18, 2024
 
Saggi    
 
Abstract


Pietro Delpero

Il Salone dell'Orlando furioso in Palazzo Betta-Grillo a Rovereto.
Un incontro tra pittura e letteratura.




Il Salone dell'Orlando furioso al piano nobile di Palazzo Betta-Grillo a Rovereto, in Trentino, prende il nome dai quattro dipinti a tempera su muro che ne ornano le pareti, i quali rappresentano altrettante scene tratte dal poema cavalleresco di Ludovico Ariosto, accompagnate ognuna da un'iscrizione che riporta i versi a cui si riferisce l'iconografia. Un esplicito rimando del brano pittorico al testo letterario, dal quale è stato ispirato, che diventa un reciproco rinforzo del messaggio, che ci arriva attraverso il doppio canale dell'esperienza visiva − pittorica − e di quella verbale − letteraria. I dipinti sono attribuiti a Giovanni di Dio Galvagni, una personalità poliedrica dell'ambiente culturale roveretano tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento. Infatti oltre che pittore Galvagni fu anche poeta e maestro di disegno presso la Scuola normale di Rovereto. Fondamentale per la sua formazione, sia di pittore che di letterato, fu l'amicizia con Clementino Vannetti, segretario dell'Accademia Roveretana degli Agiati, poeta e letterato in rapporti epistolari con importanti personalità della cultura italiana di fine Settecento, quali Ippolito Pindemonte, Vincenzo Monti, Girolamo Tiraboschi, Melchiorre Cesarotti e Antonio Cesari. Questo ambiente culturale influenzò non solo l'attività poetica del Galvagni, ma anche quella artistica, che traspone in pittura tematiche letterarie come nel caso dell'Orlando furioso, inserendone i personaggi e le scene in un paesaggio arcadico ingentilito da architetture neoclassiche ed edifici vernacolari di fantasia. Giovanni di Dio Galvagni si era formato prima a Verona presso il pittore arcadico Andrea Porta e poi a Venezia. Il suo stile, pur conservando reminiscenze della tradizione barocca, fa riferimento sostanzialmente all'ambiente neoclassico, con l'inserzione di elementi che preludono al romanticismo. I dipinti di Palazzo Betta-Grillo riprendono quattro momenti topici dell'Orlando furioso: Ruggero alla corte di Alcina (Orl. Fur. C. vii); Ruggero salva Angelica dal mostro marino (Orl. Fur. C. x); Ruggero, Bradamante e Marfisa davanti alla tomba del mago Atlante (Orl. Fur. C. xxxvi); la lotta tra Orlando e Rodomonte (Orl. Fur. C. xxix). Il presente studio prende le mosse da un inquadramento dell'ambiente culturale roveretano di fine Settecento per poi passare a delineare i tratti personali, le preferenze stilistiche, le frequentazioni artistiche e letterarie di Giovanni di Dio Galvagni, allo scopo di analizzare e chiarire il rapporto tra brano pittorico e testo letterario nel ciclo di dipinti del Salone dell'Orlando furioso di Palazzo Betta-Grillo a Rovereto.
1. La famiglia Betta, l'ambiente culturale roveretano e l'Accademia degli Agiati: il ruolo di Clementino Vannetti.
La città di Rovereto nel Settecento godeva di una particolare situazione economica perché si trovava sull'asse commerciale della Valle dell'Adige, che collegava i principali centri della Repubblica di Venezia, la fiera di Bolzano e i paesi dell'Europa centrale. Durante la dominazione veneziana, dal 1416 al 1509, a Rovereto fu introdotto il baco da seta e venne avviata la produzione serica.1 Nel Cinquecento, quando la città passò sotto il dominio dell'Impero, Massimiliano i le concesse i privilegi commerciali che le consentirono nel secolo successivo di sviluppare una vera e propria industria della seta, che nel Settecento portò ad uno straordinario sviluppo economico e all'arricchimento di alcune famiglie, le quali decorarono, con affreschi e stucchi, magnifici palazzi, simbolo del loro potere economico.2 Una di queste famiglie fu la famiglia Betta, di origine spagnola, che ricevette il titolo nobiliare tirolese dall'Imperatore Ferdinando I nel 1564. Carlo Antonio Betta fu cancelliere della Fiera di Bolzano e, dopo la sua morte nel 1728 la moglie Lucrezia de Saracini Belforte Molveno, insieme al cugino Giovanni Battista Betta, acquistò il palazzo nel quartiere di Santa Maria a Rovereto, lo fece restaurare e ne fece la sua residenza, mentre il figlio Felice Giuseppe Betta, uno dei fondatori dell'Accademia degli Agiati, fece realizzare affreschi e stucchi tra il 1730 e il 1740. Il fratello di Felice Giuseppe ebbe tre figli, Bonaventura, Carlo Antonio e Felice Giuseppe Betta, che nel 1790 ottennero il titolo di barone da Carlo Teodoro, duca di Baviera, amministratore del Sacro Romano Impero. Bonaventura si sposò con Giulia dei Betta di Chizzola e si stabilì nel palazzo di Rovereto; a lui si deve probabilmente la commissione dei dipinti a Giovanni di Dio Galvagni realizzati tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento.
L'Accademia Roveretana degli Agiati giocò un ruolo fondamentale nella definizione dell'orientamento non solo culturale, ma anche economico e sociale della città. Prese le mosse nel 1750 da un circolo intellettuale che si riuniva nella dimora patrizia di Giuseppe Valeriano Vannetti e della moglie Bianca Laura Saibante.3 L'Accademia, promossa dai ceti nobiliari locali, si proponeva di sostenere le arti e le scienze in una città di cultura italiana, ma con lo sguardo rivolto alla vicina area germanica. Nelle intenzioni dei fondatori doveva caratterizzarsi come istituzione pubblica, alla cui gestione dovevano prendere parte gli esponenti di spicco del mondo economico e della politica. Infatti nel 1753 l'Accademia Roveretana degli Agiati di Scienze Lettere ed Arti ottenne il riconoscimento ufficiale da parte di Maria Teresa d'Austria, che ne ratificò gli statuti e le conferì lo status di istituto scientifico e letterario privilegiato e autonomo. Essa rappresentava allora la più importante associazione culturale sul territorio italiano controllato dall'Impero. Nel 1776 ne divenne segretario Clementino Vannetti: la sua forte personalità lo mise talvolta in contrasto con l'ambiente cittadino, mentre cercò un avvicinamento alla corte viennese, per il tramite dell'amico Joseph Sperges, allo scopo di favorire e mantenere il legame tra Italia, Tirolo e Austria, nonostante la progressiva riduzione dei privilegi cittadini da parte del potere imperiale. E proprio il segretario dell'Accademia, Clementino Vannetti, divenne il protettore e il mentore di Giovanni di Dio Galvagni, che lui conobbe a Isera, un piccolo borgo vicino a Rovereto, dove la nobile famiglia Vannetti trascorreva il periodo estivo.
2. Giovanni di Dio Galvagni, pittore e poeta.
Per comprendere appieno i caratteri peculiari degli affreschi del Salone di Palazzo Betta-Grillo dobbiamo innanzitutto approfondire la conoscenza del suo artefice, Giovanni di Dio Galvagni (1763-1819), come artista, ma soprattutto come uomo di cultura nella Rovereto della fine del Settecento e degli inizi dell'Ottocento. Giovanni di Dio Galvagni fu una personalità poliedrica: si distinse nei campi dalla pittura e dell'architettura, nell'insegnamento del disegno, della storia dell'arte e della calligrafia, oltre che nell'attività letteraria, con poesie in italiano e in vernacolo, come scrive nel 1788 l'abate Malisana all'amico Clementino Vannetti.4 Galvagni nacque a Isera, vicino a Rovereto, l'8 marzo 1763; la casa di famiglia sorgeva nelle vicinanze della villa estiva della nobile famiglia Vannetti e questo fatto ebbe un'influenza fondamentale sulla sua formazione. Fu qui infatti che conobbe Clementino Vannetti (1754-95), scrittore e studioso dei classici latini e membro dell'Accademia degli Agiati, il quale lo prese sotto la propria protezione e ne accompagnò la formazione raccomandandolo all'amico Costantino Lorenzi, professore di retorica presso il Ginnasio di Rovereto, ne assecondò la passione per il disegno e finanziò addirittura dei periodi di formazione a Verona e a Venezia, come si evince da una lettera di Ippolito Pindemonte allo stesso Vannetti.5 In considerazione dello stile pittorico delle sue opere dobbiamo pensare ad una formazione presso un pittore di paesaggio, un genere allora di moda a Verona, dove la pittura di paesaggio aveva goduto di una certa fama nella prima metà del Settecento con Domenico Pecchio (1687-1760).6 Ma furono i paesaggi di Andrea Porta (1720-1805)7 a influenzare lo stile del giovane Galvagni e fu probabilmente presso di lui che il nostro fece il suo apprendistato. Per meglio comprendere il milieu artistico e culturale in cui avviene la formazione di Galvagni cercheremo di inquadrare la figura di Andrea Porta, che si era formato a sua volta nella bottega del padre Tommaso (1686-1766), insieme al quale era impegnato con diverse commissioni di decorazioni nelle ville del contado veronese. Nel 1756 i Porta affrescarono alcune sale della villa Pompei Carlotti a Illasi dove dipinsero paesaggi immaginari, che si inserivano nella tendenza culturale dell'epoca, influenzata dall'Accademia dell'Arcadia, di cui Scipione Maffei aveva fondato la colonia veronese. I pittori riprendevano il repertorio di soggetti tipici dell'Arcadia, costituito da paesaggi idealizzati caratterizzati da boschi, fiumi e cascate, abitati da piccole figure di contadini, pescatori e viandanti. Andrea Porta fondò l'Accademia di Pittura e fino alla fine del secolo continuò ad affrescare palazzi cittadini e ville. Nel 1760 realizzò un ciclo di sei affreschi entro cornici in stucco che decorano una sala del piano nobile di Villa Pellegrini a Tregnago nel veronese, riproponendo dei tipici temi arcadici: paesaggi lacustri e fluviali con pescatori e lavandaie.8 Nel 1765, insieme al padre Tommaso e al fratello Agostino, affrescò diversi ambienti della villa dei nobili Trissino Baston nel vicentino: dipinse una veduta di Trissino, paesaggi con lavandaie, pastori, mulini e locande.9 Nel 1776 realizzò gli affreschi di una saletta del piano rialzato di Villa Pullè a San Pietro in Cariano, nel veronese, con paesaggi arcadici boschivi e lacustri, abitati da pastori, pasotrelle, gentildonne e frati.10 L'opera del Porta è importante per comprendere la pittura di Giovanni di Dio Galvagni, il cui soggiorno veronese si può far risalire ai primi anni ottanta del Settecento e di cui l'amico Clementino Vannetti da conferma in una lettera dell'11 ottobre 1783, nella quale ricorda anche che «Il Galvagni ha veramente profittato sotto il Porta».11 Il pittore rimase a Verona fino al 1788, quando, sempre grazie all'aiuto del Vannetti, partì per Venezia, che era allora la capitale del vedutismo e dove rimase fino al 1791.12 A Verona Galvagni ebbe l'opportunità di conoscere Andrea Porta e probabilmente di frequentare la sua bottega nella fase più avanzata della sua attività, caratterizzata da un vedutismo scenografico con paesaggi campestri. E sarà proprio lo stile arcadico del Porta a influenzare la produzione pittorica di Galvagni a Isera e a Rovereto.
Non dobbiamo però dimenticare l'altro aspetto della formazione di Galvagni, quello letterario, che iniziò in patria, ma venne approfondito nel soggiorno veneziano, dove subì il fascino dell'enciclopedismo settecentesco, che si manifesta nella molteplicità dei suoi interessi: la pittura certo, ma anche la storia antica e moderna, l'architettura, le scienze naturali e soprattutto la poesia.13 Grazie a Vannetti Galvagni conobbe importanti personalità della cultura del tempo quali il conte Eriprando Giuliari, Ippolito Bevilacqua, Antonio Cesari, Andrea Rubbi e non da ultimo Ippolito Pindemonte, che in una sua lettera a Vannetti del 1792 chiede espressamene informazioni riguardo a Galvagni.14 Quando tornò a Rovereto, nel nono decennio del Settecento, Galvagni tornò a immergersi nell'ambiente dell'Accademia degli Agiati e intrattenere rapporti di amicizia con Giacomo Turrati, Giovan Pietro Beltrami e Giovanni Battista Azzolini. A Rovereto ritrovò le opere di alcuni artisti che aveva conosciuto a Verona come i fratelli Marco e Francesco Marcola,15 che affrescarono palazzo Alberti-Poja nel 1779, oppure Filippo Maccari,16 architetto e pittore teatrale di origine bolognese ma attivo a Verona, che tra il 1783 e il 1784 decorò la cappella di casa Rosmini a Rovereto. L'attività di pittore e decoratore di Galvagni si svolse inizialmente a Isera, il paese natale dove era tornato dopo la formazione veronese e il soggiorno veneziano e dove sono conservati i dipinti murali di casa Galvagni, di palazzo Fedrigotti e di casa Pizzini. Abbiamo visto l'importanza della pittura di Andrea Porta nella fase di definizione dello stile di Galvagni, ma un altro artista veronese contribuì a orientare la sua ricerca pittorica nella direzione di una nuova sensibilità più aggiornata sulle recenti tendenze artistiche: si tratta di Bernardo Casari, chiamato dal conte Bartolomeo Eccheli tra il 1790 e il 1792 per decorare il suo palazzo di Brentonico, non lontano da Rovereto.17 Fu il suo esempio che contribuì a indirizzare l'arte di Galvagni verso il gusto neoclassico, anche se di stampo ancora settecentesco.
3. I dipinti murali di Giovanni di Dio Galvagni a Isera e Rovereto.
Il pittore decorò le stanze del secondo piano della casa di famiglia a Isera con dipinti murali a tempera. Si tratta di due cicli di dipinti risalenti alla prima metà degli anni novanta del Settecento: il primo, che decora le stanze del fratello don Luigi Galvagni, riprende soggetti tratti dall'Antico Testamento, mentre il secondo, nell'appartamento del pittore, alterna i temi sacri dell'alcova a quelli profani dello studiolo, riprendendo i motivi decorativi di Bernardo Casari a palazzo Eccheli Baisi di Brentonico con allegorie della vita campestre e paesaggi con vedute boschive incorniciati da quadrature architettoniche che fingono delle logge: il mito di Diana fa riferimento alla caccia e un paesaggio fluviale allude alla pesca. Nei dipinti murali dell'alcova si ritorna ai temi religiosi della stanza del fratello, ma le piccole figure sacre sono immerse in ampi paesaggi naturali che dominano le composizioni.18 Di particolare rilevanza sono le due vedute dipinte nei campi sotto le finestre: una marina all'alba e un rudere su sfondo alpino, che secondo Passamani sembrano anticipare una nuova sensibilità artistica già preromantica «in sorprendente anticipo sul corso della nostra pittura».19 Nel riquadro con Adamo nel Paradiso terrestre nella stanza del fratello, Galvagni dipinge un ampio paesaggio dominato da imponenti alberi e costellato di una varietà faunistica degna delle opere di Jan Bruegel.20
In Palazzo Fedrigotti, sempre a Isera, Galvagni realizzò i dipinti murali in tre sale, ma solo in una si sono conservati. I dipinti sono databili al 1801, come testimonia la data iscritta nei sopraporta con decorazioni a metope, triglifi e vasi di ascendenza classica. Sulle pareti, nei campi tra le lesene, campeggiano dei paesaggi dipinti a monocromo in tonalità rosso-brune: invenzioni di fantasia, brani paesistici e scenette agresti ispirate dalle letture di Ariosto e Tasso.21 Quasi un'anticipazione nell'ispirazione letteraria delle quattro scene tratte dall'Orlando furioso immortalate nei dipinti di Palazzo Betta-Grillo. Sempre in un palazzo nobiliare di Isera, casa Pizzini, si è conservata una sala con quattro riquadri dipinti da Galvagni nei toni rosa e bruno con paesaggi fluttuanti sulle pareti, molto simili a quelli di Palazzo Fedrigotti, con i possenti alberi, che sembrano aggrapparsi alla parete con le radici che emergono sotto il terreno. Rappresentano le quattro stagioni e in considerazione dell'immediatezza nella definizione degli elementi naturali risalgono probabilmente ad una fase successiva rispetto ai dipinti di Palazzo Fedrigotti. Sul soffitto Galvagni finge un cielo azzurro nel quale sfrecciano quattro uccelli in volo, quasi un omaggio alla sua passione ornitologica. Nei dipinti del Palazzo Colle-Masotti di Rovereto la tecnica pittorica di Galvagni si affina e si spinge a raffigurare un paesaggio illusionistico, che sembra sfondare la parete con alberi e vestigia della civiltà classica in primo piano, mentre sullo sfondo, verso il quale scorre placido un ampio fiume, si intravede una città turrita. Gli elementi neoclassici − capitelli, statue, bassorilievi e iscrizioni latine − si alternano a riminiscenze del paesaggio barocco in primo piano, mescolandosi poi a suggestioni già preromantiche nel tocco naturalistico del paesaggio di fondo. Un percorso quello di Galvagni che, attraverso questi dipinti, lo porterà ad affinare uno stile peculiare che troverà la sua maturazione proprio nelle scene dell'Orlando furioso di Palazzo Betta-Grillo di cui parleremo.
4. I dipinti con le scene dell'Orlando furioso a Palazzo Betta-Grillo: pittura e letteratura come linguaggi complementari.
Il Salone dell'Orlando furioso occupa la parte centrale del piano nobile di Palazzo Betta-Grillo a Rovereto. Si tratta di una sala di rappresentanza destinata ai ricevimenti ufficiali e alle manifestazioni mondane della nobile famiglia Betta, che aveva acquistato il palazzo nel 1728;22 seguì un'attività di rinnovamento dell'edificio ad opera probabilmene dei costruttori Bernardo e Bernardino Tacchi, molto attivi a Rovereto negli anni trenta del Settecento.23 L'esecuzione dei dipinti e degli stucchi della sala del Trionfo della Giustizia e della Pace, anch'essa al piano nobile, risale infatti agli anni tra il 1730 e il 1735:24 l'affresco del soffitto è opera probabilmente di Gasparantonio Baroni Cavalcabò (1682-1759),25 che insieme al cugino Giovanni realizzò anche i quadri a olio su tela delle pareti, mentre gli stucchi sono stati attribuiti da Michelangelo Lupo alla bottega del lombardo Antonio Verda.26 Anche la decorazione della Sala del Trionfo delle Arti, sempre al piano nobile, risale agli anni trenta del Settecento a differenza del Salone dell'Orlando furioso, il cui apparato decorativo presenta caratteri stilistici riferibili alla fine del Settecento o all'inizio dell'Ottocento. Infatti il dipinto del soffitto, a tempera su muro, finge una cupola ellittica ribassata a cassettoni quadrati con rosette, delimitata sui lati corti da colonnati curvilinei in marmo rosa di chiara impronta neoclassica. Sulle pareti delimitate dai due colonnati troviamo i quattro dipinti, inquadrati da finte cornici dorate, che rappresentano altrettante scene tratte dal poema ariostesco e che riprendono la pittura di paesaggio veronese di fine Settecento insieme ad elementi stilistici neoclassici e preromantici.
I dipinti a tempera su muro ripropongono quattro momenti topici dell'Orlando furioso, probabilmente scelti e concordati coi colti committenti. Un ulteriore dipinto monocromo col Giudizio di Paride sopra una delle porte completa la decorazione del salone. Il primo dei quattro dipinti rappresenta Ruggiero alla corte di Alcina e la scena viene messa in relazione con un'iscrizione su un cartiglio nell'angolo in basso a destra (Fig. 1). Il primo passo dell'iscrizione riprende in maniera sintentica una frase dell'ottava ix del canto vii: «Alcina in bel sembiante accolse il forte/ Ruggiero in bella et onorata corte».27 Il secondo passo ripropone invece puntalmente l'intera ottava xxxii del canto vii: Or per l'ombrose valli e lieti colli
vanno cacciando le paurose lepri;
or con sagaci cani i faggian folli
con strepito uscir fan di stoppie e vepri;
or a' tordi lacciuoli, or veschi molli
tendon tra gli odoriferi ginepri;
or con ami inescati et or con reti
turbano a' pesci i grati lor secreti.28
Il primo piano del dipinto è occupato sulla sinistra da uno specchio d'acqua, al centro del quale si erge un tempietto a pianta centrale con colonne ioniche, che si riflette nell'acqua ed è circondato da esili figure umane appena visibili. Una barca galleggia sul lago e ospita Ruggiero e Alcina accompagnati da due amorini. Sulla riva, al lato destro del dipinto, due alberi si stagliano nel cielo illuminato da una luce calda, mentre sotto le copiose fronde due figure umane si perdono nel paesaggio collinare costellato di costruzioni rurali. L'iconografia riprende la descrizione del paesaggio contenuta nell'iscrizione, che fa riferimento a «l'ombrose valli e i lieti colli», ma anche all'ambiente lacustre, nel quale Ruggiero e Alcina «con ami inescati o' pur con reti turbano a' pesci i grati lor secreti». Il secondo dipinto rappresenta Ruggiero che salva Angelica dal mostro marino (Fig. 2), qui un'iscrizione sul cartiglio in basso a sinistra non riprende direttamente il testo ariostesco, bensì una nota riassuntiva di Scipione Ammirato tratta dagli «Argomenti del canto decimo», che precedono e introducono il canto nell'edizione veneziana del 1730, edita dalla stamperia di Stefano Orlandini (Fig. 5). La nota viene citata puntualmente nell'iscrizione: Ruggiero, a cui d'Alcina più non cale;
di Logistilla al santo Regno passa,
quella il ripon sopra il corsier che ha l'ale
et ei volando vede a terra bassa
le genti di Rinaldo, e poi legata
Angelica, e per lui tosto salvata.29
Il campo è occupato per due terzi dal cielo illuminato da una luce calda, che contrasta con le tonalità fredde del mare increspato di onde e solcato dal mostro marino che si dirige verso lo scoglio sul quale giace, nuda e incatenata, una figura femminile. È Angelica che in atteggiamento supplichevole rivolge lo sguardo in alto verso Ruggiero, che a cavallo dell'ippogrifo e con la lancia in resta si dirige verso il mostro marino. Sulla destra si dipana una costa frastagliata costellata di edifici civili e di fortificazioni, mentre in lontananza una corona di monti fa da sfondo ad una città turrita, di fantasia certo, ma che ricorda un po' la vicina Riva del Garda. Anche qui l'iconografia riflette il testo letterario che descrive l'ippogrifo come «il corsier che ha l'ale», mentre Ruggiero «volando vede a terra bassa [...] legata Angelica». Il terzo dipinto rappresenta Ruggiero, Bradamante e Marfisa di fronte alla tomba del mago Atlante e questa volta la fonte letteraria viene riportata nell'iscrizione sulla trabeazione di un mausoleo di architettua classica (Fig. 3). Si tratta della citazione puntuale dell'ottava lix del canto xxxvi: Grida la voce orribile: «Non sia
lite tra voi: gli è ingiusto ed inumano
ch'alla sorella il fratel morte dia
o la sorella uccida il suo germano.
Tu, mio Ruggiero, e tu, Marfisa mia,
credete al mio parlar che non è vano:
in un medesimo utero d'un seme
foste concetti, e usciste al mondo insieme.30
Il dipinto è dominato dal paesaggio, che nella parte destra appare selvaggio e rigoglioso con un tronco spezzato in primo piano, sullo sfondo di una fitta foresta. La parte centrale è occupata da una radura sulla quale si dispongono i protagonisti: Ruggiero tra Bradamante e Marfisa. Sulla sinistra, circondata da cipressi, si intravede una costruzione architettonica di fantasia, un padiglione marmoreo − il mausoleo del mago Atlante − in cui si mescolano elementi classici − colonne doriche, bassorilievi e statue antiche − ad elementi dell'architettura gotica come gli archi a sesto acuto che sostengono una copertura a forma piramidale. Il testo letterario dell'iscrizione è complementare rispetto all'elemento iconografico, serve qui a chiarire chi sono i personaggi rappresentati nel dipinto e quali sono i loro legami: infatti «la voce orribile» del mago Atlante proveniente dal mausoleo interrompe il duello tra Ruggiero e Marfisa («Non sia lite tra voi») e ne chiarisce i legami di sangue («In un medesim'utero d'un seme foste concetti, e usciste al mondo insieme») per farli desistere dal proposito «ingiusto ed inumano ch'alla sorella il fratel morte dia o la sorella uccida il suo germano». I due fratelli nel dipinto vengono rappresentati immobili e rivolti verso la tomba del mago che li aveva allevati, mentre alle loro spalle Bradamante si avvicina su un bianco destriero. L'ultimo dipinto rappresenta la lotta tra Orlando e Rodomonte (Fig. 4), episodio descritto in una nota riassuntiva di Scipione Ammirato inserita negli «Argomenti del canto ventesimonono» che precedono il canto nell'edizione veneziana del 1730 (Fig. 5), nota che viene citata puntualmente nell'iscrizione sulla roccia che emerge dal fiume in basso a sinistra: Isabella tagliar si fa la testa,
pria che saziar la voglia del Pagano,
il qual avvisto del suo error, con mesta
fronte, acquetar cerca lo spirto in vano.
Un ponte ha fatto, ove spogliato resta
chiunque arriva. E con Orlando insano
cade egli poi nel fiume. Indi non bada
il pazzo e fa gran cose poi per strada.31
Anche qui la parte superiore del dipinto è occupata per due terzi da un cielo luminoso e terso, che contribuisce ad amplificare il paesaggio naturale sottostante. Il primo piano è occupato da un brano naturale con erbe, fiori, scogli e tronchi d'albero spezzati di gusto preromantico, mentre una barca è ormeggiata sulla riva di un fiume. In secondo piano è rappresentato un ponte, che varca il fiume, sul quale si svolge la lotta tra due minuscole figure: il dipinto enfatizza la scena in cui Orlando, impazzito e nudo, lotta contro Rodomonte, che vuole impedirgli di passare. Il testo dell'iscrizione serve a contestualizzare la scena rappresentata nel dipinto: infatti si parla della morte di Isabella, motivo della costruzione del ponte, «ove spogliato resta chiunque arriva» e della successiva caduta nel fiume di Orlando e Rodomonte. Alla sinistra del ponte si ergono due alberi frondosi, mentre sulla destra svetta un mausoleo a torre, dedicato a Isabella, affiancato da un tempietto di gusto neoclassico. Dietro il ponte si distende in lontanza un paesaggio montuoso, dai colori sfumati e punteggiato da costruzioni rurali, che anticipa suggestioni romantiche. Lo straordinario successo editoriale dell'Orlando furioso, che ha visto centocinquantaquattro edizioni nel solo Cinquecento, comprese edizioni illustrate e commentate, giustifica anche la fortuna figurativa che l'opera ha avuto nei secoli successivi, non solo illustrazioni a stampa, ma anche dipinti; confermata anche dal recente fiorire di studi al riguardo.32 La fortuna del testo ariostesco nelle opere figurative, sia dipinti che incisioni, continuò anche nel Settecento e i dipinti di Palazzo Betta-Grillo ne sono un esempio. Le incisioni incluse nei testi del Furioso influenzarono in alcuni casi la ricezione iconografica di alcuni dipinti come gli affreschi del Salone d'onore di Palazzo Alessandri a Bergamo (1542-50), opera del pittore Lucano da Imola (1495-1566), che riprendono le incisioni incluse nell'edizione del 1542 edita a Venezia da Gabriele Giolito de' Ferrari.33 Non è però il caso dei dipinti di Giovanni Galvagni a Palazzo Betta-Grillo; qui l'autore, che è anche poeta e letterato, fa ricorso alla propria esperienza di pittore di paesaggio, maturata nella bottega dei Porta a Verona, per elaborare delle iconografie originali con piccole figure che si perdono in ampi paesaggi. Nel 1757 i temi ariosteschi erano stati ripresi anche da Giovanni Battista Tiepolo negli affreschi della Stanza dell'Orlando furioso di Villa Valmarana ai Nani presso Vicenza e probabilmente le sue figure di Angelica e di Ruggiero sull'ippogrifo (Figg. 6-7) funsero da ispirazione per il dipinto di Galvagni, anche se il contesto in cui tali figure sono inserite è completamente diverso.34 Nell'affresco di Tiepolo infatti i protagonisti emergono dal fondo, appena abbozzato, con una monumentalità che è estranea alla pittura arcadica di Galvagni, più orientato, per formazione e sensibilità, a privilegiare il paesaggio rispetto alle figure, solitamente di dimensioni ridotte. Galvagni condivideva con i suoi committenti una formazione culturale che faceva riferimento all'ambiente dell'Accademia degli Agiati, di cui i Betta erano membri fin dalla fondazione nel 1750,35 e i quattro dipinti ispirati all'Orlando furioso sono il frutto di questa condivisione di modelli letterari e artistici.

P. D.



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Note

1 L. Piomarta, Rovereto: ricerche di geografia urbana, Calliano, Manfrini, 1986. torna su
2 M. Lupo, Architettura a Rovereto tra Seicento e Settecento, in Rovereto città barocca città dei lumi, a cura di E. Castelnuovo, Trento, Temi, 1999.torna su
3 M. Bonazza, L'Accademia roveretana degli agiati, Rovereto, Accademia roveretana degli Agiati, Osiride, 1998; Cultura letteraria e sapere scientifico nelle accademie tedesche e italiane del Settecento, a cura di S. Ferrari, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2003; G. Cantarutti, S. Ferrari, L'Accademia degli Agiati nel Settecento europeo. Irradiazioni culturali, Milano, FrancoAngeli, 2007.torna su
4 Biblioteca Civica di Rovereto (BCR), "Lettere di vari a C. Vannetti", 1787-89, Ms. 7. 1-37; l'abate Malisana a Vannetti, Venezia 12 aprile 1788.torna su
5 BRC, Ms. 7. 1-31, c. 9: Lettera di Pindemonte a Vannetti, Verona 5 febbraio 1780; L. Franchini, Giovanni di Dio Galvagni 1763-1819, Comune di Isera, Rovereto, Nicolodi, 2000, p. 21.torna su
6 E. Rama, Pecchio, Domenico, in La pittura in Italia nel Settecento, vol. ii, Milano, Electa, 1990, p. 838.torna su
7 F. Butturini, Tomaso, Andrea Porta e Agostino: paesisti veronesi del Settecento, Verona, Centro Formazione Professionale Grafica, 1977; V. Caprara, Porta, Andrea, in La pittura in Italia nel Settecento, Milano, Electa, 1990, vol. ii, p. 838.torna su
8 I. Turri, Tregnago, Villa Pellegrini, in Gli affreschi nelle ville venete. Il Settecento, a cura di G. Pavanello, t. ii, Fondazione Cini, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 328-29.torna su
9 A. Tomezzoli, Andrea Porta, in La pittura di paesaggio in Italia. Il Settecento, a cura di A. Ottani Cavina, E. Calbi, Milano, Electa, 2005, pp. 285-86; A. Zamperini, Trissino, Villa Trissino, in Gli affreschi nelle ville venete. Il Settecento cit., pp. 335-38.torna su
10 I. Turri, San Pietro in Cariano, Villa Pullè, in Gli affreschi nelle ville venete. Il Settecento cit., p. 195.torna su
11 G. Galvagni, Il pittore e poeta Giovanni Galvagni nelle lettere di Clementino Vannetti, Riva del Garda, F. Miori, 1905, p. 9: Lettera di Clementino Vannetti a Eriprando Giuliari, 11 ottobre 1783.torna su
12 C. T. Postinger, Clementino Vannetti cultore delle belle arti, Rovereto, 1896, p. 58; BRC, Lettere di vari a C. Vannetti, 1787-89, Ms. 7. 1-37: Lettera della contessa Roberti-Franco a Vannetti, Venezia 31 marzo 1788;torna su
13 L. Franchini, Giovanni di Dio Galvagni cit., 2000.torna su
14 G. Galvagni, Il pittore e poeta Giovanni Galvagni nelle lettere di Clementino Vannetti cit., p. 9: Lettera di Pindemonte a Vannetti, Aversa 31 ottobre 1792: «Che è del Galvagni di cui non so nulla da grandissimo tempo?»torna su
15 N. Rasmo, Affreschi sconosciuti di Marco e Francesco Marcola a Rovereto, in «Studi Trentini di Scienze Storiche», ii, 1961, pp. 158-59; L. Romin Meneghello, Marco Marcola pittore veronese del Settecento, Verona, Centro Formazione Professionale Grafica, 1983.torna su
16 P. Marini, Filippo Maccari (1725-1800), in L'architettura a Verona nell'età della Serenissima (sec. XV-sec. XVIII), a cura di P. Brugnoli e A. Sandrini, vol. ii, Verona, Banca Popolare di Verona, 1988, pp. 346-51.torna su
17 G. Marzari, G. Paina, Palazzo Eccheli-Baisi in Brentonico e il Monte Baldo. L'ambiente naturale e gli insediamenti umani, Verona, 1993, pp. 284-95.torna su
18 G. Galvagni, Il pittore e poeta Giovanni Galvagni nelle lettere di Clementino Vannetti cit., pp. 26-27.torna su
19 B. Passamani, Cultura figurativa nella Rovereto del Settecento, cit., p. 284.torna su
20 B. Passamani, ibid.torna su
21 L. Franchini, Giovanni di Dio Galvagni cit., p.16.torna su
22 A. Frisingelli, Palazzo Betta-Grillo a Rovereto. Storia di un'antica dimora e del suo patrimonio artistico, Rovereto, Edizioni Osiride, 2014, pp. 43, 61 nota 7.torna su
23 M. Lupo, Architettura a Rovereto tra Seicento e Settecento cit., p. 199.torna su
24 M. Lupo, Stuccatori a Trento e Rovereto nel Settecento, in Passaggi a nord est. Gli stuccatori dei laghi lombardi tra arte, tecnica e restauro, Atti del Convegno di Studi (Trento, 12-14 febbraio 2009) a cura di L. Dal Prà, L. Giacomelli, A. Spiriti, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Università degli Studi dell'Insubria di Varese, 2011, p. 385.torna su
25 P. Delpero, Affreschi del Settecento nei palazzi e nelle ville del Trentino Alto Adige: alcuni casi di studio, in Sine Ira ac Studio. Metodo e impegno civile per una razionalità illuministica. Scritti offerti a Dario Generali per i suoi settant'anni, a cura di F. Luzzini, Milano, Mimesis, 2024, pp. 574-95, in partic. p. 583.torna su
26 M. Lupo, Stuccatori a Trento e Rovereto nel Settecento cit., p. 388.torna su
27 L. Ariosto, Orlando Furioso, edizione a cura di L. Carretti, Firenze, Einaudi, 1992, vol. i, canto vii, ottava ix, p. 148: «La bella Alcina venne un pezzo inante verso Ruggier fuor de le prime porte, e lo raccolse in signoril sembiante, in mezzo bella et onorata corte. Da tutti gli altri tanto onore e tante riverenzie fur fatte al guerrier forte che non ne potrian far più, se tra loro fosse Dio sceso dal superno coro».torna su
28 L. Ariosto, Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto, Delle annotazioni de' più celebri autori che sopra esso hanno scritto, e di altre utili, e vaghe Giunte, Venezia, Stamperia di Stefano Orlandini, 1730, p. 69; L. Ariosto, Orlando Furioso, cit., vol. i, canto vii, ottava xxxii, p.155.torna su
29 L. Ariosto, Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto cit., p. 95.torna su
30 L. Ariosto, Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto cit., p. 424; L. Ariosto, Orlando Furioso, cit., vol. ii, canto xxxvi, ottava lix, pp. 1086, 1087.torna su
31 L. Ariosto, Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto cit., p. 333.torna su
32 Imaginaire de l'Arioste, l'Arioste immaginé, a cura di M. Jeanneret, M. Preti, cat. della mostra, Louvre, Paris, éditions-Gourcuff-Gradenigo, 2009 ; "Tra mille carte vive ancora". Ricezione del Furioso tra immagini e parole, a cura di L. Bolzoni, S. Pezzini, G. Rizzarelli, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2011; L'Arioste et les Arts, a cura di M. Paoli, M. Preti , Paris-Milano, Louvre éditions-Officina Libraria, 2012; Donne cavalieri incanti follia. Viaggio attraverso le immagini dell'Orlando furioso, a cura di L. Bolzoni, C.A. Girotto, cat. della mostra, Pisa, Maria Pacini Fazzi, 2013; L'Orlando furioso nello specchio delle immagini, a cura di L. Bolzoni, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2014; F. Caneparo, "Di molte figure adornato". L'Orlando furioso nei cicli pittorici tra Cinque e Seicento, Milano, Officina Libraria, 2015; Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi, a cura di G. Beltramini, A. Tura, cat. della mostra, Ferrara, Ferrara Arte, 2016; I voli dell'Ariosto. L'Orlando furioso e le arti, a cura di M. Cogotti, V. Farinella, M. Preti, cat. della mostra, Villa d'Este a Tivoli, Polo Museale del Lazio, Milano, Officina Libraria, 2016; S. Liberati, Orlando furioso. La fortuna del poema ariostesco nelle edizioni illustrate, Roma, Palombi Editore, 2016; L. Bolzoni, Galassia Ariosto. Il modello editoriale dell'«Orlando Furioso» dal libro illustrato al web, Roma, Donzelli Editore, 2017.torna su
33 M.A Dupuy-Vachey, Le Roland furieux aux siècle de Lumières. L'Arioste à la folie?, in L'Arioste et les Arts cit., pp. 237-51.torna su
34 I voli dell'Ariosto. L'Oralando furioso e le arti cit., p.111; L. Ariosto, Orlando furioso di M. Lodovico Ariosto, Venezia, Gabriel Giolito de'Ferrari, 1542.torna su
35 A. Marius, Vicenza, Villa Valmarana ai Nani, pp. 369-407, in partic. p. 384, in Gli affreschi nelle ville venete. Il Settecento, a cura di Giuseppe Pavanello, t. ii, Venezia, Fondazione Cini, Marsilio, 2011; F. Rigon, Giambattista e Giandomenico Tiepolo. Villa Valmarana ai Nani, Schio, Sassi, 2008, p. 28.torna su
36 Memorie dell'I.R. Accademia di Scienze, Lettere e Arti degli Agiati di Rovereto, Rovereto, Grigoletti, 1901, p. 299.torna su