dei Solari e delle loro certose [...]. Il passo di Leonardo si è smarrito di là dai pioppi, tra i sogni delle lunghe sere: diserta oggimai questi muri e il loro intonaco giallo, che attende la peste, la Spagna e la Controriforma (ML 405-6). Seguono poi la Sala di Francia, dedicata a Francesco I, e la sala con la biblioteca leonardesca (con copie delle opere citate da Leonardo) che, afferma Gadda, «ci dà brividi di delizia» (ML 407). Si giunge poi alle sale dedicate al Leonardo scienziato: si va dall'idraulica all'ingegneria, dalla botanica all'astronomia e all'anatomia: «Leggiamo e guardiamo in una sorta d'incanto, verso tutte le direzioni della prassi, della conoscenza, del mestiere, del metodo» (ML 412). Si giunge così alle sale dedicate alle opere d'arte di Leonardo e della sua scuola. Gadda cita in modo piuttosto rapido sia le opere assenti sia quelle presenti. Tra quest'ultime si sofferma in particolar modo sul «celeberrimo Battista» (ML 415), che lo scrittore descrive in modo ironico. Il santo gli appare come «equivoco e dulcoroso pollastrone» (ML 415) il quale, «in luogo di pelle e ossa» (ML 415), mostra «una tal quale floridezza, dirò meglio una discreta dose di ciccia» (ML 415). Gadda apprezzerà poi, nella sala delle sculture e dei disegni, un «impennato e spiritatissimo cavallo, che è il solo, impostato così, di quanti monumenti equestri io abbia visto, cioè su larga, batràcica, giustissima divaricazione delle gambe posteriori» (ML 416). Osservando invece i disegni e gli studi per i monumenti equestri per Francesco e Gian Giacomo Trivulzio, Gadda coglie ante litteram un'anticipazione del futurismo: nella «ripetuta lineatura dei colli e delle zampe equine, nel successo temporale delle immagini, e dei bracci e delle teste de' cavalcatori» (ML 416) lo scrittore nota infatti «un certo "cinematismo" pittorico dell'altro jeri» (ML 416). Negativo è invece il giudizio sui leonardeschi e, soprattutto, sugli imitatori del Cinque e Seicento: se si escludono «le poche cime della catena, qualche mirabile Solari o Foppa, alcuni buoni santi verdastri del buon Fossano» (ML 416), la «folla indicibile degli altri, tutta la cartabrèga (per dirla alla lombarda)» (ML 416) è etichettata in modo netto come «più o meno scolaresca o seguace o divota o sciocca» (ML 416). Con grande ironia Gadda commenta una Vergine delle rocce presente nella raccolta Marietti-Sormani che offre impagabile documento della pietosa, casalinga, morigerata e maìdica stupidità di certa pitturella cosiddetta lombarda: dico maìdica perché proprio ha l'aria di preannunziare il mais, o formentone, e costituisce a proprio personaggio tipo la moglie del buon sarto dei Promessi Sposi, addobbata in Sant'Anna o Sant'Elisabetta (ML 417). Nella recensione alla "Leonardesca" Gadda dedica alle opere tecniche e ingegneristiche di Leonardo uno spazio certamente maggiore rispetto alle opere d'arte, complice il particolare interesse per il Leonardo ingegnere. Lo scritto attesta comunque l'ammirazione e l'importanza che Leonardo riveste per Gadda. Questi ammira nel genio di Vinci la Doppelbegabung, la straordinaria tensione conoscitiva che si traduce nel tentativo di comprendere ogni aspetto dello scibile, ma anche lo stile icastico, capace di rendere visivamente quanto l'autore cerca di descrivere e comprendere.
3. Per il pittore Dario Neri
Dal 12 al 23 gennaio del 1946 ha luogo a Firenze, presso la «Galleria Michelangelo», una mostra dedicata alle opere di Dario Neri, importante figura di artista-imprenditore senese (fonderà tra l'altro la casa editrice Electa). Il 17 gennaio del 1946 Gadda legge a «Radio Firenze» un breve testo dedicato all'esposizione, che sarà incluso (senza titolo) nel catalogo della mostra edito solo nel 1978 a cura di Enzo Carli. Il testo del breve intervento radiofonico sarà poi pubblicato nuovamente su I quaderni dell'Ingegnere.19
In questo breve ma denso intervento Gadda propone una lettura antropologico-simbolica delle opere di Dario Neri, «il pittore della campagna senese» (DN 43). Lo scrittore individua la principale peculiarità tematico-stilistica delle opere dell'artista in una sorta di "realismo lirico-simbolico". La sua produzione è infatti animata da un duplice aspetto: il documentario e il patetico. Il documento paesistico non è in Dario, una semplice raccolta di dati. I dati del paesaggio divengono istanze predominanti del suo lirismo: l'amore si trasforma in una operosa diligenza, la silloge devota si tonalizza in una rimemorazione (DN 44). Da una parte vi è dunque un dato realistico, vale a dire la descrizione geologicamente precisa del paesaggio senese, dall'altro il dato descrittivo e oggettuale viene trasfigurato liricamente sicché il paesaggio giunge ad assumere i tratti di una sorta di entità mitica: «La curiosità strettamente informativa si sublima allora in un abbandonato rivolgersi del nostro sogno al recondito pensiero e alla bellezza terrestre: alle innumerevoli significazioni della Madre, della Bona Dea» (DN 45). Ecco allora che la campagna viene personificata e assume le fattezze di una entità vitale («Siena è là, talora, nel fondo, così dolcemente sdraiata nei vapori e nei lumi vari del giorno! come l'amata non raggiungibile», DN 44), si manifesta come una Magna Mater cui l'individuo può ricongiungersi attraverso lo sguardo pittorico, che assume la funzione di un vero e proprio «rito orfico» (DN 44). Trova così espressione, nelle tele dell'artista toscano, una rinnovata condizione edenica, una nuova età dell'oro: Tale doveva abbandonarsi l'animo d'Adamo, nella contemplazione della nudità paradisiaca. Le tradizioni dell'età prisca degli uomini, d'un tempo dorato, altro non sono se non una reminiscenza di questo stadio lirico e amorosamente infantile del nostro conoscere [...] quando il mondo obiettivato, le cose, gli oggetti [...] si imprimono indelebilmente nel nostro "entusiasmo": o noi ci infondiamo in loro (DN 45). Lo sguardo dell'artista rinnova dunque lo sguardo adamitico, fanciullesco, che ritrova una nuova, "entusiastica" Einfühlung tra soggetto e mondo. Tale rinnovata unione tra individuo e paesaggio, osserva Gadda, si manifesta nei toni luminosi di una nuova condizione edenica, ma talvolta il richiamo alla Magna Mater assume un carattere ctonio, diviene «un memento dell'Erebo» (DN 47) che trova espressione nei toni bigi e cupi delle Crete. La pittura di Neri, afferma ancora Gadda, sembra dunque percorsa da un «tacito dissidio: tra lo spaziare della luce e il doloroso ripetersi del materno richiamo» (DN 47). Alla base dell'interpretazione gaddiana tuttavia, è opportuno sottolinearlo, non vi è alcun cedimento a teorie spiritualiste o decadentiste. Al contrario, essa ha le sue radici in quella visione "sistemica" e positivista che caratterizza la gnoseologia dello scrittore e che ha la sua espressione più paradigmatica nell'immagine del grumo o dello gnommero. Gadda esplicita questo assunto in un breve excursus: Permettetemi una parentesi. La nostra anima è legata agli oggetti e ai simboli che la circondano, alla realtà obiettiva che la avviluppa [...]. Sede della nostra vita profonda potrà essere la scatola più o meno vuota della nostra "interiorità", ma in questo secreto volume convergono folte le immagini delle case e delle persone, i doni che diciamo "esotici" del mondo che ci ostiniamo a chiamare "esterno" per un pregiudizio meramente topografico. La nostra anima non è se non un groppo di relazioni e di vincoli che ci avvicinano all'universo (DN 44). Lo stretto legame tra il soggetto e il paesaggio è una conseguenza, nella visione gaddiana, della struttura complessa e "relazionale" del mondo.
4. Franca Corcos
Nel 1947 Gadda scrive una recensione intitolata Franca Corcos20 e dedicata alla pittrice toscana che, dopo un lungo viaggio nell'Africa settentrionale, torna a Firenze dove organizza una mostra nel gennaio di quell'anno. Gadda "legge" infatti le opere esposte alla mostra come una sorta di «carnet d'etudes che è del pari carnet de voyage» (FC 951): esse registrano e documentano un percorso geografico, ma attestano altresì di un percorso di maturazione («alludo al viaggio di conoscenza e di perfettibilità interna: da Firenze all'Oceano», FC 951) che trova espressione nelle diverse modalità pittoriche e soprattutto cromatiche che connotano le opere realizzate nelle diverse fasi del viaggio. Se le «istanze tematiche dei colori di là, del Marocco francese, si arrogavano d'impeto il possesso dell'intelletto, e de' suoi modi e mezzi» (FC 951), se «Il Marocco e l'Algeria suggeriscono a Franca i toni bloccati [...]: sopraffazioni rettangolari, accostamenti a un opaco stare delle cose» (FC 953), nelle tele realizzate a Firenze si può ammirare «una notazione oggettivata, la nuova testimonianza di un colore più fresco [...]. Il velo africano si dissipa nella limpidità nuova e sicura, d'un senso recuperato» (FC 954).

5. Adriana Pincherle
A un'altra pittrice è dedicato Adriana Pincherle,21 testo di una conversazione radiofonica che Gadda realizza per la RAI nel 1947. L'occasione è la mostra che la Pincherle, sorella di Alberto Moravia nonché amica di Gadda, tiene nel maggio dello stesso anno presso la Galleria «Vigna Nuova» a Firenze.
Gadda coglie da subito, come elemento caratterizzante alcune delle opere esposte nella mostra, un «intento ironizzante, un po' alla De Chirico» (AP 1145). Questo vale in particolar modo per un ritratto dello stesso Gadda fatto dalla Pincherle e oggi conservato presso il Gabinetto Viesseux di Firenze (fig. 3). Lo scrittore rievoca, con una certa ironia, le circostanze della composizione: Era gennaio. Sembra che durante la posa l'ora caritatevole mi soffondesse il volto di porpora, che potremmo chiamare. giovanile: colei che ricreava le mie fattezze non abusò di questa porpora: mi attribuì dei rossi: ma anche dei verdi (AP 1145). Gadda cita di seguito due autoritratti dell'artista, uno dei quali mostra, per il carattere trasognato che lo connota, un «avvio surrealistico» (AP 1145). Lo scrittore apprezza poi i paesaggi toscani e liguri raffigurati dalla pittrice: I «paesi» dell'Adriana m'invitano, i toscani, i liguri. Vorrei trascorrere nell'uliveto, discendere al mare, tra le mattutine luci: che sono per me quella di una remota e appassionata intuizione della patria (AP 1146). Delle raffigurazioni di interni e delle nature morte egli apprezza soprattutto l'elemento coloristico che ricollega sinesteticamente alla sfera uditiva della musica: Il suo colore canta. Folte apprensioni cromatiche, stacchi e disgiunzioni repentine: come in musica, un salto repentino: dalla nota acquisita, ad altra e lontana (AP 1146). Gadda coglie infine, come ultimo tratto caratteristico dell'arte della Pincherle, l'assenza di profondità e tridimensionalità, il cui senso viene realizzato attraverso la giustapposizione di campiture cromatiche: Gli attributi della terza dimensione vengono piuttosto presunti che costruiti in fabbrica: per allusioni tonali, in un sottinteso, fatto di obbiettivazioni tonali, (i fiori, il tavolino, il fondo): per giustapposizioni di colori distinti, per delimitazioni, per interruzioni veementi di zone di colore (AP 1146).
6. Tirinnanzi
La recensione intitolata Tirinnanzi (1949)22 viene scritta da Gadda come presentazione-invito per la mostra dell'artista toscano Nino Tirinnanzi che ha luogo presso la «Galleria Chiaruzzi» di Roma il 29 novembre 1949. Sarà pubblicata poi nel catalogo della mostra solo nel 1970.
Il testo della recensione risulta bipartito. La prima parte ha una chiara valenza metapoetica e inizia con una domanda "retorica" di carattere squisitamente estetico: «La inquieta ricerca dei possibili o forse degli impossibili strumenti di liberazione (dai muri claustrali del dato, dal cerchio dei paradigmi) può costruire per se sola il motivo di una carriera poetica?» (T 973). Per Gadda la risposta è certamente affermativa: la creazione artistica (e letteraria) è animata da una tensione noetica che mira ad andare al di là del mero dato empirico, alla ricerca di nuove vie per comprendere ciò che si cela dietro la complessità del reale. Lo scrittore milanese osserva poi come tale tensione conoscitiva, nelle estetiche della prima metà del Novecento, si traduca in una svalutazione del contenuto a favore delle modalità di raffigurazione: «Una siffatta ricerca sembra oggi volgersi non tanto ai temi quanto piuttosto al metodo e in genere ai modi di lavoro, sembra indurre l'artista a una graduale svalutazione del contenuto» (T 973). L'autore procede ricordando come compito dell'artista consista, in un certo senso, nell'opporsi alla tradizione precedente, nel realizzare qualcosa di nuovo: L'artista non può manifestarsi al copiare, al rifare il già fatto. Il modo di vedere e di rappresentare venutogli da una tradizione consumata, da un ambiente ormai saturo, da una scuola troppo certa dei propri mezzi, egli lo ha in odio e lo ripudia come il tetro muro del carcere (T 974). E tuttavia l'artista non può prescindere dalla tradizione perché essa ne sostanzia ogni atto di significazione: Quanto all'agente, poi, all'attivo essere dell'operatore, dell'artista, be', i confini di quest'essere non sembrano linearsi del tutto in persona, contenersi nella persona fisica di lui. Sembrano invece dilatarsi, a raccogliere o a contrastare le voci dei molti altri [...]. Ingannevole presunzione il credere, o lo sperare, d'essere soli al lavoro (T 974). L'artista non è mai "solo" quando lavora, non può prescindere dalla tradizione che lo precede, nei confronti della quale si trova comunque in una relazione sostanziale, che sia di condivisione o di opposizione: Per simpatia o per contrasto, per imitazione o per avversione, o parodisti o polemici, o idolatri o blasfemi, noi lavoriamo con gli altri, dopo gli altri, al seguito degli altri, contro gli altri [...] il nostro pennello è guidato sulla tela da una mano che esonda i limiti proverbiali di persona, quelli che ci ostiniamo a ritenere chiusi e finiti, impermeabili a ogni osmosi, ad ogni virus (T 974). Sono qui presenti due importanti assunti della poetica gaddiana: l'autore è considerato come un "nodo" all'interno di una complessa rete di relazioni che lo connette agli artisti del passato. Si tratta di una concezione "sistemica" che Gadda condivideva con Longhi, secondo il quale ogni opera d'arte si pone in correlazione con tutte le altre opere del passato.23 Da questo assunto poetologico consegue che ogni opera artistica è necessariamente anche il frutto della citazione e combinazione delle opere precedenti. Nella seconda parte del saggio Gadda vede l'opera di Nino Tirinnanzi come un esempio paradigmatico della sua concezione "sistemica" dell'arte. L'artista «oscilla» tra il distacco nei confronti della tradizione e il suo recupero: La ricerca di Tirinnanzi sembra oscillare tra questi due opposti momenti, tra questi due poli egualmente crudeli della consapevolezza critica. Egli sembra concepire il suo itinerario sotto specie di un doveroso (quand'anche rispettoso), di un laborioso distacco dalle arche gentilizie del tosco tempio [...]. D'altronde i fantasmi tematici vaporati fuori dal tempio [...] sono immanenti al lavoro (T 975). Ancora una volta, riflettere sulla produzione degli artisti e dei letterati offre a Gadda l'occasione per riflettere e manifestare i principi fondamentali della propria poetica.
7. L'opera grafica di James Ensor
Tra il gennaio e il febbraio del 1950 viene organizzata presso la Strozzina di Firenze una mostra dedicata alle incisioni di James Ensor dal titolo: L'opera grafica di James Ensor. Per quell'occasione viene richiesta a Gadda una prolusione pubblica, il cui testo sarà pubblicato sulla rivista «Letteratura» (1950) con il titolo Una mostra di Ensor e andrà poi a far parte della raccolta di saggi I viaggi la morte.24
La recensione, che mantiene intatto il tono allocutorio tipico di un discorso pubblico, risulta così scandita: dopo un'iniziale dichiarazione di modestia,25 segue una sezione biografica, in cui Gadda ricorda alcuni dettagli biografici dell'artista, e una sezione per così dire "teorica", dove lo scrittore ricostruisce la teoria della visione secondo Ensor. In entrambe le sezioni Gadda traduce e cita direttamente alcuni passi tratti da scritti ensoriani.26 Nell'ultima parte della recensione Gadda cita e descrive alcune opere esposte in mostra. All'inizio della parte biografica, Gadda ricorda come le opere dell'artista, se si eccettua l'ultima fase della sua vita, siano state accolte con disinteresse, quando non con esplicito disprezzo. Questa è una delle motivazioni che porterà Ensor a raffigurarsi spesso, nelle sue opere, come alter Christus: si pensi a un'incisione come Calvario (1886), in cui il critico d'arte Eluard Fétis infligge a Cristo/Ensor il colpo finale, a Ensor al cavalletto (1890), in cui la figura del pittore e quella di Cristo sono accomunate dalla presenza di un'aureola, o alla sua opera più celebre: L'entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 (1888). A questa costellazione semantica sembra alludere Gadda, quando utilizza la metafora della "corona di spine": So che amava il mare e la landa, che dovette vivere in solitudine, coronata dagli spini dell'incomprensione e del dileggio: che nessuno voleva comperare le sue tele: che lo chiamavan pazzo e misantropo: che il riconoscimento fu lento e, rispetto alla sua vita mortale, dolorosamente tardivo [...] (E 588). Ed è probabile, come è stato notato da Nicoletti,27 che lo scrittore si identifichi in modo proiettivo con Ensor nella misura in cui entrambi furono segnati da incomprensione e solitudine. Gadda si sofferma poi sulla prosa di Ensor, che, nella sua tendenza alla caricatura e alla deformazione, nel suo carattere "barocco", egli doveva sentire come assai vicina alla propria: la sua prosa è tra le più caustiche delizie in cui mi possa imbattere. [...] La sua «prosa nervosa» deformatrice, gli spunti critici illuminati, il coraggio, la «verve» polemica, l'audacia della caricatura fanno di lui uno scrittore: uno scrittore divertente (E 588). Un evidente barocchismo caratterizza anche le citazioni dei testi ensoriani che Gadda traduce e inserisce nella recensione e che considera particolarmente importanti per comprendere le opere dell'artista. La prima riguarda un ricordo infantile di Ensor: Chiave d'apertura per comprendere certi suoi temi insistenti: «Una notte, mentre riposavo nella mia culla, in un camerone rischiarato da lampade, con tutte le finestre aperte sul mare, un uccellaccio del mare attratto dalla luce venne a sbattere davanti a me, facendo sussultare la culla. Impressione incancellabile, sinistra. Impazzii di terrore, allora. Risento ancora l'urto, nel mio cuore, di quella nera fantasima» (E 588). Segue il riferimento alle storie di fantasmi udite da bambino: «E così pure ogni misteriosa storia di fate, di orchi, di temibili giganti: racconti variegati o chiazzati, a pelle di pantera: pepe e sale, grigio e argento, impressioni terribili» (E 588). Vi è infine l'allusione a un luogo unheimlich come la «soffitta paurosa» di casa: tutta piena di ragni giganteschi, orribili, e di un indescrivibile bazar di conchiglie, di piante, di ricci e di stelle e di ippocampi secchi dei mari lontani, di belle maioliche polverose, di vecchie marsine e di vecchie bautte color ruggine, o color sangue: di coralli, di scimmiotti imbalsamati, di sirene vizze, di tartarughe vuote, di cinesi impagliati (E 588). Il barocchismo dello stile (di Ensor e di Gadda) è evidente, stilisticamente, nel ricorso alla enumeratio e, tematicamente, nel richiamo agli oggetti desueti. Si potrebbe anzi affermare che l'arte di Ensor sia "barocca" nella misura in cui si caratterizza come il luogo in cui si manifesta il «ritorno del represso»:28 essa raffigura il trauma (gli eventi infantili), il non funzionale (gli oggetti desueti), il rovesciamento del principio di identità (nei temi della maschera e del carnevalesco). Alla sezione biografia segue la parte "teorica". Qui Gadda cita alcuni passi in cui Ensor esprime una vera e propria «teoria della visione». L'atto della visione, secondo l'artista, avviene in tre fasi e in modo progressivo: La visione prima, quella di tutti, è la semplice linea, nella sua schematicità elementare, senza ricerca e senza apprensione del colore. La visione seconda è quella per cui un occhio più esercitato. ha appreso a discernere i toni, le delicate gradazioni. L'ultima è quella dell'artista: egli "vede" i sottili giochi della luce, il suo frantumarsi nelle combinazioni infinite, i suoi piani di posa, il suo gravitare, il suo discendere. Una visione "progressiva" modifica la prima percezione, la visione prima e volgare: la linea si deforma, è declassata a una entità secondaria (E 589). Gadda rinnova le sue dichiarazioni di modestia affermando di non poter «dibattere» gli «apoftegmi» (E 589), vale a dire le citazioni tratte dagli scritti di Ensor. Quello proposto dallo scrittore è un «vago intento biografico, esegetico: esegetico per mio uso e consumo, ben inteso» (E 589). Gadda passa poi ad analizzare alcune opere esposte nella mostra. Egli osserva anzitutto come la pittura di Ensor sia «caratterizzata da un abbandono risoluto d'ogni precedente di scuola, da una ricerca ininterrotta» (E 589). La sua opera non si lascia incasellare in una specifica tendenza artistica: Ensor appare da un lato erede di una molteplice tradizione pittorica («Ha dietro di sé i fiamminghi, e, dicono, Watteau, e soprattutto Goya», E 590), dall'altro anticipa espressionismo e surrealismo: Questa ricerca, assistita dalla felicità del suo ingegno, lo conduce a presagire, o addirittura a scoprire, taluni modi o mezzi, o certe affermazioni critiche di movimenti che verranno poi, dall'espressionismo al surrealismo (E 588-89). L'opera dell'artista non si lascia nemmeno periodizzare in fasi specifiche: «E, dicono i migliori critici, Ensor non si lascia neppure "periodare", non si lascia incantonare nei "periodi", primo, secondo, terzo, quarto periodo, come un bimbo in castigo nel cantone» (E 590). Gadda è inoltre colpito dal carattere «proteiforme» della sua opera: «La prima cosa che m'ha colpito, all'osservare le incisioni, è la varietà multiforme dei soggetti, e però dei modi di trattarli» (E 590). Lo scrittore procede poi analizzando e descrivendo più precisamente alcune delle incisioni presenti in mostra. Egli è colpito anzitutto dalla finezza del tratto grafico che, nelle incisioni raffiguranti due cattedrali, «raggiunge la finezza del ragnatelo» (E 591) o giunge a creare una sorta di «mineralizzazione, di fossilizzazione dei reggimenti e della moltitudine stipata» (E 591). Ne Il mio ritratto nel 1960 (fig. 4) la frammentarietà del tratto evoca invece «quel disfacimento medesimo di che patirà, disseccato, il cadavere: ad ogni epica il suo esametro: qui l'esametro del tratto, rompendosi, cancellandosi in bianche cesure, accompagna la dislocazione delle ossa» (E 591). Si noti qui l'assimilazione del tratto grafico all'esametro («l'esametro del tratto»): agli spazi bianchi dell'incisione, alle sue "fratture", corrispondono le cesure dell'esametro in un testo poetico e, iconicamente, le fratture delle ossa del corpo. Gadda realizza qui un cortocircuito tra la componente iconica, ritmica e semantica del segno linguistico e sembra recuperare alcuni sperimentalismi proto-espressionisti di inizio Novecento.29 Tratti espressionisti presenta anche l'incisione I diavoli Dziltis e Hi-ha-nok portano Cristo all'inferno (fig. 5), di cui Gadda fornisce una delle ecfrasi più significative della recensione: Nel numero 88, I diavoli Dziltis e Hi-ha-nok portano Cristo all'inferno, il fasto barocco un po' alla Louis XIV si appoggia sulla maestà fittizia d'un segno e d'uno stile curvilineo, come a suggerire la certezza che ogni rotondità ornamentale, ogni rotondo ventre, o pancia, o ghirigoro di bellìco sarà consegnato a friggere al demonio. La coda dell'un diavolo è intrecciata a tortiglione barocco, come d'un cavallo di Gondrand: stercorarie emissioni, di quell'altro, tengono le veci della coda. Il forcone ha ornamenti pesanti, degni d'un candelabro seicentesco. La sola entità non barocca è il nero Cristo spaurito, oltraggiato, e pure alonato di luce. Ma l'un diavolo, il più possente, il più turpe, con mature polpe di femminone in baldoria, gli ha messo una mano attorno al collo, sguaiatamente. Dal trono di Satana-scheletro discende infinitamente il serpente, è un'unghia del piede dello scheletro divenuta serpe in eterno: serpe denutrito, scheletrito. Galline col cilindro in testa, batraci alla Louis XIV. Dov'è andato a finire, qui, il pizzo marmorizzante della cattedrale di Aquisgrana, o di Ostenda che sia? (E 591). Lo scrittore coglie da subito il carattere barocco dell'incisione nel «fasto» (E 591) della composizione e nella presenza preponderante della "linea curva" che caratterizza, ad esempio, le forme e i corpi dei diavoli. La coda di un diavolo è definita «tortiglione barocco», immagine affine a quella del «cavaturacciolo» che Gadda utilizza ne Il primo libro delle Favole come metafora della prosa barocca. Lo scrittore si sofferma altresì sul forcone di uno dei due diavoli, che ha «ornamenti pesanti, degni d'un candelabro seicentesco» (E 591), e sulla coda dell'altro diavolo che è in realtà costituita da «stercorarie emissioni» (E 591). Il dettaglio scatologico rimanda al carattere "carnevalesco" della raffigurazione, cui non sfugge nemmeno la figura del «nero Cristo», che appare «spaurito, oltraggiato, e pure alonato di luce» (E 591), su cui uno dei diavoli, «il più possente, il più turpe, con mature polpe di femminone in baldoria [...] ha messo una mano attorno al collo, sguaiatamente» (E 591). L'attenzione di Gadda si rivolge poi all'artiglio di uno dei diavoli, la cui forma ricorda quella del serpente edenico. Lo scrittore fornisce, con la sua ecfrasi, uno straordinario esempio di «equivalente verbale» dell'opera di Ensor: il «fasto barocco» dell'incisione trova il suo analogon verbale in una prosa caratterizzata dalla enumeratio, da un lessico che vede la presenza di termini preziosi («bellìco», «polpe», «batraci») mescidati in modo stridente con espressioni appartenenti a un registro stilistico basso («friggere al demonio», «stercorarie emissioni»). Si noti altresì il ricorso ad antitesi (il «nero Cristo» è «oltraggiato» e allo stesso tempo «alonato», nesso sottolineato tra l'altro da omoteleuto) e a figure si suono: la descrizione del serpente è caratterizzata, a livello fonico, da una martellante allitterazione del fonema /s/ («dal trono di Satana-scheletro discende [...] il serpente, è un'unghia del piede dello scheletro divenuta serpe in eterno: serpe denutrito, scheletrito», E 591), che assume, tra l'altro, valore fonosimbolico e iconico poiché, secondo una strategia retorica tipicamente barocca, essa riproduce visivamente l'immagine del serpente.30 Dopo un rapido cenno ad alcune opere che raffigurano i paesaggi di Ostenda, Gadda passa ad analizzare l'incisione L'entrata di Cristo a Bruxelles (fig. 6), che è una replica dell'opera forse più celebre di Ensor: L'entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889. Rispetto alla tela, lo scrittore ritrova nell'incisione «lo stesso lirismo sarcastico, lo stesso sdegno contenuto: la stessa opulenza borghese». Nell'immagine di Cristo, che Ensor raffigura privato di ogni sacralità, mentre entra a Bruxelles circondato da una chiassosa e grottesca folla di fantocci mascherati, Gadda riconosce ancora una volta un alter ego dell'autore: «C'è tutto Ensor, c'è la sua tacita e dolorosa iperbole: a vedersi, a sentirsi trasfigurato nel Cristo. Ogni vero artista in certo senso, ha da portare la sua croce, ha da salire il suo Golgota (E 592)». Lo scrittore si sofferma poi sul tema del carnevale, centrale nell'opera di Ensor: Da questo mondo pieno di colore di eleganza e di polvere, da questa sublimazione d'un carnevale ipotetico a motivo centrale dell'anima e del lavoro, egli ha cavato la sua nozione e il suo conforto: quello, soprattutto, di poter definire in colore e in disegno il carnevale reale dell'umanità (E 593). Ensor ha saputo raffigurare «il carnevale reale dell'umanità», di cui stigmatizza i vizi e le ipocrisie attraverso il motivo della maschera, che tipizza e astrae i vizi individuali. Gadda coglie in questo il magistero di Bosch ma soprattutto di Goya: Dietro di lui era, nell'antico magistero, il volto umano, psicologicamente individuato, di Hieronimus Bosch, il grande maestro di sua gente. [...] Ma c'era anche, altrove, la smorfia tipicizzante, e in certa misura astraente, di un Goya. La maschera è per Ensor il mezzo prediletto, a raggiungere questa tipologia dei caratteri, dei loro vizi, delle loro imperfezioni, delle loro infermità. Ogni vizio ci singolarizza, perché ogni vizio ci «separa», ci «astrae» dal nostro destino più vero: e deturpa il volto a una smorfia, se pure involontaria (E 593). Lo scrittore riconosce dunque in Ensor certamente un modello che, grazie a una pittura e una prosa definite esplicitamente come barocche, riesce a raffigurare il carattere caotico e «carnevalesco» della realtà.31
8. Per Filippo De Pisis
La recensione Per Filippo De Pisis32 viene redatta nel 1952, anno in cui Carlo Ludovico Ragghianti organizza presso la «Strozzina» una mostra su De Pisis con un centinaio di opere. Per l'occasione a Gadda viene richiesto un contributo da pubblicare poi sul catalogo, pubblicazione che non avrà luogo per mancanza di fondi. Il testo apparirà postumo su «Critica d'arte» nel 1988. Si riporta qui di seguito l'inizio della recensione:
Un accenno quasi inavvertito del colore, una significazione segreta delle immagini, il rimpianto di un attimo del nostro conoscere, un raggio tra i grigi opachi repentino, una inconsueta battuta di luce, quasi pizzicato da una gialla arpa, un segno della solitudine incombente, una stanca foglia, un ricciolo di pietra bianca dai secoli o un pinnacolo fattosi lancia e fattosi ago scarlatto, la corteccia di un platano come un cartoccio asciutto e tuttavia colmo dei più teneri verdi del pisello e dei bianchi del guanto, un pioppo che l'autunno spoglia, che novembre annerisce, un'acqua che riflette le lunghe lame e le squamme e i filamenti dei grigi, dei viola, dei bleus cupi, e le nere virgole del tempo che dall'ora e dalla proda e dal ramo di tristezza ad una ad una si spiccano, quel tratto seminero o quella stella di porpora o, invece, color caffè, quel groviglio mal semplificato in un rebus, o il grigio argento e lo splendente squillo del secolo, del nuovo secolo: con trepida celerità la memoria ha buttato in tela la sua nota, vi ha coagulato alla lesta la sua vibrazione archiviante: non arriva ad occupare la tela col dettato supervacaneo della compiutezza, a creare una cupola di circostanze attediate, e tanto meno il tappeto stipato del colore (FDP 1151). In un'unica, lunghissima "campitura" sintattica Gadda riproduce, attraverso una ricca serie di «equivalenze verbali», le principali soluzioni tematiche e stilistiche di De Pisis. La rapidità delle pennellate («accenno quasi inavvertito del colore») trova espressione in una fitta serie di metafore che rimandano all'area semantica della conoscenza («significazione segreta delle immagini», «rimpianto di un attimo del nostro conoscere») o alla dimensione visiva («un raggio [...] repentino, una inconsueta battuta di luce») e uditiva («con trepida celerità la memoria ha buttato in tela la sua nota, vi ha coagulato alla lesta la sua vibrazione archiviante»), realizzando assai spesso effetti sinestetici («quasi pizzicato da una gialla arpa», «splendente squillo del secolo»). Il tocco dell'artista trova poi traduzione in una sintassi nominale prevalentemente paratattica, costituita dalla giustapposizione di cola spesso assai brevi.33 Nel riferirsi agli elementi cromatici Gadda ricorre poi a figure di suono che assumono spesso valore fonosimbolico. Ad esempio, nella frase «un ricciolo di pietra bianca dai secoli o un pinnacolo fattosi lancia e fattosi ago scarlatto» prevalgono liquide e dentali (/r/, /t/), a suscitare la durezza materica della pietra, ma è presente anche l'allitterazione della vocale /a/, spesso in posizione tonica («bianca», «pinnacolo», «lancia», «fattosi ago scarlatto»), e della vocale /i/ («bianca», «pinnacolo», «lancia», «fattosi»): la prima evoca il colore bianco, la seconda, secondo una strategia retorica barocca già osservata nella recensione su Ensor, sembra giocare con gli elementi iconici del grafema /i/, che rimanda all'immagine stessa dell'ago, sottolineata tra l'altro dal suono acuto e penetrante della sibilante /s/. Gadda ricorre dunque, con grande abilità e virtuosismo, a veri e propri pictorialism,34 vale a dire a soluzioni espressive che cercano di imitare nel linguaggio le tecniche pittoriche. Nel prosieguo del testo Gadda coglie un'ulteriore caratteristica della tecnica di De Pisis, che consiste nel lasciare allo stato grezzo parte della tela: «La materia-tela riceve incarico diretto del segno, della pennellata, ad accogliere e ad archiviare senza tema di dispersione il labile attimo di conoscenza» (FDP 1151-52). Gadda passa a individuare i principali soggetti dell'opera di De Pisis. Egli ricorda anzitutto le nature morte con scene di cacciagione.35 Il motivo qui presente è quello tipicamente barocco del tempus edax, Gadda va però oltre il tradizionale immaginario barocco e afferma che non solo il soggetto raffigurato («la beccaccia cadente dal suo volo [...] sarà tra cent'anni, forse, uno scheletro secco, inane ghirigoro della polvere», FDP 1153), ma anche il suo supporto materiale, vale a dire tela e colori, andranno incontro al disfacimento: Il tempo suole inaridire i colori, operare sui vivi e sui loro sguardi con silente pertinacia: e annichila, dopo le pupille che videro, le cose vedute. Perverrà forse a disseccare queste virgole, queste gocce, sublimatesi in disperata memoria (FDP 1152). Nella riflessione gaddiana il confine tra signans e signatum viene meno, il raffigurato varca il limite della tela per fagocitarne il supporto materiale e sottoporlo alle «calunnie del tempo» (FDP 1152). Gadda ricorda poi, tra i soggetti preferiti da De Pisis, le marine e le vedute cittadine: nel primo caso lo scrittore allude chiaramente a Natura morta marina con ananas (1931), «con lo squamato ananasso addormitosi nella battigia» (FDP 1152); nel secondo caso cita le raffigurazioni di San Cosmè e di San Moisè (fig. 7): E San Moisè, nella penombra, si aggruma, tace arricciolato negli argenti: raggrinza le sue spire doviziose nella dovizia de' suoi peccati, cuoce nella segretezza delle confessioni. O altrove e ad altra ora cangia, invece, e baratta la sua letizia senza causa nella fatuità d'uno stucco. Ricangia a piombo e ad argento: per la oscura festa degli argentieri, dei prestatori di denaro, dei venditori di tappeti (FDP 1152-53). Anche in questo caso Gadda ricorre a "pittorialismi" che cercano di riprodurre verbalmente quanto raffigurato sulla tela: il carattere materico e scomposto della pennellata dell'artista viene reso attraverso personificazioni e metafore, che fanno dell'edificio una sorta di creatura vivente («San Moisè si raggruma», «arricciolato», «raggrinza le sue spire»), attraverso sinestesie («nella penombra [...] tace») e allitterazioni («si aggruma», «arricciolato», «argenti», «raggrinza le sue spire»). La tela di De Pisis ha poi come modello le vedute della cattedrale di Rouen, che Manet raffigura con il variare della luce. Gadda forse vi allude descrivendo a sua volta i mutamenti cromatici che caratterizzano l'edificio al variare della luce ambientale («nella penombra [...] si aggruma [...] ad altra ora cangia [...] Ricangia a piombo e ad argento»). Il testo gaddiano termina con un confronto tra il trattamento del colore in De Pisis e in Tintoretto, autore dei celebri teleri presso la Scuola Grande di San Rocco a Venezia: A ritrarre con liberata pupilla, o con più accesa, quei «modelli» che già permisero ai secoli la coscrizione delle celesti coorti [...] Filippo dispone di un segno attentissimo ove pur soavemente abbandonato alle illècebre della verità [...]. Gli angeli fotografati o sublimati da De Pisis non hanno ali, né portano saio né mantelli: [...] i drappi rossi, i viola, i gialli di Jacopo sono stati riposti nel guardaroba di San Rocco (FDP 1153). Gadda sembra preferire la sobrietà cromatica di De Pisis rispetto alle cromie di Tintoretto, e in questo, come osserva Longo,36 mostra una posizione analoga a quella di Longhi che, ad esempio, in Viatico per la mostra veneziana stigmatizza il «titanismo tecnico»37 del Tintoretto derubricandolo a «pratico maestro».38
9. Una speranza frustrata
Decisamente negativo è invece il giudizio che Gadda esprime su Salvador Dalì in un breve intervento dal titolo Una speranza frustrata,39 pubblicato nel 1954 su «La Fiera letteraria» come risposta a un'inchiesta sull'artista. L'opera di Dalì appare allo scrittore come
un documento frigidamente enfatico dell'irreale, o meglio di certa deformazione operata dal sogno nelle sequenze di immagini reali. Irreale (surreale?) è in Dalì il «sistema» dei segni, la «silloge» dei particolari, la totalità espressiva del dipinto: ma «ogni» segno, «ogni» particolare, «ogni» cellula semantica può riconnettersi al punto di partenza di una signiferazione reale (SF 1115). Il sogno, la deformazione (ad esempio la deformazione linguistica) caratterizzano diverse pagine gaddiane: esempio paradigmatico è il sogno di Pestalozzi nel Pasticciaccio, in cui evidente è l'influenza del dettato freudiano.40 Il giudizio di Gadda su Dalì è però, come si diceva, chiaramente negativo poiché l'elemento onirico e deformante offe un «documento frigidamente enfatico» delle «sequenze di immagini reali». Se la poetica della lingua spastica e della macheronea è funzionale in Gadda a esprimere una comprensione più profonda della realtà, che va oltre il mero dato fenomenico41 proprio attraverso una sua deformazione, il surrealismo di Dalì fallisce in questa impresa poiché decade a sterile voyerismo. La promessa di una comprensione della realtà, di un reale atto conoscitivo, cui Gadda allude attraverso una metafora sessuale, è destinata a rimanere «frustrata» come un amplesso mancato.

N. R.



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Note

1 Il testo si legge in C. E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, Milano, Garzanti, 1991, pp. 780-91, d'ora in poi abbreviato in MAS, cui segue numero di pagina. Sulla recensione si sofferma Francesca Longo in F. Longo, «Leggi: e te tu vedrai». Gadda e le arti visive, Torino, Edizioni dell'Orso, 2018, pp. 88-90.torna su
2 Nel testo Gadda ricorda erroneamente il nome dell'artista, che viene citato come Ermenegildo Pagliari. Un'oleografia di Pagliano compare nell'antro di Zamira Pacori, nel Pasticciaccio, dove assumerà una fondamentale funzione metapoetica. Si veda a tal proposito: M. A. Terzoli, Iconografia criptica e iconografia esplicita nel «Pasticciaccio», in Un meraviglioso ordegno. Paradigmi e modelli nel «Pasticciaccio» di Gadda, a cura di M. A. Terzoli, C. Veronese, V. Vitale, Roma, Carocci, 2013, pp. 145-93, saggio ripreso e ampliato in Ead., Ecfrasi, immaginazione, scrittura. Letteratura e arti figurative da Dante a Gadda, Roma, Carocci, 2023, pp. 35-63.; Ead., Commento al «Pasticciaccio» di Carlo Emilio Gadda, Roma, Carocci, 2015, pp. 470-72.torna su
3 Sulla mostra si veda: R. Cara, La mostra di Leonardo da Vinci a Milano tra arte, scienza e politica (1939), in All'origine delle grandi mostre in Italia (1933-1940). Storia dell'arte e storiografia tra divulgazione di massa e propaganda, a cura di M. Toffanello, Mantova, Il Rio, 2017, pp. 137-61; Id., "Grande regista" e "ordinato costruttore". Giuseppe Pagano e gli allestimenti della mostra leonardesca, in Leonardo 1939. La costruzione del mito, a cura di M. Beretta, E. Canadelli, C. Giorgione, Milano, Editrice Bibliografica, 2019, pp. 67-96.torna su
4 Cfr. Cara, "Grande regista" e "ordinato costruttore" cit., p. 69.torna su
5 C. Vecce, «Avvicinare Leonardo»: Carlo Emilio Gadda alla mostra Leonardesca, in «I Quaderni dell'Ingegnere - Testi e studi gaddiani», n. 5, 2014, pp. 201-221. Sulla recensione leonardesca si veda anche: Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., pp. 90-94; P. Orvieto, Le patologie del non-finito: Leonardo da Vinci e Carlo Emilio Gadda, in Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di A. Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2015; A. Fasano, Una guida d'eccezione. Con l'ingegner Gadda tra le sale della mostra su Leonardo da Vinci a Milano (1939), in Leonardo nel Novecento. Arti, lettere e scienze in dialogo, a cura di C. Mazzarelli, Milano, Silvana Editore, 2019, pp. 258-271.torna su
6 Il testo si legge in Gadda, Saggi giornali favole I cit., pp. 401-18, d'ora in poi abbreviato con ML, cui segue indicazione della pagina.torna su
7 C. E. Gadda, Meditazione milanese, in Id., Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vela, D. Isella, P. Italia, G. Pinotti, Milano, Garzanti, 1993, p. 742.torna su
8 Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., p. 90.torna su
9 Sulla ricezione della Gioconda nel Novecento si veda F. Palma, Un'icona universale dentro (e fuori) il Museo: la "Gioconda", in I cantieri dell'Italianistica. Ricerca, didattica e riorganizzazione agli inizi del XXI secolo, a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassari, F. Tomasi, Roma, Adi Editore, 2014, pp. 1-9.torna su
10 R. Longhi, Le due Lise, in Id., Scritti Giovanili. 1919-1922, Firenze, Sansoni, 1961, p. 21.torna su
11 R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Milano, Abscondita, 2013, p. 95.torna su
12 «Anche questo suo lasciar le opere a mezzo vi può dimostrare qualcosa: certo, una lodevolissima incontenibilità, ma infine anche la incapacità di un concepimento organico di stile semplice, sintetico, di linea o di plastica o di colore», Ibid.torna su
13 R. Longhi, Difficoltà di Leonardo, in Id., Da Cimabue a Morandi, a cura di G. Contini, Milano, Mondadori, 1973, p. 684.torna su
14 Sull'argomento mi permetto di rimandare a N. Ribatti, Il bisturi, lo stilo e il pennello. Qualche riflessione su letteratura e arti figurative in "Anastomòsi" di Carlo Emilio Gadda, in «Margini. Giornale della dedica e altro», n. 16, 2022, leggibile al seguente link: https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_16/saggi/articolo2/ribatti.html .torna su
15 Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana cit., p. 95.torna su
16 Ibid.torna su
17 Si pensi alle parole di Vasari: «ché quel cervello mai restava di ghiribizzare, de' quali pensieri e fatiche se ne vede sparsi per l'arte nostra molti disegni, et io n'ho visti assai», in G. Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Sansoni, 1981, vol. IV, p. 20.torna su
18 Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana cit., p. 95.torna su
19 Si cita da C. E. Gadda, [Per il pittore Dario Neri (1946)], a cura di G. Agosti, in «I quaderni dell'Ingegnere - Testi e studi gaddiani», n. s., 1, 2010, pp. 43-47, d'ora in poi abbreviato con DN cui segue numero di pagina. Sul testo si sofferma G. Nicoletti, Gadda, Ensor e «tutti i pittori di Firenze», in «Antologia Viesseux», n. 85, 2023, pp. 51-71.torna su
20 Il testo si legge in Gadda, Saggi giornali favole I cit., pp. 951-54, di seguito abbreviato con FC cui segue numero di pagina. Sulla recensione si veda Nicoletti, Gadda, Ensor e «tutti i pittori di Firenze» cit., pp. 63-64.torna su
21 Il testo si legge in C. E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti II
, a cura di C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni, D. Isella, M. A. Terzoli, Milano, Garzanti, 1992, pp. 1145-47, d'ora in poi abbreviato con AP cui segue numero di pagina.torna su
22 Il testo è contenuto in Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti I cit., pp. 973-74, d'ora in poi abbreviato con T e indicazione della pagina. Sulla recensione si veda: M. Kleinhans, «Satura» und «pasticcio». Formen und Funktionen der Bildlichkeit im Werk Carlo Emilio Gaddas, Tübingen, Niemeyer, 2005, pp. 158-60; Longo, «Leggi: e te tu vedrai»; cit., pp. 105-06; Nicoletti, Gadda, Ensor e «tutti i pittori di Firenze»; cit., pp. 69-71.torna su
23 Su questo aspetto si veda C. Bologna, «Officina ferrarese» di Roberto Longhi, in Letteratura Italiana, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2007, vol. XV, pp. 375-452, in particolar modo le pagine 382-83.torna su
24 Il testo si legge in Gadda, Saggi giornali favole I cit., pp. 587-594, abbreviato d'ora in poi con E, cui segue indicazione della pagina.torna su
25 «Nessun titolo, cioè nessuna competenza e nessuna autorità io mi riconosco, da poter interloquire in quistioni di pittura, o di disegno, o d'acque forti o punte secche o zinchi o rami che siano. Il mio cervello, in questa materia, come in tante altre del resto, è così squisitamente disabitato, ch'io mi ritrovo in grado di dar ragione a tutti, a tutti i poeti d'Italia come a tutti i pittori di Firenze» (E 587).torna su
26 Giuseppe Nicoletti ha individuato in due monografie di Paul Fierens e Andrè de Ridder le fonti cui Gadda attinge per documentarsi sulla biografia dell'artista. Da questi lavori lo scrittore riprenderà anche le citazioni da opere di Ensor che egli stesso tradurrà dal francese in italiano e inserirà nella recensione, cfr. Nicoletti, Gadda, Ensor e «tutti i pittori di Firenze» cit., p. 53.torna su
27 Ivi, p. 60.torna su
28 Riprendo la categoria di «ritorno del represso» dagli studi di Francesco Orlando. Si veda in particolar modo: F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982; Id., Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1984.torna su
29 Il caso più celebre è Fisches Nachtgesang del poeta tedesco Christian Morgenstern, dove le quantità brevi e lunghe raffigurano iconicamente l'apertura e la chiusura della bocca di un pesce che sta "cantando" un testo poetico. Cfr. C. Morgenstern, Fisches Nachtgesang, in Id., Werke und Briefe. Band III: Humoristische Lyrik, herausgegeben von Maurice Cureau, Stuttgart, Urachhaus Verlag, 1990, p. 65.torna su
30 Simili effetti iconici si ritrovano in numerosi testi di epoca barocca: si pensi a Donna che cuce di Giovan Battista Marino o a De una dama que, quitándose la sortija, se pico con un alfiler di Luís de Góngora. Per una riflessione teorica sull'uso "iconico" del significante si rimanda a G. L. Beccaria, L'autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D'Annunzio, Torino, Einaudi, 1975. Modello per la descrizione di questi diavoli potrebbe essere anche Dante delle Malebolge.torna su
31 Sul carnevalesco in Gadda e Ensor cfr. G. Zaccaria, Le maschere e i volti. Il carnevale nella letteratura italiana dell'Otto-Novecento, Bologna, Bompiani, 2003.torna su
32 Il testo si legge in Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti II cit., pp. 1151-53, di seguito abbreviato con FDP cui segue numero di pagina. Utili osservazioni si trovano in Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., pp. 100-102 e Nicoletti, Gadda, Ensor e «tutti i pittori di Firenze» cit., pp. 65-68.torna su
33 Liliana Orlando (L. Orlando, Verso la Certosa. Nota al testo, in C. E. Gadda, Verso la Certosa, Milano, Adelphi, 2013, p. 524) e Francesca Longo (Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., p.101) ipotizzano che Gadda abbia potuto tener presente anche Alla maniera di Filippo De Pisis nell'inviargli questo libro, poesia che Montale, ne Le occasioni, dedica al pittore: «Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino - / e si librano piume su uno scrìmolo // (Poi discendono là, fra sgorbiature / di rami, al freddo balsamo del fiume)» in E. Montale, Le occasioni, in Id, L'opera in versi, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984, p. 133.torna su
34 Riprendo qui la definizione da James Heffernan, cfr. J. A. W. Heffernan, The Poetics of Ekphrasis from Homer to Ashbery, Chicago, Chicago University Press, 1993.torna su
35 Francesca Longo a tal proposito rimanda a opere come Beccaccia (1938) e Beccaccia appesa (1947), cfr. Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., p. 101. Il soggetto ritorna nel testo montaliano presente ne Le occasioni.torna su
36 Cfr. Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., p. 40.torna su
37 Longhi, Viatico per la mostra veneziana, in Id., Da Cimabue a Morandi cit., p. 656.torna su
38 Ivi, p. 658. Il giudizio di Longhi su Tintoretto risultava meno duro nella Breve ma veridica storia della pittura italiana; il critico constatava, nelle opere dell'artista veneziano, l'acuirsi del dissidio tra disegno e colore già presente in Tiziano, ma ne apprezzava altresì le cromie: «Un'intonazione miracolosa di giallo vibrante è dappertutto: qua e là vibrano dal profondo alcuni laghi bollenti del più bel colore di Venezia», in Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana cit., p. 129. Ai «gialli di Jacopo» allude anche Gadda nella recensione.torna su
39 Il testo dell'intervento si legge in Gadda, Saggi giornali favole I cit., pp. 1115-16, di seguito abbreviato con SF, cui segue numero di pagina. Sul testo si soffermano Kleinhans, «Satura» und «pasticcio», cit., p. 289 e Longo, «Leggi: e te tu vedrai» cit., p. 103.torna su
40 Cfr. F. Amigoni, La più semplice macchina. Lettura freudiana del «Pasticciaccio», Bologna, Il Mulino, p. 191.torna su
41 Per il kantismo in Gadda rimando a F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l'invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001, p. 85-93.torna su