11, 2017
 
Saggi    
 
Abstract

Marta Baiardi

Le tavole del ricordo.
Shoah e guerre nelle lapidi ebraiche a Firenze e dintorni
Parte I
«Nel recinto del Tempio»



1. Dopo la catastrofe
L’immediato dopoguerra, «così propizio alle questioni morali e agli esami di coscienza privati e collettivi»,1 non fu una stagione facile per gli ebrei italiani. Le persecuzioni avevano stravolto troppo in profondità le loro esistenze: lutti e perdite, «danni irreversibili» pesavano come macigni «nell’impervio, incerto e scosceso cammino verso la reintegrazione sociale economica e civile».2 I superstiti si trovarono in difficoltà di ogni genere che dimostrarono loro quanto fosse difficile riprendere semplicemente l'esistenza precedente, tanto sul piano morale e psicologico quanto nella vita materiale. I beni razziati non vennero quasi mai recuperati per intero, e anche nel mondo del lavoro non sempre furono sanate le estromissioni causate dalle leggi razziali.3 I lutti subiti, e in assenza di questi, i diritti lesi avevano minato le basi stesse della fiducia verso lo stato italiano e verso la propria identità nazionale.4
Inoltre nel trauma collettivo patito le stesse vittime facevano i conti con un’estrema varietà e diverse gradazioni di sofferenze e danni: il 18% circa degli ebrei italiani presenti nel territorio occupato dai tedeschi era stato assassinato;5 tra i sopravvissuti c’erano i pochi reduci da Auschwitz, portatori di quella «mala novella»6 che avrebbe fatto tanta fatica a farsi largo nel «multicolore universo di storie»7 del dopoguerra. C’erano poi coloro che avevano da piangere i loro morti (ed erano tanti) e infine quelli che, pur non annoverando lutti in famiglia, avevano tuttavia perduto beni, casa, lavoro, sicurezze. Per tutti poi, infranto dalla violenza delle persecuzioni, era tramontato per sempre il tranquillo orizzonte dell’assimilazione. Ma anche in generale nell’Italia postbellica, le enormi distruzioni, i morti, la povertà, il lacerante svolgimento differenziato dell’ultimo biennio di guerra ostacolarono «i conti con la catastrofe», e da questa crisi profonda affiorarono dunque tante «differenti Italie talora estranee e ostili l’una all’altra».8 Anche la minoranza ebraica partecipò a questa frammentazione registrando distruzioni e sofferenze subite ma avallando nel contempo almeno in parte, anche per una comprensibile necessità di riprendere a vivere, la medesima percezione "debole” del fascismo diffusa nella maggioranza degli italiani.9 La leadership ebraica nel dopoguerra svolse consapevolmente così un ruolo "pacificatore” nei confronti del passato, stretta com’era da specifiche emergenze, tra cui l’afflusso ingente di profughi diretti in Palestina bisognosi di aiuto almeno fino al 1948, e l’attenzione costante da prestare al processo di reintegrazione, non privo di ostacoli, in atto nel paese.10 Inoltre va anche considerato che per i sopravvissuti era progressivamente venuto meno il conforto di vedersi rendere giustizia. Come è noto, la normativa contro i delitti fascisti non prevedeva imputazioni peculiari a carico dei persecutori italiani degli ebrei, responsabili di arresti, estorsioni e delazioni. Questi comparvero nelle pieghe delle istruttorie e in qualche processo ma, mescolati al più generale reato di «collaborazionismo col tedesco invasore»,11 il loro peso specifico e la loro stessa visibilità si ridusse notevolmente. Inoltre la fase di promozione delle azioni penali contro i crimini fascisti durò poco: fu applicata solo «dall’estate del 1944 sino a fine 1945, poi venne disattesa e infine − venuta meno l’alleanza politica ciellenistica − sostituita da disposizioni "riparatrici”»,12 culminate nell’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946.13 Anche i procedimenti contro i "perpetratori” fiorentini si erano conclusi con un nulla di fatto. Così nell’estate del 1950 l’amnistia concessa allo squadrista e antisemita militante Giovanni F. Martelloni e a tutti i componenti dell’Ufficio Affari Ebraici della prefettura di Firenze aveva particolarmente turbato la comunità ebraica cittadina, che si era costituita parte civile al processo. L’avvocato Dino Lattes, accettando di rappresentare la comunità, aveva dichiarato di voler «far risuonare nella sede del tribunale la protesta degli Ebrei fiorentini contro le nefande persecuzioni razziali, che culminarono col sacrificio di tanti nostri parenti e amici».14 Ma al processo le cose andarono diversamente e la «protesta» di parte ebraica non fu poi così unanime. Come anni dopo avrebbe ricordato in una delle sue più amare pagine autobiografiche Franco Fortini, che di Dino Lattes era figlio, le esortazioni di suo padre rimasero inascoltate: alla richiesta formulata dall’avvocato ai parenti delle vittime di presentarsi in tribunale «molti, troppi non avevano risposto», rifiutando di uscire allo scoperto per denunciare i persecutori.15 Di conseguenza, se quel dibattimento riuscì almeno in parte a chiarire come il famigerato Ufficio Affari Ebraici fosse stato il vero motore della politica persecutoria a Firenze in sinergia con gli occupanti quanto ad arresti, deportazioni e razzie elevando «il delitto a sistema»,16 purtroppo però ogni altro obiettivo di ottenere giustizia andò deluso. La sfilata dei testimoni e dei pochi disperati superstiti non bastò a infliggere nemmeno una condanna e tutti andarono amnistiati, tranne pochi piccoli ricettatori che in ogni caso ebbero il minimo della pena.17 All’insegna della medesima accondiscendenza verso i crimini fascisti, nell’anno successivo (luglio 1951), si concluse a Lucca il processo contro il Reparto Servizi Speciali, più noto in Toscana e in Veneto come la "Banda Carità”. Alle tante imprese criminose di questa formazione della Repubblica Sociale Italiana, impegnata contro la Resistenza, va aggiunto anche uno specifico capitolo riguardante le persecuzioni razziali a Firenze.18 Tuttavia anche i militi della "Banda”, dunque anche coloro che avevano arrestato, vessato e derubato gli ebrei, usufruirono di notevoli sconti di pena e di «un ampio ricorso all’amnistia»19 che li scarcerò quasi tutti. Una foto dell’epoca ritrae questi imputati al momento della sentenza: sono ancora dentro il gabbione del tribunale «in atteggiamento beffardo, sghignazzanti e con la mano tesa nel saluto romano».20 D’altro canto l’indulgenza manifestata dai giudici, tanto nell’assenza di empatia verso le vittime quanto nella deficitaria comprensione della natura del genocidio italiano, corrispondeva alla diffusa sottovalutazione della pervasività dell’esperienza fascista e delle responsabilità che l’avevano resa possibile. Questo «esame di coscienza sostanzialmente mancato»21 a sua volta implicava un’analoga svalutazione dell’antisemitismo fascista, inteso come fenomeno avulso dalla storia e dalla natura degli italiani: giudizio minimizzante che coinvolgeva tanto la legislazione razziale del 1938 quanto la persecuzione delle vite tra il 1943 e il 1945, attribuita quasi interamente alla «volontà distruttiva dei tedeschi».22 Così le attive politiche antisemite della RSI vennero progressivamente oscurate. Non va tuttavia dimenticato che, al di là delle specifiche vicende italiane, «la natura stessa e l’entità senza precedenti della distruzione perpetrata durante la Shoah per lungo tempo ne resero difficile il ricordo, la rappresentazione e la ricostruzione»23 tanto in Europa come negli Usa e persino in Israele. Dal dopoguerra per diversi decenni l’Olocausto fu percepito molto diversamente da oggi: per le vittime l’imprescindibile e traumatica «consapevolezza di essere stati menomati»24 si univa all’idea di Auschwitz come «buco nero»25, qualcosa «privo di senso»,26 che era tuttavia necessario tentare di capire, spiegare, tramandare. Per gli altri − quelli che non avevano conosciuto direttamente lo sterminio − quella memoria con il suo ineludibile carico di pena rimase ai margini: il discorso pubblico del dopoguerra fece a meno della «nuova trista»27 dei reduci e si strutturò su altri contenuti e altre speranze. Anche il nostro paese non fece eccezione: la memoria della Shoah ebbe in Italia un suo spazio nelle comunità ebraiche, ma il lutto restò circoscritto. Tuttavia, anche se l’entità e il significato del disastro almeno all’inizio stentarono a emergere, le comunità ebraiche italiane, grandi e piccole, in modi non uniformi e spesso contraddittori tentarono di fare i conti con quegli «inespiabili» eventi.28 Nel nostro paese una delle forme di quella faticosa elaborazione del lutto, contemporanea alle ricerche condotte per identificare le vittime, si configurò come un grande «sforzo per la commemorazione», attraverso la realizzazione di monumenti e lapidi alla memoria delle vittime della Shoah che in quegli anni comparvero numerose, sia nei cimiteri ebraici sia sulle mura delle sinagoghe di tante città italiane.29 Il tentativo di colmare l’angoscia di quelle perdite si intrecciava con la necessità di ridefinire un’identità ebraica italiana sulla base di nuovi confini e nuovi valori (Fig. 1). Da Firenze gli ebrei deportati erano stati più di trecento, quasi tutti uccisi ad Auschwitz (i superstiti poco più di una decina).30 L’idea di dedicare loro una lapide si era fatta strada molto presto «fin dalla primavera del 1945»,31 contestualmente alla compilazione di un’anagrafe precisa delle perdite, sollecitata anche dalla UCII (Unione Comunità Israelitiche Italiane) e avviata fin dall’autunno del 1944.32 Le ricerche non ebbero un andamento lineare: molte energie e una certa dose di oblio erano necessarie ai superstiti per poter ricostruire in qualche modo le loro vite e si può ben comprendere come le comunità non sempre rispondessero con sollecitudine alle richieste del colonnello Massimo Adolfo Vitale, «ostinato cacciatore di documenti e testimonianze»33 a capo del Comitato Ricerche Deportati Ebrei. Questi ebbe più di un’occasione per lamentarsi con la comunità fiorentina perché, pur sollecitata, lo costringeva a «mendicare indicazioni e notizie circa denuncie [sic!] e processi contro i persecutori di Ebrei».34 Ma infine nel 1951, sotto la presidenza di Alfredo Orvieto, dopo una laboriosa raccolta di informazioni e uno scambio ripetuto di schede con le famiglie delle vittime per approdare a dati sempre più precisi, fu ultimata una prima lista dei deportati e avviata concretamente la realizzazione della lapide (Fig. 2). Si giunse finalmente alla giornata dell’inaugurazione, domenica 18 novembre, quando si svolse nel giardino del Tempio Maggiore di via Farini a Firenze una commovente cerimonia in cui si commemorarono in forma solenne gli ebrei deportati e uccisi. In quella circostanza fu scoperta una grande lapide, collocata in un’ala del giardino della sinagoga. Era la prima occasione pubblica in cui la comunità ebraica fiorentina, insieme con numerosi rappresentanti delle istituzioni repubblicane locali e nazionali, onorava le vittime cittadine del genocidio. Il progetto del monumento era stato affidato dal Consiglio all’architetto Nello Bemporad che aveva perso nella Shoah tutta la sua famiglia: la madre, tre sorelle e un fratello.35 Su cinque grandi blocchi di marmo travertino addossati al muro di cinta del giardino figurava, composta in lettere di metallo, la lista in ordine alfabetico dei duecentoquarantotto ebrei sterminati. Nessun’altra indicazione anagrafica accompagnava quei nomi, tranne per il rabbino capo Nathan Cassuto che ne apriva la schiera e di cui si dava invece menzione della medaglia d’argento al merito civile alla memoria36. All’elenco delle vittime fiorentine della Shoah seguivano altre due liste, entrambe di sei nomi, rispettivamente intitolate ai «Fucilati» e ai «Partigiani Caduti», quest’ultima aperta da Eugenio Calò, «medaglia d’oro al valor militare». La lunga lista degli altri nomi occupava la gran parte del monumento, sovrastata, o meglio introdotta, dalle seguenti parole: RICORDI ISRAELE I SEI MILIONI DI SUOI FIGLI
DALLA INIQUA PERSECUZIONE IN EUROPA SOPPRESSI
RICORDI LA COMUNITA’ DI FIRENZE
I NOMI BENEDETTI DEI DUECENTOQUARANTOTTO
ALLORA DA QUI TRATTI AL MARTIRIO
Quel «Ricordi Israele» echeggiava lo «Shemà Israel» («Ascolta, Israele»), incipit della preghiera fondamentale della religione ebraica.37 Ma l’imperativo biblico "ascoltare” nella lapide si era trasformato in un ammonimento a "ricordare”, riproponendo così un tratto fondamentale della cultura ebraica, dove «l’ingiunzione a ricordare è sentita come un comandamento religioso per un intero popolo».38 Israele doveva dunque ricordare i nomi di quei defunti e certamente anche l’«iniqua persecuzione» di cui erano stati vittime, che tuttavia non veniva precisata ulteriormente nei suoi termini storici concreti (chi li aveva «tratti al martirio»?), a conferma di quanto la sacra intimazione al ricordo, pur cogente, non si conciliasse facilmente con una riflessione condivisa sugli eventi.39 Prevalse nella lapide, rispetto alla storia, una lettura religiosa della catastrofe: una memoria della sofferenza non estranea all’idea di «martirio», che iscriveva la morte patita da quei «benedetti» in un evento sacrificale. L’idea di «martirio» evocata nell’epigrafe non era affatto nuova: aveva anzi permeato profondamente di sé anche tutto «l’immaginario nazional-patriottico» dal Risorgimento in poi.40 È significativo che compaia anche qui, come un collaudato e tradizionale dispositivo retorico per interpretare e mettere in parole un evento come lo sterminio, la cui novità sconvolgente ancora forse non era ben chiara. Chiudeva questa scritta più in basso, a destra in ebraico e a sinistra in italiano, un versetto bilingue tratto dal Salmo 44: «Per quanto tutto ciò ci sia successo, non Ti abbiamo dimenticato né abbiamo violato il Tuo patto».41 La scelta appare particolarmente significativa: nel testo biblico infatti il popolo d’Israele assicura Dio di mantenersi fedele al patto, malgrado abbia sofferto grandi sciagure e sia stato costretto in luoghi da «sciacalli».42 Un altro proposito dell’epigrafe era di stabilire un collegamento fra la persecuzione antiebraica fiorentina e quella europea, che peraltro nessuno a quel tempo chiamava ancora Shoah tranne gli ebrei nel neonato stato di Israele43. In basso dunque, alla base della lapide vicino al suolo, si allungava una terza iscrizione quasi a chiudere idealmente le lunghe colonne dei nomi: AVVICINAR POSSA TANTO OLOCAUSTO
I TEMPI DI UMANA FRATELLANZA
CHE PER LE GENTI TUTTE
VATICINARONO PROFETI D’ISRAELE
− ELUL 5703 − MEN AV 5704 − SETTEMBRE 1943-AGOSTO 1944
Anche qui veniva ribadita la centralità della scrittura biblica, in questo caso un messaggio profetico-messianico di «umana fratellanza» nella sua interpretazione più universalistica: vale a dire rivolto alle «genti tutte». Appariva infine solennemente la parola «olocausto», termine sacrale per eccellenza, in quegli anni non così diffuso nell’uso comune anche nelle comunità ebraiche, dove si continuava a preferire la dizione più feriale di «deportazione» e «deportati».44 Il testo della lapide partiva da «una bozza del poeta Angiolo Orvieto» rielaborata poi «a più mani»45 dai membri del Consiglio. Questi si confrontarono anche con l’allora rabbino della Comunità di Padova Paolo Nissim, che ragguagliò i confratelli fiorentini sui criteri che avevano condotto alla posa delle lapidi padovane. Nella città veneta erano state posate due lapidi commemorative per gli ebrei deportati: una al cimitero ebraico con i nomi delle vittime e un’altra senza nomi, «dedicata alla memoria di tutti i Deportati», posta sulla facciata del Tempio in via San Martino e Solferino, dove ancora si trova. Il contenuto di questa seconda epigrafe sembrerebbe aver ispirato in più punti la lapide fiorentina: 1939-1945
SEI MILIONI DI EBREI IN EUROPA
OTTOMILA EBREI D’ITALIA
QUARANTASEI EBREI DI PADOVA
INAUDITA PERSECUZIONE TRASSE AL MARTIRIO

IL RICORDO DI TANTO OLOCAUSTO
RICHIAMI GLI UOMINI E I POPOLI
ALLA FRATELLANZA E ALL’AMORE
PROCLAMATI DALLA LEGGE DI DIO46
Non si trattava di decisioni semplici da prendere: occorreva non solo avere un elenco preciso e attendibile dei deportati con i loro dati anagrafici, forniti dalle famiglie in mancanza di ogni elenco ufficiale, ma anche elaborare criteri precisi per compilare le liste. Il Consiglio fiorentino, in conformità con le scelte dei correligionari padovani, decise infine di inserire nella lapide tutti «i nomi degli israeliti che risiedevano stabilmente a Firenze all’atto della cattura»,47 il che significava includere gli iscritti alla comunità, ma escludere sia i numerosi confratelli stranieri profughi a Firenze e quelli italiani in fuga da altre città, sia gli ebrei fiorentini, considerati «ebrei puri» dalla legislazione razzista, ma che si erano convertiti o battezzati, tra cui Giuseppe Passigli, Piero Chimichi e sua moglie Laura Prato.48 Questa rilevante omissione non fu taciuta da Eugenio Artom nella sua orazione solenne all’inaugurazione della lapide. Subito in apertura infatti ricordò con accenti accorati in primo luogo «i fratelli di altre Comunità, d’Italia e fuori d’Italia […], cacciati anch’essi a Fossoli, ai Laeger [sic!], alla morte», e poi generosamente menzionò: «i nostri fratelli che negli anni sereni credettero di poter separare il loro destino dal nostro e che nelle ore tragiche dovettero subire il nostro stesso destino e divisero con questi infelici [i morti commemorati dalla lapide] tormenti e strazi e morti».49 Appare evidente come il politico sapiente Artom, già aderente al Comitato di Liberazione fiorentino per il Partito Liberale, nel 1951 membro da pochi mesi della neonata giunta La Pira, intendesse con queste schiette parole non nascondere, anzi in un certo senso pietosamente riparare pubblicamente, i dissidi interebraici fra ebrei fascisti ed ebrei sionisti che avevano lacerato la comunità ebraica fiorentina e l’ebraismo italiano negli anni Trenta. Il cuore del discorso di Artom si incentrò così sull’immenso dolore causato da persecuzioni che avevano colpito tutti, tanto più feroci quanto più le vittime apparivano completamente innocenti: i bambini innanzitutto, «i nostri bambini uccisi»,50 i cui ventitré nomi, uno per uno, furono da Artom pronunciati tutti solennemente nell’occasione. Furono poi rievocati i vecchi, la loro brutale e inaspettata deportazione dall’Ospizio fiorentino nella primavera del 1944; e poi «fra l’innocenza dell’infanzia e l’innocenza della vecchiaia, tutti gli altri morti, egualmente innocenti».51 Tra questi furono emblematicamente citati: il rabbino Nathan Cassuto, un «eroe caduto a capo della sua comunità»; il combattente partigiano Eugenio Calò e Daria Mondolfi, madre di Bruno Bauer, a cui non bastò per salvarsi dalle camere a gas «il sacrificio che il figlio aveva compiuto per la patria», quando volontario nella prima guerra mondiale era caduto al fronte.52 Tanto era stato l’accanimento contro questa donna di settantasette anni che, per essere arrestata, era addirittura stata «calata dalla finestra di casa sua».53 Infine non poteva mancare nell’orazione di Artom − e infatti non mancò − un ringraziamento commosso a quanti, offrendo rifugi e ogni genere di aiuto materiale e morale, avevano aiutato gli ebrei a sfuggire alla caccia mortale scatenata contro di loro. Alcuni di coloro che avevano «dato coraggiosamente e generosamente quel bene»54 erano presenti nel pubblico e presero anche la parola: Adone Zoli, ministro di Grazia e Giustizia di uno dei governi presieduti da De Gasperi, e Giorgio La Pira, divenuto sindaco di Firenze proprio nel luglio di quello stesso anno, le cui parole suonarono «di immenso conforto ai cuori dolenti dei superstiti».55 Molte altre persone parteciparono alla cerimonia: in gran numero, come era ovvio aspettarsi, i membri della comunità ebraica decimati dalle persecuzioni, ma anche numerosi rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali, alte autorità civili e militari, membri dell’ANPI, dell’ANED e anche il consigliere di legazione israeliano a Roma.56 Erano stati invitati ventidue deputati e senatori toscani appartenenti a tutti i partiti dell’arco costituzionale, compresi i comunisti.57 Ma l’intervento dei rappresentanti del PCI, se ci fu, risultò del tutto defilato: nessun oratore ufficiale prese la parola e nemmeno un cenno relativo alla cerimonia comparve sulle pagine locali dell’«Unità», che mise invece in rilievo altre manifestazioni di partito avvenute a Firenze nella stessa data.58 Un particolare gruppo di invitati alla cerimonia era costituito da «simpatizzanti e soci non ebrei» della neonata "Amicizia ebraico-cristiana”: tra gli altri Enrico Bartoletti, rettore del seminario di Montughi, Ernesto Codignola, Giorgio Spini, Eugenio Garin, Mario Gozzini.59 L’Amicizia ebraico-cristiana era stata fondata a Firenze nel 1950 su ispirazione dell’esperienza francese di Jules Isaac e Edmond Fleg, che si proponevano di superare la secolare ostilità nei rapporti fra ebraismo e cristianesimo.60 Firenze era stata la prima città in Italia a raccogliere la sfida e avviare questa iniziativa: su impulso di Arrigo Levasti, Giorgio La Pira, Ines Zilli, Giorgio Spini, Giacomo Devoto, Angelo Orvieto e Aldo Neppi Modona furono messe a frutto, come un’eredità positiva, la fiducia e la collaborazione sperimentate nei giorni tragici delle persecuzioni dalla rete di soccorsi ebraico-cristiana.61 In conclusione, la cerimonia della scopertura della lapide del 1951 si era svolta «per unanime riconoscimento in modo perfetto»: il merito andava tanto all’attento lavoro di squadra promosso dal presidente della comunità Alfredo Orvieto, quanto al determinante «valido aiuto» e ai «preziosi suggerimenti, così utili all’organizzazione della cerimonia» forniti da Eugenio Artom che, come tutti riconobbero, non si era limitato soltanto a pronunciare una «smagliante orazione».62 Per la comunità ebraica di Firenze, la giornata rappresentò una prima proiezione pubblica verso la città proprio sul terreno cruciale dei lutti subiti: si riprendevano così ufficialmente i fili di amicizie e gratitudini ma si misuravano anche distanze e diffidenze. «Io son mutato dentro»,63 avvertiva il poeta Angiolo Orvieto nei Canti dell’escluso, constatando tristemente quanto le persecuzioni che avevano «colpito le sue carni stesse» gli avessero tolto anche «l’illusione di essere fiorentino e toscano aedo».64 Anche se per itinerari diversi, tutti gli ebrei italiani esploravano i nuovi tratti e i nuovi confini di un’identità ferita e traumatizzata. In questo contesto si veniva definendo la narrazione pubblica del genocidio: pur non rinunciando in alcun modo − come sarebbe stato possibile? − alla rievocazione del dolore, tuttavia un legittimo e intenso «desiderio di legittimazione», come si è visto, schermò o almeno mise in secondo piano specifiche denunce e ricerche di responsabilità. Per non incrinare il progetto di riconciliazione lucidamente perseguito dalla leadership ebraica, al «desiderio di veder riconosciuta e rispettata la propria sofferenza»65 si accompagnò quasi sempre l’attenuazione di ogni asprezza accusatoria. Chi si era salvato aveva conosciuto generosità e aiuti a cui doveva in molti casi la vita, anche se aveva contemporaneamente sperimentato nei propri compatrioti vischiosità e connivenze di ogni tipo: indifferenza, ripulse, malanimo, pregiudizi, delazioni, ritorsioni, estorsioni e furti. Sotto l’occupazione tedesca e il regime collaborazionista della RSI, gli ebrei braccati avevano potuto misurare ogni giorno sulla loro pelle il degrado di una società civile devastata in profondità da vent’anni di regime, dalla guerra totale, dalla violenza, dalla fame. Nel dopoguerra l’asperità di queste esperienze per una varietà di ragioni e da più parti furono offuscate e fu minimizzato l’antisemitismo italiano e «la matrice tutta interna, fascista, delle leggi razziste»66 e delle persecuzioni (Fig. 3). Questo era il contesto in cui si tennero le celebrazioni fiorentine di quel novembre 1951 nel giardino della Sinagoga: si ringraziarono dunque sentitamente i benefattori − politici antifascisti ed esponenti della Chiesa fiorentina, che tanto si erano spesi nell’aiuto agli ebrei in fuga −, ma si tacquero complicità e impunità che pure i presenti, anche non deportati, avevano sperimentato in tutte le fasi della persecuzione. Si trattò di una scelta consapevole: tanto consapevole che Artom in conclusione della sua orazione davanti alla lapide auspicò per sé e per i suoi correligionari la grazia di un oblio selettivo: che ci sia concesso di dimenticare tutto il male che abbiamo visto, di dimenticare tutto il male che abbiamo sofferto, di dimenticare tutto il male che ci hanno fatto fare per ricordare soltanto la solidarietà che ci ha sorretto; per ricordare soltanto come nell’ora del dolore abbiamo sentito intorno a noi gente che piangeva per le nostre pene e soffriva per l’ingiustizia che ci veniva fatta.67 Ma non tutti volevano sorvolare. La giovane cronista Wanda Lattes ex resistente del Fronte della Gioventù, nel suo resoconto della cerimonia diede voce a una sorta di contrappunto al tono delle celebrazioni, meno conciliato con i crudi ricordi delle persecuzioni. Denunciò con forza la terribile «caccia agli esseri umani, uomini, donne, bambini, vecchi», tutti destinati allo stermino, che gli ebrei avevano patito. E dichiarò impossibile dimenticare: il terrore di quelle ore, in cui i benevoli sussurravano "Fuggite!”, gli indifferenti e i pavidi fingevano di non riconoscerci, i servi dei tedeschi ci facevano la spia e ci attiravano in tranelli: non si può fare a meno di ricordare gli uni e gli altri, quelli che aiutarono i pericolanti e quelli che non vollero fare niente. Wanda Lattes sottolineava anche come il ricordo di quel «tragico periodo» non dovesse rimanere appannaggio soltanto delle vittime, e si rammaricava dunque che il monumento ai deportati fiorentini fosse rimasto «nel recinto del Tempio», augurandosi che un altro in città ne sorgesse, ma rivolto a tutta la cittadinanza e non solo agli ebrei, perché quella «strage degli innocenti» potesse essere rispettata e ricordata da «ogni fiorentino».68 La Lattes non avrebbe davvero potuto immaginare allora che svariati decenni sarebbero stati necessari prima che altre lapidi, specificamente dedicate alla memoria delle persecuzioni antiebraiche, potessero varcare i confini del Tempio per arrivare alle strade della città e entrare a far parte della memoria di tutti.
2. I «martiri» della Grande Guerra
La lapide del 1951 in memoria delle vittime fiorentine del genocidio non era stata la prima a esser posata nel recinto del Tempio Maggiore di Firenze, a seguito delle guerre del Novecento. Altre epigrafi l’avevano preceduta e altre sono seguite fino a tempi recenti, segnando ciascuna momenti cruciali nella storia degli ebrei italiani ma anche raccontando più in generale la storia del secolo scorso, vista dalla particolarissima angolatura delle interazioni fra minoranza ebraica e società maggioritaria.
L’emancipazione e la partecipazione entusiastica di molti ebrei al Risorgimento e alla costruzione della nazione avevano determinato nell’ebraismo italiano dopo secoli di esclusione un processo accelerato e intenso di assimilazione, in linea con «le istanze di secolarizzazione e di modernizzazione della società liberale».69 Sulle comunità ebraiche queste trasformazioni avevano agito in profondità sul piano sociale, religioso e culturale. Si era consumata per molti l’appartenenza comunitaria tradizionale a favore di un senso forte di adesione alla patria comune, edificando nella breve età liberale quell’«identità duale ebraica e italiana» che teneva separati «lo spazio "pubblico”, integralmente italiano, dallo spazio "privato” che rimaneva − con diverse sfumature − ebraico».70 Ma all’apparire del sionismo anche in Italia − nel 1901 fu fondata la Federazione Sionistica Italiana − si produsse un movimento opposto, una sorta di tendenza alla «dissimilazione» degli ebrei dalla maggioranza, una volontà di «ricostruzione e riconquista di identità, un fenomeno inedito che alimentava una sorta di "cultura dell’onore”» e rivendicava quindi un diverso spazio pubblico. Anche quando non si verificarono entusiastiche partenze per Eretz Israel, il sionismo produsse in molti ebrei italiani l’inebriante scoperta di «poter esibire il proprio ebraismo anche extra moenia». 71 La prima guerra mondiale con il suo spirito di union sacrée e il conseguente stringersi della minoranza ebraica attorno alla patria in pericolo attenuò temporaneamente le istanze sioniste, che però sarebbero riprese anche più forti nel dopoguerra, mentre l’acceso patriottismo, il fuoco delle trincee e l’alto numero di volontari ebrei rafforzarono nel frattempo i rapporti con la società maggioritaria fornendo «una prova tangibile della fedeltà [ebraica] alla patria italiana».72 Alla fine della Grande Guerra la sacralizzazione dei caduti comportò ovunque in Europa, anche nei più sperduti paesini, la moltiplicazione di monumenti e luoghi di culto: sorsero mausolei, obelischi, lapidi, cimiteri, cippi, parchi delle rimembranze, veri e propri «centri focali dei rituali, della retorica e delle cerimonie del lutto».73 Tutto ciò servì a risemantizzare un ordine sociale infranto, offrendo ai superstiti un «risarcimento» per quei troppi giovani morti nelle trincee e consentendo alle collettività locali di «riconoscersi comunitariamente nel lutto».74 Anche molti giovani ebrei fiorentini, che avevano risposto con entusiasmo alla chiamata alle armi, nel conflitto avevano infine trovato la morte. Nel dopoguerra dunque all’interno della Comunità ebraica di Firenze maturò una viva esigenza di celebrare collettivamente quei caduti, per rendere loro un omaggio partecipato e visibile. Anche l’Italia concorreva al «mito comunitario della rigenerazione e della rinascita attraverso il sacrificio della vita»,75 che trasformava i soldati morti in «martiri», avviandone un vero e proprio culto, reso tangibile proprio da quel «fenomeno di monumentalizzazione»76 che stava interessando l’Italia intera. Sulla base di queste esigenze, fu dunque avanzata in comunità a Firenze l’idea di collocare: «artistiche lapidi sotto il portico del nostro Tempio, sulle quali (in lettere di bronzo) siano eternati i nomi di coloro che nella nostra guerra sanguinosa, caddero per la Patria».77 In primo piano a raccogliere i fondi per la lapide avrebbero dovuto trovarsi «le Madri Ebree»: si chiamerebbe così la Donna a partecipare col suo delicato sentimento ad un risveglio Ebraico di gran valore, se per opera sua si potesse imprimere e glorificare sulla soglia del nostro splendido santuario tutti i nomi di coloro, che lasciando la vita sui Campi di Battaglia, tennero alto ed immacolato l’onore di Israele.78 Si creò un comitato, furono effettivamente coinvolte alcune delle madri dei caduti fiorentini. Tra loro troviamo la composta presenza di Amelia Pincherle Rosselli che il 27 marzo 1916 sul Pal Piccolo nelle Alpi Carniche aveva perso il figlio ventunenne Aldo, il maggiore dei suoi tre figli. Studente in medicina, come i fratelli Carlo e Nello interventista democratico, Aldo era partito volontario in fanteria guadagnandosi con la morte in azione anche una medaglia d’argento al valor militare79. Come molti altri genitori ebrei che avevano perduto i loro figli nelle fangose trincee, Amelia Rosselli sembrò trovare un qualche sollievo al suo lutto proprio nell’amore per la patria, se dinanzi alla vittoria italiana poteva scrivere a un’amica che l’immensità della meta raggiunta non dirò che renda meno vivo il mio dolore, ma certo gli infonde un che di sereno, direi quasi di placato: perché dunque il sacrificio non è stato inutile, se noi vediamo, coi nostri occhi mortali, stabilito sulla terra quel regno della giustizia che finora era nei cieli.80 Questo sentimento patriottico, così saldo da potere dare un senso anche a una perdita tanto atroce, rappresentò senza dubbio una componente decisiva all’interno del comitato e della comunità fiorentina tutta, che infine accolse la proposta di una lapide commemorativa e la realizzò. Ma un’altra urgenza più specificamente ebraica accompagnò in questo caso l’amor patrio, e non meno intensamente sentita: al desiderio di «tramandare ai Posteri la memoria dei nostri Martiri valorosi» si affiancò una forte istanza sionistica, ben presente nella nuova leadership comunitaria, che intendeva dimostrare «coi fatti che il Sionismo può accoppiarsi con sentimenti di ogni nazionalità». La lapide avrebbe quindi dovuto assolvere a compiti molteplici: suscitare «la riconoscenza indelebile delle famiglie dei Caduti, le lodi indiscusse della generalità» e tenere alto infine il «decoro» di tutti gli ebrei.81 Questi contenuti confluirono insieme nel testo dell’epigrafe, collocata significativamente nell’atrio del Tempio (Fig. 4), che così recitava: CADDERO DA PRODI SOLDATI D’ITALIA
NELLA GUERRA CHE FU PROCLAMATA
DI LIBERTA’ PER TUTTE LE GENTI
CONFERMANDO DOPO VENTI SECOLI
L’ANTICO VALORE DEI MACCABEI

LA COMUNITA’ EBRAICA DI FIRENZE
CELEBRANDO L’AUSPICATA VITTORIA
NEL GIORNO ATTESO DALLA FEDE DEI PADRI
INNEGGIANDO AL RISORGENTE ISRAELE
MEMORE RICONOSCENTE RIEVOCA
I FIGLI CHE SACRARONO IL LORO SANGUE
PER L’AVVENTO DI UN’ITALIA PIÙ GRANDE
D’UN ISRAELE LIBERO E UNITO
DI UN’UMANITA’ MIGLIORE E PIÙ PURA.82
Nel testo della lapide come nella cerimonia di inaugurazione, che si tenne infine domenica 9 maggio 1920, si intrecciavano non solo il codice patriottico con quello religioso, iscritti entrambi in quel culto dei «martiri caduti», «capitolo essenziale del processo di nazionalizzazione»83, ma anche il nazionalismo con il sionismo. I ventiquattro «martiri» ebrei fiorentini della Grande Guerra venivano presentati con un certo orgoglio «dopo venti secoli come gli eredi dell’antico valore guerriero dei Maccabei» e allo stesso modo «l’avvento di un’Italia più grande» veniva congiunto strettamente a un «risorgente Israele». Era questa la Firenze in cui si consumò, proprio nell’anno della lapide − il 1920 − l’esperienza del "Comune ebraico”, che aveva alle spalle figure importanti come il rabbino di origine galiziana Samuel Hirsch Margulies (1858-1922), che fin dai primi del secolo nel suo lungo magistero fiorentino aveva instancabilmente operato per il risveglio ebraico creando un circolo di discepoli che raccolsero e diffusero la sua eredità spirituale.84 Tra questi c’era il giovane leader dei sionisti fiorentini, l’avvocato Alfonso Pacifici fautore «dell’idea dell’assoluta unità di Israele», compiuta e armonica unione fra identità religiosa e sionismo nazionale, che significava: «un ritorno completo all’ebraismo, ritorno integrale, attivo, cosciente e travolgente alla vita intera della Torah, tramite il suo studio, l’attuazione dei suoi precetti e il ritorno a Sion».85 Tuttavia questo recupero dell’«ebraismo integrale» proposto dai sionisti, invece di unire, era destinato a creare fratture dagli «effetti dirompenti per l’identità ebraico-italiana»86, che si manifestarono subito anche a Firenze. Nel 1919 erano stati eletti nel Consiglio della comunità allievi di Margulies di spiccate tendenze sionistiche, espresse chiaramente come si è visto, anche nella lapide del 1920. Ma si trattò di un’esperienza innovativa destinata a durare poco, dato che gli avversari dei giovani sionisti − espressione del notabilato ebraico tradizionale − si rivolsero non senza un certo astio al correligionario Lodovico Mortara, ministro della Giustizia e degli Affari di culto, protestando contro i mutamenti introdotti. Pur nel corso della crisi ministeriale che avrebbe portato alla fine del suo impegno nel governo, Mortara accolse le proteste antisioniste e si giunse così all’intervento del prefetto che il 20 maggio 1920, a soli undici giorni dall’inaugurazione della lapide, sciolse d’autorità il consiglio dell’Università Israelitica di Firenze e nominò un commissario straordinario.87 L’epigrafe ai caduti di carattere sionista tuttavia rimase sotto il porticato del Tempio dove ancora si trova, a segnalare la raggiunta consapevolezza ebraica di una doppia appartenenza. Se dunque per la maggioranza degli italiani il sangue versato in battaglia diveniva simbolo sacro di rigenerazione della patria, per gli ebrei il «sacrificio» diventava ancipite e le patrie da sacralizzare erano due: l’Italia ma anche quell’«Israele libero e unito» che la lapide evocava. Negli anni Venti il sionismo era poco più di un’aspirazione − e nel nostro paese per giunta minoritaria − ma i suoi esiti erano destinati a svilupparsi in una misura allora davvero inaspettata.
3. La fonte perenne
Nel corso degli anni Venti «la ferrea volontà della grandiosa costruzione»88 mussoliniana convinse anche molti ebrei, e tra questi anche gran parte dei membri della leadership della comunità ebraica fiorentina, soprattutto dopo le elezioni del novembre 1926 di netta «colorazione fascista». Come constatò impotente il Consorzio, faceva entrare «la politica anche nelle Università [israelitiche], che invece sono essenzialmente enti di culto».89 La fascistizzazione della comunità fiorentina era andata così avanti che nell’aprile del 1927, quando il giornale «La Tribuna» sferrò un attacco al periodico sionista «Israel» e ad Alfonso Pacifici, la frattura del mondo ebraico si rivelò in tutta la sua drammaticità. Il presidente della Comunità infatti non esitò a scrivere al direttore della «Tribuna» per «altamente deplorare» l’operato del correligionario sionista Pacifici e per rassicurare l’opinione pubblica: «la grandissima maggioranza» degli ebrei fiorentini era «non solo estranea, ma anzi nettamente contraria alle tendenze sionistiche ed internazionalistiche manifestate dal suddetto avvocato e da pochissimi suoi seguaci», come del resto le recenti elezioni di molti consiglieri fascisti «devoti al Duce» avevano dimostrato e dimostravano.90 Le tensioni in seno all’ebraismo italiano lungi dal placarsi si moltiplicarono fino a provocare le dimissioni del presidente della comunità di Firenze, colonnello Raffaello Gallichi, evidenziando con chiarezza l’inconciliabilità fra sionismo e appartenenza nazionale fascista.
Molte erano state nel frattempo anche le trasformazioni all’interno del regime. Tra le altre si era modificata la memoria della prima guerra mondiale e la fisionomia stessa dei caduti si era indirizzata verso una risoluta fascistizzazione: «la legittimazione storica del regime e la formulazione di una sua religione civile si costruirono sull’affermazione di una continuità tra esperienza della guerra ed esperienza fascista».91 La "rivoluzione fascista” si imponeva dunque come autentico compimento della Grande Guerra: «continuazione della guerra lunga ed eroica conchiusa e suggellata epicamente con la vittoria di Vittorio Veneto».92 In tal modo accanto ai nomi dei soldati caduti si aggiunsero ben presto su monumenti, cimiteri militari, parchi della Rimembranza anche i nomi (o le salme) dei «martiri» fascisti morti negli scontri squadristici del primo dopoguerra.93 Proprio nel clima teso ingenerato dalle forti tensioni interebraiche e antisioniste del biennio 1926-1927, il Consiglio della comunità fiorentina, per evidenziare maggiormente la propria caratterizzazione in senso fascista, predispose la posa di una nuova epigrafe per i caduti ebrei della prima guerra mondiale, che doveva prendere le distanze da quella filosionista del 1920, sottolineare la continuità fra Grande Guerra e "rivoluzione fascista” e ribadire la propria attiva fedeltà alle scelte ideologiche del regime. La nuova lapide doveva essere «un rinnovato segno in memoria degli Ebrei fiorentini caduti in guerra e per la causa fascista, […] riconsacrando la sua devozione a chi è Duce della patria».94 Questa «devozione» a Mussolini si concretizzò in un nuovo monumento progettato dallo stesso presidente commissionario della Comunità, il letterato e artista Guglielmo Vita che negli stessi anni in un suo scritto di tono semiserio, insieme con le molte ramanzine contro il cattivo gusto degli «arricchiti»95 e le «sciocchezze dei pittori avveniristi»96 suoi contemporanei, aveva anche espresso una propria precisa estetica intorno a quel «turbine di monumenti, targhe, lapidi, urne che si era scatenato sulla patria»97 dopo la vittoria. Vita era irriducibilmente avverso a tutti quei monumenti ai caduti che rappresentavano «nudi eroi sorretti dalle prosperose vittorie», così come era contrario a raffigurare «Romani combattenti coi mulini a vento, o gladiatori morenti, irate anatomie, sgonnellati angeli, millenari emblemi: aquile e leoni, tripodi e festoni, scudi e medaglioni».98 Con gusto forse non del tutto estraneo all’antico divieto religioso ebraico di effigiare la divinità, ben più dei «bronzi petulanti» di «un’arte mezzana, che si adorna con ugual sorriso lusingatore per la tomba come per la scena», Vita affermava di prediligere «le semplici pietre coi soli nomi dei caduti» capaci di per sé di «commuovere e fiammeggiare»,99 oppure la stilizzazione di un «tempietto snello, nel cui centro una fonte mormorava sommessa e perenne».100 Dunque il nuovo monumento ai caduti ebrei fiorentini che Vita progettò si conformò del tutto a questi intendimenti estetici e il risultato fu una semplice fonte di pietra, il cui bacile appoggiato su una colonna sosteneva il monumento, composto di tre lapidi centinate la cui forma stondata potrebbe richiamare l’iconografia delle tavole mosaiche (Fig. 5). Le lastre ai lati contenevano i soli nomi dei caduti (quattordici per ciascuna) e quella centrale recava la seguente scritta: QUESTA PERENNE FONTE
SIA
PERENNE SACRA MEMORIA
DEGLI EBREI FIORENTINI
CADUTI PER LA GRANDEZZA DELLA PATRIA
1915-1920101
La cerimonia di inaugurazione del cippo si svolse il 16 dicembre 1928, preceduta da un’altra polemica fra i sionisti di «Israel» e il consiglio promotore dell’iniziativa. I sionisti disapprovarono il nuovo monumento ai caduti come un inutile «duplicato», che avrebbe solo «svalutato» la lapide posata otto anni prima. Inoltre giudicarono come «superfluità la fontana, nel suo gramo simbolismo, utilissima in Terra d’Israele, provvidenza agli assetati» ma poco opportuna a Firenze. Tuttavia per «Israel» il punto veramente dolente della nuova lapide era la scomparsa dell’ideale sionista di «un Israele libero e unito» per cui «i figli della Comunità avevano sacrato la loro vita» e che ora veniva del tutto rinnegato.102 In realtà l’autentica novità fascista della nuova epigrafe − su cui peraltro neppure «Israel» trovò nulla da ridire − stava nell’aver aggiunto il nome del «martire fascista» ebreo Gino Bolaffi all’elenco dei correligionari caduti nella prima guerra mondiale.103 Era la presenza di Bolaffi a qualificare la nuova lapide ribadendo con forza tanto la continuità fra Grande Guerra e regime quanto l’incrollabile fede fascista della leadership ebraica fiorentina, che ambiva identificarsi con il "martire” «che cadde per voler l’Italia nuovamente fatta salva colla rivoluzione fascista»104 (Fig. 6). Non mancarono neppure attriti fra il presidente Vita e il rabbino Elia Artom, che si era lamentato per «il modo non riguardoso» con cui la presidenza lo aveva trattato e che infine decise di non partecipare alla celebrazione.105 Ma le divergenze con l’autorità rabbinica non preoccuparono più di tanto il presidente Vita, che realizzò una cerimonia impeccabile dal punto di vista della riuscita politica incassando anche gli auspici dell’Università di Firenze, dove Bolaffi aveva studiato,106 e la piena approvazione del prefetto.107 Soprattutto giunsero le congratulazioni del re e di Mussolini, entrambi ovviamente informati ufficialmente dell’iniziativa.108 L’orazione tenuta da Vita per l’occasione si distinse invece per un tono moderato, meno punteggiato di spunti politici, non privo di accenti spirituali e di una commossa rievocazione di quegli «adolescenti volti che vedemmo partire ma non vedemmo tornare».109 Tra «gli adolescenti volti» figurava appunto anche il giovane Bolaffi, morto a ventitré anni. Pur essendo stato «volontario di guerra nel 19° artiglieria»,110 il giovane ebreo che veniva accomunato ai «caduti per la patria» della lapide, non era morto al fronte bensì a Firenze il 7 novembre 1920 nei violenti scontri di piazza tra l’"Unione Politica Nazionale” − coalizione di conservatori nazionalisti e fascisti che aveva appena vinto le elezioni amministrative − e i «sovversivi» comunisti e socialisti. Due uomini avevano trovato la morte in quella truce giornata: il ragioniere ventottenne Guido Fiorini e il giovane laureato in giurisprudenza Gino Bolaffi,111 immessi entrambi da subito nel martirologio ufficiale del fascismo anche se, secondo quanto attestato da uno dei fondatori del Fascio fiorentino, «i fascisti Fiorini e Bolaffi [erano] appartenenti però anche al partito liberale; ciò allora era permesso dal Fascismo non ancora divenuto partito».112 In ogni caso anche se non fu uno squadrista (forse neppure un attivista), Bolaffi immediatamente dopo «il barbaro delitto»113 entrò a pieno titolo nel pantheon fascista dei morti per la «Causa», commemorato insieme con Fiorini come esempio di quel «primo Martirio» che avrebbe guadagnato al Fascio fiorentino di combattimento «la conquista di un primato di potenza nell’Italia intera».114 Fin dai primi anni Venti il giovane Bolaffi, di cui peraltro nella pubblicistica coeva non viene mai ricordata l’appartenenza ebraica,115 occupò un posto d’onore nella liturgia fascista del culto dei caduti, «segnale della Fiamma ch’arde sulla Nazione intiera». Il sacrificio della sua giovane vita e il sangue versato, insieme con quello degli altri «martiri», alimentavano simbolicamente la rinascita della nazione. Bolaffi e Fiorini, «sacrificati sull’altare della Patria» nello stesso giorno divennero entrambi le immense ombre dei due Grandi Scomparsi [che] offuscarono d’allora il Sol dell’Avvenire, e riprendeva all’alba di quella tragica notte, a irradiarsi il Sole d’Italia […]. Tutta questa luminosità era chiazzata del sangue sempre rinnovato, dei cari Morti, ma splendeva e la luce si rifletteva rossastra, ammonendo gli assassini.116 L’inserimento di Bolaffi nella nuova lapide rappresentò solo una delle tappe − seppur l’unica in ambito ebraico − della crescente popolarità acquisita a livello cittadino dal giovane «martire fascista» per tutti gli anni Trenta.117 A seguito della riorganizzazione del PNF nel 1929, quando fu prevista la costituzione (facoltativa) da parte dei segretari federali dei circoli rionali, il Gruppo Rionale Fascista fondato a Settignano fu intitolato proprio a Gino Bolaffi.118 Nella sede dello stesso Gruppo Rionale nel giugno 1934 al suono delle fanfare che scandivano Giovinezza, fu inaugurato un busto di bronzo in onore del «glorioso Caduto», alla presenza della sua famiglia, del segretario federale e del commissario governativo della Comunità Israelitica di Firenze, Bettino Errera.119 Ma il momento più alto nel culto dei «martiri della Rivoluzione fascista», anche per l’ebreo Bolaffi giunse il 28 ottobre 1934, quando si tenne a Firenze, nel dodicesimo anniversario della marcia su Roma, «l’altissimo rito» della traslazione delle trentasette salme dei «gloriosi Caduti» da tumularsi nel «Sacrario» allestito nella cripta della Basilica di Santa Croce.120 La cerimonia in onore degli squadristi fiorentini, a cui la presenza di Mussolini e Starace conferì un’importanza nazionale, fu preparata con cura in ogni dettaglio:121 la composizione rigidamente gerarchizzata del corteo, la scenografia, l’imposizione del silenzio rotto solo da canti fascisti alternati a raffiche a salve, l’ossequio al labaro (giunto appositamente da Roma) fino al rito centrale dell’appello dei morti, «rito fascista per eccellenza», che celebrava solennemente «il vincolo sacro fra morti e vivi congiunti nella vitalità della fede».122 Per meglio marcare il peso e la grandiosità della manifestazione il «Bargello», settimanale della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento, uscì con un’edizione speciale a trentasei pagine «dedicata ai Caduti per la Rivoluzione Fascista», che strinse in una sola celebrazione tanto le imprese dello squadrismo fiorentino della "vigilia”, rievocate negli epici racconti dei protagonisti, quanto l’esaltazione in funzione propagandistica di iniziative e progetti sul territorio. In primo piano comparvero così le bonifiche nella piana; le «nuove opere» cittadine (lo stadio e la stazione di Santa Maria Novella); il risanamento del quartiere popolare di Santa Croce; l’«assistenza per il popolo»: mensa popolare, befana fascista, colonie estive, dispensari antitubercolari.123 Anche in occasione della cerimonia si confermava il paradigma narrativo fascista dominante: il glorioso passato dello squadrismo attraverso il sangue e il sacrificio dei propri «martiri» garantiva un presente entusiasmante fatto di positivi rinnovamenti e di intensa laboriosità, capace di proiettarsi, grazie al regime e al suo capo, in un futuro grandioso che attendeva tutti e a tutti prometteva benefici. Gli ebrei fascisti fiorentini aderirono con entusiasmo e commozione al grande «rito di Firenze»: vi abbiamo portato a spalla, noi squadristi della vecchia guardia del Fascismo Fiorentino, o Compagni, caduti accanto a noi nelle vie e nelle piazze di Firenze negli anni della liberazione […]. Fra i Martiri, l’Ebreo Gino Bolaffi. Fra noi, vivi, altri ebrei a tutti gli altri fraternamente uniti nella vita e nella morte senza distinzione di fede religiosa.124 Sempre in omaggio a Gino Bolaffi, nello stesso giorno della cerimonia del «Sacrario» fu officiata anche una celebrazione supplementare allestita nel giardino del Tempio e organizzata dagli «ebrei fascistissimi», divenuti accesi sostenitori del giornale «La Nostra Bandiera» fondato pochi mesi prima a Torino, «espressione degli Italiani combattenti e fascisti di religione ebraica».125 I «camerati fiorentini» Guglielmo Vita, Piero Chimichi, Goffredo Passigli e altri andarono a deporre davanti alla fonte marmorea dei caduti − quella inaugurata sei anni prima in cui si riconoscevano pienamente − «una corona di lauro con bacche d’oro sormontata da un fiocco tricolore», salutando solennemente il martire Bolaffi con «l’austero e fiero gesto del saluto romano».126 Non mancarono neanche in questa occasione così spettacolare contrasti interebraici prodotti dall’intransigenza fascista dei bandieristi fiorentini che polemizzarono tanto con i sionisti di «Israel», accusati di «non avere pubblicato una riga sulla storica e austera adunanza fascista»,127 quanto con i vertici della comunità, di cui i "fascistissimi” deprecarono l’assenza e il disinteresse, rilevando che le onoranze al «martire» Bolaffi erano state quasi esclusivamente una loro iniziativa.128 All’appello dei martiri fu scandito anche il tuo nome, Gino Bolaffi. Le milizie ed il popolo hanno risposto: Presente! In questo coro una voce è mancata: quella della Comunità a cui tu appartenevi. Ma quale preghiera è risuonata per te, Gino Bolaffi, nel Tempio e nel linguaggio della tua fede? Quale gesto, quale atto è stato compiuto in tuo ricordo? Il Capo spirituale ed il Capo amministrativo della Comunità non compresero la storicità del rito celebrato, non l’umanità e la poesia del gesto fraterno. Gino Bolaffi! Non dolerti troppo di questi pochi assenti. Siam già molti noi, e ben più saremo domani.129 I bandieristi rivendicarono di avere chiesto per tempo, «dieci giorni avanti la celebrazione», ai vertici della comunità ebraica fiorentina di partecipare ben più attivamente alla «solenne onoranza» con «cerimonie religiose al Tempio, alla fontana dei Caduti ed al Cimitero» invitando le scuole e «rendendo così tangibile la spirituale partecipazione della Comunità allo storico evento».130 Invece questi suggerimenti, secondo i bandieristi, erano stati del tutto disattesi. Tuttavia gli «amari rilievi e le considerazioni» sullo scarso entusiasmo dei correligionari vennero infine messi da parte «per non sminuire il significato dell’omaggio reso alla memoria di Gino Bolaffi e degli altri gloriosi Caduti della Rivoluzione».131 Se la polemica almeno in parte si attenuò, in realtà fu anche merito della diplomatica accortezza dell’avvocato Bettino Errera, regio commissario della comunità. A cose fatte ringraziò pubblicamente i bandieristi fiorentini per la corona da loro posata dinanzi alla fonte in omaggio «al nome purissimo del martire fascista Gino Bolaffi». Non mancò peraltro di fare notare con discrezione come anche lui avesse fatto la sua parte nella cerimonia «facendo spargere fiori sulla stessa fontana, ai piedi della stele commemorativa», prova sufficiente dei sentimenti fascisti degli ebrei della comunità.132 Tuttavia si trattò di un armistizio che avrebbe avuto vita breve, poiché il contrasto interno alla comunità era destinato a crescere ancora.
4. Omaggio all’Impero
Nei successivi anni Trenta, come descritto dalla storiografia sul tema, in concomitanza con il paese, proseguì intensamente anche la fascistizzazione dell’ebraismo italiano, favorita tanto dall’appartenenza di molti ebrei alla pubblica amministrazione, dove era esplicitamente richiesta la fedeltà al regime, quanto dalla «presa di distanza di Mussolini dalla campagna antiebraica varata da Adolf Hitler»,133 che ebbe sulle comunità italiane un effetto assai rassicurante. Non estranee a questo processo di adesione crescente al regime furono anche le spinte accentratrici e autoritarie insite nella legge «irregimentatrice»134 della compagine ebraica varata nel 1930, che riformava l’ordinamento delle comunità: in cambio di una «tranquillizzante dichiarazione ufficiale di "diritto all’esistenza”»,135 queste perdevano in sostanza la loro secolare autonomia, che peraltro rimpiansero solo in pochi.136
Nei primi mesi del 1934 la concomitanza di una campagna antisionista del regime e nel marzo dello stesso anno gli arresti a Torino di antifascisti di "Giustizia e Libertà”, di cui molti erano ebrei, aprì una nuova campagna antisemita nei settori fascisti più intransigenti.137 Se in questa occasione «il regime nel suo complesso non raccolse la sollecitazione a porre agli ebrei, e soprattutto ai sionisti, una scelta irrevocabile, il mondo ebraico si vide sottoposto a un attacco senza precedenti»,138 che comportò anche una crisi interna con lacerazioni e conflitti di breve durata ma davvero aspri, dato che le leggi razziali, ancorché inaspettate, erano ormai a ridosso. Stretti attorno alla «Nostra Bandiera», gli ebrei "fascistissimi” continuarono a scontrarsi con i sionisti contendendosi a livello nazionale la leadership dell’Unione − nuova istituzione prevista dalla legge del 1930 − che, a sua volta, si trovò sempre più schiacciata fra opzioni contrastanti, incalzata di volta in volta da bandieristi, sionisti, istanze governative e un antisemitismo ancora allo stato di frangia estremistica ma sempre più agguerrito. In questo clima molti ebrei si sentirono chiamati a ridefinire la propria identità, in parecchi casi ribadendo con forza una sentita adesione all’Italia e al fascismo, ma «proprio sulla natura di questa adesione, sui suoi limiti e le sue forme anche esteriori, si consumò lo scontro politico» all’interno delle comunità italiane.139 Così per ribadire energicamente la loro fede nel regime e nel duce, gli ebrei fascisti disprezzavano e condannavano ogni comportamento pubblico che recasse detrimento alla loro univoca italianità: le bandiere bianco-azzurre dei sionisti, il salutarsi «ostentamente con la parola Scialom […], bella soltanto se letta nei testi sacri», «l’uso di adoprare, frammiste al comune linguaggio, parole ebraiche o peggio deprecabili termini dei vecchi "gerghi”».140 Desideravano che i loro dirigenti nei comportamenti pubblici cambiassero radicalmente stile, abbandonassero le cautele, le «vecchie abitudini quietistiche e chiocciolose [sic!]»; «non distinguersi, non farsi notare» non era più una virtù. Noi siamo invece dell’avviso che bisogna distinguersi, tra i migliori cittadini. La grande maggioranza degli ebrei italiani è sempre stata veramente italiana, nel Risorgimento, nella Grande Guerra, nella Rivoluzione Fascista, come lo è oggi nei ranghi del Regime affrontando la prova della guerra in A.O. e la resistenza [...].
   Per questo l’invito [è] far largo ai giovani, allo spirito giovanile, non accomodante, cui ripugnano gli acrobatismi diplomatici e le abilità opportunistiche; che ama l’aria pura e gli atteggiamenti coraggiosi e franchi e squisitamente, genuinamente fascisti ed ha un significato ed è per noi un’insegna di battaglia.141
La battaglia «genuinamente fascista» contro la leadership dell’Unione infatti continuò nel gennaio del 1937 con la costituzione da parte dei bandieristi del "Comitato degli italiani di religione ebraica”. Non ci furono risultati sul piano politico, dato che in piena campagna razziale Mussolini non intendeva certamente «attuare un cambio di uomini e di linea politica ai vertici di quell’organismo»,142 ma si lacerò ulteriormente il tessuto dell’ebraismo italiano. Anche nella comunità fiorentina la crisi, già esplicita fin dai tempi della Fonte dei Caduti, si aggravò con il progredire del conflitto interno fra ebrei sionisti di «Israel», che proprio a Firenze aveva sede, ed ebrei "fascistissimi” membri del Comitato, sempre più impegnati nella battaglia per la leadership comunitaria. Alla guida dell’ente fiorentino in effetti i bandieristi arrivarono nel maggio 1937, quando vinsero le elezioni e Bettino Errera, commissario governativo dal 1934, lasciò la presidenza del Consiglio comunitario al commendator Goffredo Passigli, autorevole industriale proprietario di un calzificio e membro fra i più intransigenti del fascismo ebraico.143 Al momento della conquista dell’Impero, l’adesione degli ebrei fascisti alla politica coloniale mussoliniana, come era da aspettarsi, era stata piena e incondizionata, all’insegna della «dedizione più assoluta, più illimitata, più fervida alla causa della Patria».144 Con identico slancio molti ebrei nazionalisti risposero anche alle iniziative antisanzioniste, allo scopo di «assicurare il trionfo nazionale contro l’infame congiura delle potenze ricche, monopolizzatrici delle ricchezze del mondo, ai danni dell’Italia proletaria e fascista».145 A conquista avvenuta, quando nel maggio 1936 fu proclamato l’Impero dai colli di Roma, fierezza, entusiasmo, devozione al re e al duce, «artefice ammirato del superbo successo»,146 furono espressi dai bandieristi con molte manifestazioni di esultanza, che coinvolsero quasi tutte le comunità italiane e persino gli ebrei dell’Asmara. Firenze non fece eccezione. Ci furono estemporanei festeggiamenti "privati”, come quello che vide, il giorno dopo l’annuncio della vittoria, Goffredo Passigli guidare i dipendenti del suo calzificio in corteo per deporre corone di lauro: una al Monumento ai Caduti della Grande Guerra e un’altra alla Cripta dei Caduti Fascisti in Santa Croce.147 Ma ebbe luogo anche a Firenze, ancora nel giardino della sinagoga, un’iniziativa ben più solenne: la seconda posa di un cippo con lapide a opera dello stesso comitato promotore che aveva già realizzato la Fonte dei Caduti nel 1928. Anche in questa occasione il disegno del monumento fu opera di Guglielmo Vita: intendeva dare un «segno imperituro che ancora una volta affermi il devoto nostro amore per la Patria».148 Per raccogliere i fondi il comitato promosse una «sottoscrizione popolare» fra i membri della comunità che raggiunse una «cifra veramente insperata di quote e di firme»149 (Fig. 7). Questa volta il monumento non fu dedicato ai caduti, anzi sui morti di questa guerra coloniale − pochi o tanti che fossero − nei discorsi ufficiali non fu spesa nemmeno una parola, sia perché molto probabilmente non morirono ebrei fiorentini in Africa Orientale, sia soprattutto perché, anche al di là della minoranza ebraica, ambiguità e reticenze circondarono le morti dei nostri soldati in quella guerra, soldati che sul piano delle politiche della memoria e del mito del «martirio» ricevettero assai meno dei caduti in altre guerre italiane.150 Per la verità alla cerimonia fiorentina non si parlò nemmeno dei soldati rimasti vivi: non un cenno a quel mezzo milione di combattenti e operai militarizzati che in guerra erano andati e avevano combattuto. Parimenti non meritò una menzione neanche la «camicia nera fiorentina» Alfredo Melli, arruolatosi volontario con la 221 a Legione, correligionario che sul fronte africano si era distinto per «sprezzo del pericolo in un’azione».151 Il «ricordo marmoreo» e la liturgia della cerimonia si concentrarono invece programmaticamente sulla celebrazione della conquista più che sui soldati che l’avevano resa possibile. Soprattutto la ritualità e le retoriche cerimoniali si focalizzarono sul duce, il «fondatore dell’Impero», e sulla «grandiosa impresa africana e la civiltà che Egli ha fondato».152 In tal modo il guadagno imperiale per tutta la nazione era "fascisticamente” inteso come opera di un uomo solo. Nel giardino della sinagoga la «vibrante cerimonia» dell’inaugurazione ebbe luogo domenica 3 gennaio 1937. Il monumento che si scoperse consisteva in un cippo che recava la «fatidica data» della proclamazione dell’Impero, «9 Maggio 1936 − Anno XIV E.F.» a cui sottostava, come una firma, la scritta «La Comunità Israelitica». A sua volta il cippo era sormontato da un arco di marmo su cui campeggiava una frase lapidaria di Mussolini: «L’Italia ha finalmente il suo Impero. M»153 (Fig. 8). Alla cerimonia parteciparono molte autorità civili e militari, carabinieri, vigili, rappresentanti di gruppi rionali; anche Alessandro Pavolini, «l’intellettuale squadrista»,154 non fece mancare la sua adesione sia pure per iscritto. Fu questa una delle ultime cerimonie in cui l’ebraismo fiorentino partecipava alla vita civile e politica del regime insieme con tutti gli altri italiani: di lì a poco la segregazione sancita dalle leggi razziali avrebbe spezzato i vincoli fra maggioranza e minoranza e incrinato per sempre la fiducia dell’appartenenza. Ma qualche traccia di relazioni difficoltose, almeno un’eco dell’ostilità che la campagna antisemita stava rovesciando sul paese − un’inquietudine − doveva pur attraversare il contesto comunitario ebraico, se persino nella trionfalistica cerimonia bandierista il rabbino Abramo Arturo Uzielli sentì l’obbligo di comprovare l’italianità dei correligionari, dedicando gran parte della sua orazione a dimostrare l’esistenza di un felice legame fra l’antica Roma e gli ebrei, tanto apprezzati da Cesare e Augusto e ribadendo, quasi come per rassicurarsi, che «all’illuminatissimo Duce nostro [è] ben noto che gli eterni principi dell’Ebraismo [...] ben s’accordano e corrispondono ai principi etici che stanno alla base dello stato fascista».155 Al contrario di questi auspici, proprio nel corso del 1937, il regime si avviava con decisione a varare l’antisemitismo di Stato: sulla "questione ebraica” crebbe una campagna antisemita virulenta, «programmata e sistematica»156 che, già in corso fin dall’autunno dell’anno precedente, divenne sempre più martellante e nel 1938 approdò infine all’emanazione di leggi razziali rigorose e pervasive. Gli ebrei italiani furono colti per lo più di sorpresa: il divorzio proclamato unilateralmente da un regime che molti avevano amato portò a ulteriori dissesti identitari, accresciuti dall’indifferenza con cui la maggioranza degli italiani reagì alla segregazione della minoranza ebraica, al suo progressivo isolamento e al peggioramento delle sue condizioni di vita. Uno degli esiti delle leggi antisemite fu l’accentuarsi ulteriore della spaccatura interna fra ebrei filofascisti ed ebrei sionisti. A Firenze, dove i bandieristi erano pervenuti alla dirigenza della comunità, si ebbe perfino un episodio di violenza: il 15 novembre 1938 a poche settimane dai decreti antisemiti, un gruppo di ebrei fascisti − due dei quali membri del nuovo consiglio comunitario − con una vera e propria azione squadristica devastarono la tipografia Poligrafica di via San Gallo dove «Israel» veniva stampato.157 Si trattò di una pesante quanto inutile dimostrazione di fedeltà alle autorità, che peraltro procedettero pochi giorni dopo alla soppressione del giornale e iniziarono a disporre capillarmente restrizioni e spoliazioni previste dalle leggi antisemite e dalle numerose circolari applicative, in vigore ben oltre la caduta del regime il 25 luglio 1943. Dopo la parentesi badogliana, a partire dall’8 settembre quando si aprì per gli ebrei, dopo la "persecuzione dei diritti”, la nuova fase della "persecuzione delle vite”, nessuna passata fedeltà al fascismo poté fare da baluardo agli ebrei "fascistissimi” in nessuna parte nell’Italia occupata, e anche a Firenze le cose andarono nello stesso modo. Per Auschwitz, insieme a molti altri, partirono anche i bandieristi: lo stesso presidente della comunità fiorentina Goffredo Passigli con due dei suoi figlioli e due dei cinque assalitori della tipografia di «Israel». Nessuno di loro fece ritorno.158 La lapide del trionfo imperiale non c’è più oggi nel giardino della Sinagoga: è stata rimossa dopo la liberazione di Firenze, sentita allora come un’eredità sgradita e grottesca.
5. Tutti gli sventurati fratelli
Mentre una decisa quanto inedita visibilità della Shoah, tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila diventava un fenomeno transnazionale in tutto il mondo occidentale, nel giardino della Comunità ebraica fiorentina, ancora altre epigrafi venivano posate. In particolare nel 2003 si inaugurò una seconda lapide in memoria degli ebrei deportati da Firenze (Fig. 9). A distanza di circa cinquant’anni dalla vecchia lapide del 1951, il Consiglio della comunità volle impegnarsi a integrare l’elenco dei deportati e fu deciso di farlo non con una semplice aggiunta di nomi, ma con un nuovo monumento che fu infine realizzato in travertino scuro, concepito come «un muro, il frammento di una parete lapidea costruita con ricorsi di pietre». L’intenzione dell’architetto era di evocare, attraverso i nomi delle vittime incisi nei singoli blocchi di pietra come su delle pagine,
il libro della memoria, oppure delle lapidi configurando metaforicamente un cimitero con una "prospettiva schiacciata”, un implicito segno di sepolcro per coloro ai quali, di fatto, la sepoltura è stata negata. Fanno parte di questa "architettura delle rimembranze” due piante, due rose canine di colore rosso ardente che affiancano la lapide ai due lati, spuntando tra la ghiaia che copre e nasconde la terra -piante notoriamente tenaci e generose di fioriture: un gesto perpetuo dedicato a quei nomi.159 Su questa scura parete si legge la seguente epigrafe: A CINQUANTOTTO ANNI DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA
MONDIALE
QUI RICORDIAMO ACCANTO AI MARTIRI FIORENTINI
TUTTI GLI ALTRI SVENTURATI FRATELLI DEPORTATI DA FIRENZE NEI
CAMPI DI STERMINIO
Sotto questa scritta, due righe in ebraico spostate sulla destra riportano una citazione biblica, l’invocazione «O terra non coprire il mio sangue»160: il grido che Giobbe sofferente lancia al cielo, affinché le sue sventure non vengano oscurate e possa egli alzare alti i suoi lamenti a Dio. Più sotto, suddivisi in blocchi separati, seguono novantaquattro nomi "nuovi” di vittime dello sterminio. Staccati dagli altri, sotto la dicitura «Altre vittime della barbarie nazifascista» compaiono otto ulteriori nomi di persone morte in Italia a causa delle persecuzioni in circostanze molto differenti: tre casi di suicidio, tre fucilati, una neonata morta di stenti dopo la deportazione dei genitori, un’anziana signora deceduta a Fossoli dopo l’arresto all’Ospizio israelitico.161 Nella nuova lapide il Consiglio intendeva integrare l’elenco dei nomi dei morti correggendo il criterio adottato nel 1951: «elencare solo le vittime dei nazisti che facevano parte della Comunità fiorentina almeno da un anno», criterio che nel 2003 veniva giudicato «molto ponderato ma assai limitativo».162 Dunque si aggiunsero nella nuova lapide i nomi di tutti gli altri deportati da Firenze, almeno quelli noti: innanzitutto i correligionari di altre parti d’Italia; poi gli ebrei profughi stranieri e infine anche gli ebrei fiorentini deportati che, avendo abiurato l’ebraismo, erano stati esclusi dalla precedente epigrafe. Tra loro significativamente trovarono posto anche i bandieristi fiorentini, finalmente accettati anche loro nel novero degli «sventurati fratelli» semplicemente come vittime da ricordare, con questa inserzione implicitamente chiudendo i conti con le logoranti lacerazioni interebraiche vissute dalla comunità sotto il regime163 (Fig. 10).
Merita di essere ancora segnalata in questa rassegna un’altra lapide presente nel giardino del tempio, ancora una volta da riferirsi alla seconda guerra mondiale e alle persecuzioni nazifasciste. È stata posata di recente, il 15 aprile 2010, epoca in cui è stato portato a termine il restauro della Sinagoga e del museo annesso (Fig. 11). Come si vede, la lapide è montata su un semplice basamento, quasi un leggio, e accompagna, come una didascalia, i resti di alcune colonne del matroneo del tempio, andate abbattute nel tentativo di distruzione della sinagoga effettuato dai nazisti al momento della loro ritirata; il cippo-leggio e le colonne posate semplicemente sul terreno del giardino costituiscono di per sé un insieme monumentale (Fig. 12). La scritta recita prosasticamente: La notte tra il 3 e il 4 agosto 1944, i nazisti abbandonavano la città. Come loro ultimo atroce atto, fecero saltare i ponti, ma dovevano esplodere anche le mine poste nella Sinagoga; miracolosamente non tutte erano ben collegate e fu distrutta solo una parte dei matronei. I cimeli delle colonne distrutte sono qui a testimoniare quello che poteva essere il crollo totale del Tempio Maggiore di Firenze

Opera del Tempio Ebraico
Firenze 15 aprile 2010

Lo stesso testo è ripetuto più sotto in inglese, a testimonianza di una vitalità anche turistica ormai raggiunta dall’intero complesso monumentale ebraico fiorentino, dove i segni delle distruzioni sono diventati altrettante tappe di un percorso storico-museale aperto al mondo e alla città, in consonanza con l’importanza assunta ovunque dal genocidio antiebraico.
6. Eretz Israel
La seconda lapide è meno recente (risale al 1998) ma non meno significativa: celebra la nuova e viva fratellanza della comunità ebraica fiorentina con lo stato d’Israele nel cinquantenario della sua proclamazione, e contemporaneamente evoca «il sacrificio» di altri «fratelli caduti».
La scritta in italiano è preceduta da due citazioni bibliche in ebraico: la prima è l’angosciosa domanda che rinnova il mesto lamento di David per la morte in battaglia di Saul e di Gionata, rivolta ora alle nuove vittime della storia recente: «Lo splendore di Israele cadde trafitto sulle alture. Come caddero i prodi!»164. La seconda frase, ancor più lapidaria − «Non è forse questo un tizzone scampato dal fuoco?» −165 si riferisce alla sorte del popolo di Israele, sempre scampato alla completa distruzione per volere divino. Il bilinguismo ebraico-italiano crea una corrispondenza significativa fra gli eventi commemorati nelle epigrafi -episodi specifici situati nel fluire progressivo e cangiante delle vicende umane- e l’opposta prospettiva, atemporale e statica in cui la parola biblica iscrive l’accaduto. Si crea una tensione fra un tempo lineare, che si protende verso il molteplice e il relativo, e un tempo più solenne scandito sub specie aeternitatis che dilata e riscatta lo statuto fragile delle umane vicissitudini (Fig. 13). Si commemorano specificamente qui tre ebrei fiorentini emigrati in Israele che persero la vita nel primo conflitto arabo-israeliano del 1948, simbolicamente legati contemporaneamente a Firenze e alla nuova patria israeliana: LA COMUNITA’ EBRAICA DI FIRENZE
A 50 ANNI DALLA NASCITA DELLO STATO DI ISRAELE
RICORDA IL SACRIFICIO DEI SUOI FRATELLI CADUTI
NELL’ANNO 5708-1948

ENZO JOSEPH BUONAVENTURA 1891-1948
ANNA DI GIOACCHINO CASSUTO 1911-1948
RUBEN ARTOM 1928-1948
Il primo nome che compare è quello di Enzo Joseph Bonaventura, psicologo e pioniere della psicoanalisi italiana che a Firenze era stato docente di psicologia. Licenziato a causa delle leggi razziali, nel 1939 emigrò in Palestina e approdò all’Università di Gerusalemme. Trovò la morte il 13 aprile 1948 in un attacco al convoglio del suo istituto sul Monte Scopus.166 Troviamo poi Anna Di Gioacchino (1911-1948), moglie del rabbino capo fiorentino morto ad Auschwitz, Nathan Cassuto. Anche Anna Di Gioacchino era stata deportata nel gennaio 1944, ma sopravvisse e tornò. Trasferitasi in Israele con i suoi tre figli fu uccisa nello stesso attentato in cui perse la vita Bonaventura. Il terzo personaggio menzionato nella lapide era figlio del rabbino Elia Samuele Artom, che a Firenze tra il 1926 e il 1935 aveva esercitato il suo magistero e dove nel 1928 era appunto nato Ruben, caduto ventenne anch’egli nel 1948. La natura ancipite di queste tre esistenze viene riproposta plasticamente nella traduzione in ebraico dei loro nomi e delle date di nascita e di morte di ciascuno, seguiti dall’appellativo onorifico per i defunti «Sia benedetta la loro memoria».167 Accogliendo questa lapide nel recinto del Tempio, si rappresentava la fine simbolica della seconda guerra mondiale: commemorando i caduti fiorentini della prima guerra arabo-israeliana, cruciale per l’esistenza stessa dello stato d’Israele, si esprimeva nitidamente come tanta parte dell’ebraismo italiano avesse guadagnato un centro focale forte di riferimento, un luogo di appartenenza, lontano geograficamente da Firenze ma ormai, pur in mezzo a molte contraddizioni, costitutivo dell’identità ebraica della diaspora (Fig. 14).

M. B.



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Note

1 G. Bassani, Una lapide in via Mazzini, ora in Id., Il romanzo di Ferrara, Milano, Mondadori, 1980, p. 90. torna su
2 G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 7. torna su
3 Esemplare il caso di Elio Servadio (1894-1957), medico e ufficiale sanitario del Comune di Prato. Dopo le persecuzioni, pur essendo tornato a vivere in Italia dalla Palestina dove si era rifugiato fin dal dicembre del 1938, non riprese mai più il suo posto a Prato, né esercitò più l’arte medica (F. Ventura, Dottor Elio Servadio "dispensato dal servizio”, Pisa, Pacini, 2008). torna su
4 Schwarz, Ritrovare se stessi cit.; cfr. anche: Il ritorno alla vita. Vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Firenze, Giuntina, 1998; I. Pavan, Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia 1938-1970, Firenze, Le Monnier, 2004; G. D’Amico, Quando l’eccezione diventa norma. La reintegrazione degli ebrei nell’Italia postfascista, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. torna su
5 M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 2005, p. 109. Per i dati sugli ebrei deportati cfr. L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 20022 (1a ed. 1991). torna su
6 P. Levi, Il canto del corvo (I), ora in Id., Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 2004, p. 16. torna su
7 I. Calvino, Prefazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 19644 (nuova edizione con prefazione dell’autore; 1a ed. 1947), pp. 7-24, la cit. è a p. 8. torna su
8 G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007, p. 8. Cfr. anche L. Paggi, Il popolo dei morti. La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946), Bologna, Il Mulino, 2009. torna su
9 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 151-65. torna su
10 Schwarz, Ritrovare se stessi cit., p. 143. torna su
11 Cfr. art. 5 del Decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio 1944, n. 159, sulle sanzioni contro il fascismo: «chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza ad esso prestata, è punito a norma delle disposizioni del codice penale militare di guerra». (G. Vassalli, Collaborazionismo, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/collaborazionismo_(Enciclopedia-Italiana)/; ultimo accesso: 17 gennaio 2017). Cfr. anche il Decreto legislativo luogotenenziale, 22 aprile 1945, n. 142. torna su
12 M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006, p. 261. torna su
13 Cfr. M. Flores, V. Galimi, La Shoah in tribunale. Giustizia postbellica e memoria delle persecuzioni, in Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie rappresentazioni, vol. II, Memorie, rappresentazioni, eredità, a cura di M. Flores, S. Levis Sullam, M.-A. Matard-Bonucci, E. Traverso, Torino, UTET, 2010, pp. 37-56, in partic. p. 44. torna su
14 Archivio Storico della Comunità Ebraica di Firenze (d’ora in poi ACEFI), D.14.3, fasc. n. 9 "Processo Martelloni. 1949-1950”, lettera manoscritta dell’avvocato D. Lattes al presidente della Comunità di Firenze A. Orvieto, datata 6 luglio 1950. torna su
15 F. Fortini, I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967, p. 75. torna su
16 Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASFI), Corte d’Assise di Firenze 1954/12, fasc. VII, Requisitoria del Procuratore Generale nel Procedimento penale contro Martelloni Giovanni ed altri 67, datata 8 ottobre 1949, p. 38. Per le persecuzioni a Firenze cfr. M. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze: razzie, arresti, delazioni, in Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), vol. I, Saggi, a cura di E. Collotti, Roma, Carocci, 2007, pp. 45-140. torna su
17 M. Cartoni, Il processo della "banda Martelloni” iniziato con una chiara esposizione del presidente, in «La Nazione Italiana», 7 luglio 1950, p. 2. torna su
18 Per l’operato antiebraico della "banda” Carità, cfr. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze cit., pp. 68-93; cfr. anche R. Caporale, La "Banda Carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-1945), prefazione di D. Gagliani, Lucca, San Marco Litotipo, 2005, pp. 134-142. torna su
19 Franzinelli, L’amnistia Togliatti cit., p. 249. torna su
20 Ibid.torna su
21 G. Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Roma, Donzelli, 2009, p. 40. torna su
22 E. Collotti, Il razzismo negato, in Id. (a cura di), Fascismo e antifascismo: rimozioni, revisioni, negazioni, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 355-76, la cit. é a p. 359; cfr. Schwarz, Ritrovare se stessi cit., pp. 112 e 137. torna su
23 O. Bartov, La memoria della Shoah: la questione del nemico e della vittima, in Storia della Shoah cit., vol. II, pp. 15-78, la cit. è a p. 44. torna su
24 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 57. torna su
25 P. Levi, Buco nero di Auschwitz, in «La Stampa», 22 gennaio 1987, p. 1. torna su
26 E. Traverso, Introduzione, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. I, La crisi dell’Europa e lo sterminio degli ebrei cit., pp. 3-13, la cit. è a p. 4 (corsivo del testo). torna su
27 Levi, Il canto del corvo (I) cit., p. 16. torna su
28 «Inespiabile» fu il lapidario aggettivo usato da Umberto Saba per definire quanto accaduto nel campo di sterminio di Majdanek, appena gliene giunse notizia nel primissimo dopoguerra (U. Saba, Scorciatoie e raccontini, Milano, Mondadori, 1946, p. 72). torna su
29 G. Schwarz, L’elaborazione del lutto. La classe dirigente ebraica italiana e la memoria dello sterminio (1944-1948), in Il ritorno alla vita cit., p. 168. Per le ricerche relative alle vittime della Shoah italiana, cfr. L. Picciotto Fargion, L’attività del Comitato Ricerche Deportati Ebrei. Storia di un lavoro pionieristico (1944-1953), in Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, a cura dell’Istituto Storico della Resistenza in Piemonte, Milano, Angeli, 1985, pp. 75-96. Cfr. anche il più recente C. Di Sante, Auschwitz prima di "Auschwitz”. Massimo Adolfo Vitale e le prime ricerche sugli ebrei deportati dall’Italia, postfazione di L. Picciotto, Verona, Ombre Corte, 2014. torna su
30 M. Baiardi, Appendice I. Elenco degli ebrei deportati da Firenze, in Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI cit., pp. 140-74. torna su
31 L. Viterbo, A ricordo perenne dei deportati, in «Firenze ebraica», nn. 1-2, gennaio-aprile 2003, p. 33. torna su
32 Nel settembre 1944 fu comunicato alla Comunità ebraica fiorentina che si era costituito il Comitato di Ricerche Deportati Ebrei (ACEFI, D. 14.3, fasc. n. 8, "Unione delle Comunità. Corrispondenza del novembre 1944”, lettera dell’UCII, datata 26 settembre 1944). Cfr. Picciotto Fargion, L’attività del Comitato Ricerche Deportati Ebrei, in Una storia di tutti cit., p. 77. Il primo elenco dei deportati «ebrei catturati o fucilati a Firenze e Siena» fu inviato da Firenze all’Unione poche settimane dopo (ACEFI, D. 14.3, fasc. n. 8 "Unione delle Comunità. Corrispondenza del novembre 1944”, lettera della Comunità ebraica di Firenze all’UCII, datata 1° novembre 1944). torna su
33 Schwarz, Ritrovare se stessi cit., p. 158. torna su
34 ACEFI, D.13.2, fasc. 6, missiva del Comitato Ricerche Deportati Ebrei di Roma, diretta alla Comunità di Firenze (a firma del Col. M. A. Vitale), datata 6 luglio 1949. Per la figura di Vitale, cfr. R. Bassi, Ricordo di Massimo Adolfo Vitale. Dal Comitato Ricerche Deportati Ebrei al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, in «La Rassegna Mensile di Israel», vol. XLV, nn. 1-3, gennaio-marzo 1979, pp. 8-21; cfr. anche Id., Scaramucce sul lago Ladoga, prefazione di T. Zevi, Palermo, Sellerio, 2004. torna su
35 La madre dell’architetto Bemporad, la vedova Clara Galletti, fu arrestata il 27 marzo 1944 insieme con le tre figlie Lidia, Marcella e Anna, e il figlio Giorgio non ancora sedicenne e disabile (ACEFI, E. 14. 1, fasc. 7, ad nomina). Un breve profilo professionale di Nello Bemporad è rinvenibile sul sito: http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgibin/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=61437&RicProgetto=reg-tos&RicVM=indice&RicSez=prodpersone&RicTipoScheda=pp (ultimo accesso: 24 gennaio 2017). Bemporad era stato incaricato di procedere alla redazione del progetto dal presidente della Comunità fiorentina Orvieto il 27 maggio 1951 (ACEFI, "Gestione Comunità. Lapidi di ricordo. Caduti e deportati. 1920-1951”. E. 14.1, fasc. n. 9, "Capitolato d’appalto per l’esecuzione di un monumento commemorativo ai Deportati Ebrei della Comunità di Firenze”). torna su
36 Per non separare nell’epigrafe i nuclei familiari, fu deciso che le donne maritate comparissero con il cognome del coniuge, seguito dal loro cognome da nubili. torna su
37 «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno»: è la parte iniziale dello Shemà Israel che riprende Deuteronomio 6, 4, in Bibbia ebraica. Pentateuco e Haftaroth, a cura di R. D. Disegni, Firenze, Giuntina, 1995, p. 302. La preghiera dello Shemà esorta i fedeli alla fede nell’unicità di Dio, al rispetto dei comandamenti e all’obbligo di trasmissione ai figli della nozione monoteistica. Cfr. anche A. Pacifici, Discorsi sullo Shemà, Roma-Gerusalemme, Israel-Taoz, 5714-1953. torna su
38 Y. H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, trad. di D. Fink (Zakhor. Jewish History and Jewish Memory, Seattle, University Washington Press, 1982), Parma, Pratiche, 1983, p. 22. torna su
39 Cfr. ivi, pp. 105-12. Per una riflessione sulla memoria della sofferenza nella tradizione ebraica e la sua sacralizzazione, anche in riferimento alla Shoah, cfr. E. Benbassa, La sofferenza come identità, Verona, Ombre Corte, 2009. torna su
40 A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 62 e sgg. torna su
41 Salmo 44, 18, in Bibbia ebraica. Agiografi cit., p. 34. torna su
42 Ibid.torna su
43 A.-V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Torino, Einaudi, 2001, pp. 19-20. torna su
44 Anche la circolare diramata dal Consiglio della Comunità ebraica alle famiglie per la ricerca dei dati delle vittime recitava infatti nella sua intestazione «Ricordo marmoreo per i Deportati» (ACEFI, E.14.1, fasc. 6, circolare "Ricordo marmoreo per i Deportati”, datata aprile 1951, corsivo di chi scrive). Per una storia del termine «olocausto», cfr. il capitolo omonimo contenuto nel già ricordato volume di Sullam Calimani, I nomi dello sterminio cit., pp. 79-101. torna su
45 Viterbo, A ricordo perenne dei deportati cit., p. 35. torna su
46 ACEFI, E.14.1, fasc. 8, Allegato alla lettera di P. Nissim diretta ad A. Orvieto, datata 21 febbraio 1951. torna su
47 ACEFI, E.14.1, fasc. 6, circolare «Ricordo marmoreo per i Deportati» cit. torna su
48 Giuseppe Passigli di Goffredo e Agnese Reggio era nato a Ferrara il 13 febbraio 1923; si battezzò il 2 aprile 1940 con notifica pervenuta in Comunità il 20 settembre 1940 (ACEFI, E. 25. 3, "Gestione Comunità. Stato civile” pag. 102 bis, n. 5334); fu arrestato nel dicembre 1943 nei pressi di Greve in Chianti da italiani insieme con il padre Goffredo e il fratello Leone, i quali, al contrario di Giuseppe, compaiono nella lapide del 1951. Nessuno dei Passigli sopravvisse ad Auschwitz. Per le circostanze del loro arresto, cfr. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze cit., pp. 74-78. Piero Chimichi, nato a Pisa il 1 agosto 1905, era il corrispondente da Firenze del giornale torinese degli ebrei fascisti «La Nostra Bandiera»; sua moglie Laura Prato, nata a Firenze il 1 marzo 1906, era la figlia del rabbino David Prato. Cfr. Picciotto, Il libro della memoria cit., ad nomina.torna su
49 E. Artom, In memoria degli ebrei di Firenze deportati e caduti. Documento 14, in Resistenza liberale a Firenze, a cura di M. Brambilla - G. Fantoni (prefazione di Z. Ciuffoletti), Roma, Elidir, 1995, pp. 175-178, la cit. è a p. 175. Cfr. S. Rogari, Eugenio Artom, in Fiorentini del Novecento, vol. II, a cura di P. L. Ballini, Firenze, Polistampa, 2002, pp. 10-21. torna su
50 Artom, In memoria degli ebrei di Firenze deportati e caduti cit., p.176. torna su
51 Ivi, p. 177. torna su
52 Ivi, p. 178. Il nome di Bruno Bauer compare nelle lapidi del 1920 e del 1928. Daria Mondolfi Bauer (1867-1944), fu arrestata nell’aprile del 1944 e uccisa all’arrivo ad Auschwitz (Picciotto, Il libro della memoria cit., ad nomen)torna su
53 ACEFI, E/61, "Unione delle Comunità Israelitiche 1932-1937; 1945-1955”, fasc. 7, doc. n. 863, lettera di R. Cantoni dall’Unione alla Comunità di Firenze, datata 9 settembre 1946. torna su
54 Artom, In memoria degli ebrei di Firenze deportati e caduti cit., p. 178. torna su
55 ACEFI, E. 14. 1, fasc. 10; lettera del presidente della Comunità ebraica di Firenze A. Orvieto, diretta al Ministro di Grazia e Giustizia Adone Zoli, datata 20 novembre 1951. torna su
56 Cfr. Scoperta una lapide in ricordo degli israeliti vittime del razzismo. Il ministro Zoli assiste alla cerimonia − Il riconoscimento del Rabbino per l’opera fraterna dei sacerdoti e religiosi, in «Il Mattino», lunedì 19 novembre 1951, p. 2. torna su
57 ACEFI, E.14.1, fasc. 12, manca la denominazione, ma si tratta della lista degli inviti diramati per la cerimonia della lapide. Tra i parlamentari invitati ci sono per la Democrazia Cristiana: Guido Corbellini, Maurizio Vigiani, Attilio Piccioni (allora vice presidente del Consiglio dei ministri); per il Partito Comunista italiano: Orazio Barbieri, Armando Sapori, Dino Saccenti, Giulio Montelatici; per il Partito Socialista italiano: Attilio Mariotti, Giovanni Pieraccini, Ferdinando Targetti, per il Gruppo misto: Piero Calamandrei. torna su
58 Domenica 18 novembre 1951, in contemporanea alla cerimonia alla Sinagoga, si svolsero infatti a Firenze «un’assise provinciale per la pace», presieduta dal professor Luigi Russo (Stamane al Teatro Imperiale la seconda Assise della Pace, in «L’Unità-Cronaca di Firenze», domenica 18 novembre 1951, p. 2), e il convegno provinciale della Federazione Comunista Fiorentina per il reclutamento e il tesseramento per il 1952, a cui parteciparono molti dirigenti comunisti locali, nessuno dei quali ovviamente fu presente alla Sinagoga (Raggiungere i centomila iscritti alla Federazione Comunista Fiorentina, in «L’Unità» Cronaca di Firenze, martedì 20 novembre 1951, p. 2). torna su
59 ACEFI, E.14.1, fasc. 12, Elenco di "Simpatizzanti e soci non ebrei della amicizia ebraico-cristiana”, pp. 1-2. torna su
60 Sull’"Amicizia ebraico-cristiana”, cfr. il saggio di L. Martini, Cristiani ed ebrei in dialogo a Firenze nel’900, in Identità religiosa di Firenze nel Novecento. Memoria e dialogo, a cura della Fondazione Giorgio La Pira, Firenze, Polistampa, 2002, pp. 112-32; S. Baldi, Il dialogo ebraico-cristiano e la nascita dell’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze (1947-1970), in Movimenti popolari evangelici nei secoli XIX e XX, a cura di D. Maselli, Firenze, Fedeltà Edizioni, 1999, pp. 67-89; E. Mazzini, Cristiani ed ebrei dopo la Shoah. Momenti e protagonisti dell’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze (1945-1965), in «Annali di storia di Firenze», VIII, aprile 2014, pp. 361-90 (disponibile all’indirizzo: http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/14451; ultimo accesso: 21 gennaio 2017). torna su
61 G. La Pira, Giornata internazionale di amicizia ebraico-cristiana, ora in Id., Scritti discorsi e lettere, a cura di U. De Siervo, G. Giovannoni, G. Giovannoni, vol. III, Firenze, Nuova Editrice-Comune di Firenze, 1988, pp. 325-37 (specificamente su Firenze, pp. 333-34). torna su
62 ACEFI, E.14.1, fasc. 10, lettera di A. Orvieto a E. Artom, datata19 novembre 1951. torna su
63 A. Orvieto, Fior d’Arno, in Id., Il vento di Sion e I Canti dell’escluso, prefazione di D. Lattes e E. Turolla, Roma, Fondazione per la Gioventù Ebraica, 1961-5721, p. 257. torna su
64 D. Lattes, Angiolo Orvieto, poeta ebreo, in Orvieto, Il vento di Sion e I Canti dell’escluso cit., p. 8. torna su
65 Schwarz, Ritrovare se stessi cit., p. 176. torna su
66 Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit. p. 163. torna su
67 Artom, In memoria degli ebrei di Firenze deportati e caduti cit. p. 178 (corsivo di chi scrive). torna su
68 W. Lattes, Ricordo degli ebrei fiorentini, in «Il Nuovo Corriere», mercoledì 21 novembre 1951, p. 3. Cfr. anche: A., F., S., S., W. Nirenstein, Come le cinque dita di una mano. Storia di una famiglia di ebrei da Firenze a Gerusalemme, Milano, Rizzoli, 1998. torna su
69 M. Toscano, Gli ebrei in Italia dall’emancipazione alle persecuzioni, in «Storia contemporanea», n. 5, ottobre 1986, pp. 913-14 (cit. in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 19935, 1a ed. 1961, pp. 20-21). torna su
70 A. Cavaglion, Tendenze nazionali e albori sionistici, in Storia d’Italia, XI, Gli Ebrei in Italia, t. II, Dall’emancipazione a oggi, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1997, pp. 1291-1320, la cit. è a p. 1297. torna su
71 Ivi, p. 1295. torna su
72 T. Catalan, L’organizzazione delle comunità ebraiche italiane dall’Unità alla prima guerra mondiale, in Storia d’Italia. XI, Gli Ebrei in Italia cit., pp. 1243-1290, la cit. è a p. 1287. Per la partecipazione degli ebrei alla prima guerra mondiale: De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo cit., p. 16 (cfr. nota 1) e anche P. Briganti, Il contributo militare degli ebrei italiani alla Grande Guerra (1915-1918), Torino, Zamorani, 2009. torna su
73 J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, trad. di N. Rainò (Sites of Memory, Sites of Mourning. The Great War in European cultural history, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 1995), Bologna, Il Mulino, 1995, p. 118. torna su
74 B. Tobia, Monumenti ai caduti. Dall’Italia liberale all’Italia fascista, in La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di O. Janz e L. Klinkhammer, Roma, Donzelli, 2008, pp. 45-62, la cit. è a p. 56 (c.vo del testo). torna su
75 E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 20012 (1a ed. 1993), p. 20. torna su
76 Tobia, Monumenti ai caduti. Dall’Italia liberale all’Italia fascista cit., p. 55. torna su
77 ACEFI, E. 14. 1, fasc. 1, lettera manoscritta di O. Levi al Comune Israelitico di Firenze, datata 12 aprile 1920. torna su
78 Ibid.torna su
79 G. Fiori, Casa Rosselli. Vita di Carlo e Nello, Amelia, Marion e Maria, Torino, Einaudi, 1999, pp. 18-20. torna su
80 A. Rosselli, Lettera a Maria Bianca Viviani della Robbia cit. in Fiori, Casa Rosselli cit. p. 27. torna su
81ACEFI, E. 14. 1, fasc. 1, lettera di O. Levi al Comune Israelitico di Firenze cit. torna su
82 Per il testo dell’epigrafe, vedi anche D. Lattes e A. Pacifici, Da Firenze. Cose fiorentine, in «Israel», n. 11, 29 novembre 1928, p. 4. torna su
83 A. Gibelli, Culto degli eroi e mobilitazione politica dell’infanzia tra Grande guerra e fascismo, in La morte per la patria cit., pp. 81-99, la cit. è a p. 82. Per il concetto di "martire” nel lessico politico e la sua evoluzione a grandi linee, v. R. Suzzi Valli, Il culto dei martiri fascisti, in La morte per la patria cit., pp. 101-117, in partic. a p. 105. Per l’intreccio dei codici patriottico e religioso nel culto dei morti della «religione civile antifascista» del secondo dopoguerra cfr. G. Schwarz, Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, Torino, UTET, 2010, p. 57. torna su
84 A. AstrologoF. Del Canuto, Firenze 1920. Storia del Comune Ebraico, in «Rassegna Mensile di Israel», vol. XLIV, n. 1, gennaio 1978, pp. 6-42. Per la figura di Margulies, cfr. C. A. Viterbo, Un maestro ancora presente, in «Rassegna Mensile di Israel», XXXVIII, n. 4, aprile 1972, pp. 195-206; J. M. A. Pacifici, Ha-Rav S.Z. Margulies, ivi, pp. 207-13; A. Neppi Modona, Ricordi personali su S. H. Margulies, ivi, pp. 214-21. torna su
85 S. Della Seta e D. Carpi, Il movimento sionistico, in Storia d’Italia, XI, Gli ebrei in Italia cit., pp. 1321-1368, la cit. è a p. 1326. Cfr. anche V. Piattelli, ‘Israel’ e il sionismo in Toscana negli anni Trenta, in Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), a cura di E. Collotti, vol. I, Saggi, Roma, Carocci, 1999, pp. 35-79, in partic. pp. 36-7. torna su
86 Cavaglion, Tendenze nazionali e albori sionistici, in Storia d’Italia, XI, Gli ebrei in Italia cit., pp. 1291-1320 , la cit. è a p. 1293. torna su
87 L. Viterbo, Cronache dal passato fiorentino: la difficile successione del Rabbino Margulies (1920-1926), in «La Rassegna Mensile di Israel», LX, n. 3, sett.-dic. 1994, pp. 148-178, in partic. p. 148. Cfr. M. Longo Adorno, Gli ebrei fiorentini dall’emancipazione alla Shoà, Firenze, Giuntina, 2003, pp. 19-20 e p. 155 (nota 38). torna su
88 E. Ovazza, In margine alla storia. Riflessi della guerra e del dopoguerra, 1914-1924, prefazione di V. Buronzo, Torino, Casanova, 1925, p. 116. Questo testo rappresenta una testimonianza accorata e motivata di intensa partecipazione prima alla Grande Guerra e poi alla "rivoluzione fascista”, scritto dal banchiere torinese, «tenente d’artiglieria di complemento» Ettore Ovazza, che nel 1934 sarà tra i fondatori del settimanale degli ebrei fascisti «La Nostra Bandiera». Per ulteriori notizie su Ovazza, che finirà massacrato dai nazisti insieme con la sua famiglia sul Lago Maggiore nel settembre 1943 si veda A. Stille, Uno su mille. Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo, Milano, Mondadori, 1991, pp. 11-95. torna su
89 Verbale della seduta del Consorzio del 9 gennaio 1927 cit. in M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Milano, Angeli, 2003, p. 166 (nota 38). torna su
90 ACEFI, E. 19.1 (1918-1935), Gestione Comunità, fasc. "Polemica Pacifici-Tribuna”, lettera del presidente della Comunità fiorentina al direttore de «La Tribuna», datata 7 aprile 1927, cit. in Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia cit., p. 168 (nota 48). torna su
91 P. Dogliani, Redipuglia, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 20103 (1a ed. 1996), pp. 421-435, la cit. è alle pp. 426-7. torna su
92 Circolare n. 13, datata 13 febbraio 1923, inviata dal sottosegretario D. Lupi ai R.R. Provveditorati agli Studi sulla questione viali o parchi delle Rimembranze, in Dogliani, Redipuglia cit., p. 380 (nota 8). torna su
93 Proprio a Firenze «tra le targhe inaugurate dai diversi rioni nel 1926 e 1927 in onore dei "Caduti per la Patria" quella del rione San Gallo, per esempio, comprendeva i nomi di 365 caduti della Grande Guerra, due volontarie della Croce Rossa e tre fascisti» (Suzzi Valli, Il culto dei martiri fascisti cit., p. 11). torna su
94 ACEFI, E.14.1, fasc. 4, telegramma del presidente dimissionario della Comunità israelitica di Firenze, G. Vita, diretto a S. E. Benito Mussolini, datato 16 dicembre 1928. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, p. 70. torna su
95 G. Vita, Nostalgie di bellezza (con 99 disegni e documenti), Firenze, Vallecchi, 1928, p. 17. torna su
96 Ivi, p. 124. torna su
97 Ivi, p. 97 (l’intero capitolo Si scopron le tombe, pp. 97-101, è dedicato ai monumenti ai caduti). torna su
98 Ivi, pp. 97-98. torna su
99 Ibid.torna su
100 Ivi, pp. 98-99. torna su
101 Monumento censito in Monumenti ai caduti. Firenze e provincia, a cura di L. Brunori, Firenze, Polistampa, 2012, p. 71. torna su
102 Da Firenze. Cose fiorentine, in «Israel», n. 11, 29 novembre 1928, p. 4 (lettera di G. Passigli a «Israel», datata 21 novembre 1928, e relativa risposta dei direttori del giornale D. Lattes e A. Pacifici). torna su
103 Un altro nome di caduto venne aggiunto ai ventisei già presenti nella lapide del 1920: si trattava di Gino Bemporad di Dante, nato a Sorano (Grosseto) nel 1892 e «disperso sull’altopiano di Bainsizza» nell’agosto 1917 (notizie rinvenibili al sito: http://www.cadutigrandeguerra.it/ShowImg.aspx?id=Pyta6Nqj1NXg98BApkOxMg4WgefXh9EQYZVUssTRS6Ump2xAjNmXILjdDvstGfHepzquMOSwX985nQi%2bu%2fP6Ng%3d%3d;
ultimo accesso: 30 gennaio 2016).torna su
104 G. Vita, La fonte perenne nel Tempio di Firenze in memoria dei Caduti per la Guerra e la Rivoluzione, in «La Nostra Bandiera», n. 3, 17 maggio 1934, p. 1. Oggi nella lapide il nome di Gino Bolaffi non compare, abraso nel dopoguerra (l’informazione proviene da una conversazione avvenuta il 17 maggio 2011 fra chi scrive e Lionella Neppi Modona Viterbo, che qui si ringrazia). Si può notare infatti nella lastra destra un posto vuoto in basso, che evidenzia un’asimmetria rispetto all’elenco dei quattrodici nomi della lastra di sinistra. torna su
105 ACEFI, E. 14.1, fasc. 2, lettera del rabbino E. Artom, datata 6 dicembre 1928. Elia Artom, allora rabbino maggiore a Firenze e libero docente di ebraico all’Università, era stato allievo di Samuel H. Margulies; si distingueva «particolarmente per la inflessibile forza del carattere e lo spirito del dovere» (Elia S. Artom, in «Rassegna Mensile di Israel», nn. 2-3, ott.-dic. 1928, p. 124). torna su
106 ACEFI, E. 14. 1, fasc. 3, lettera di U. Cassuto al Presidente, datata 15 dicembre 1928. torna su
107 ACEFI, E.14.1, fasc. 2, autorizzazione del prefetto della Provincia di Firenze alla manifestazione, datata 10 dicembre 1928. torna su
108 ACEFI, E. 14.1, fasc. 4, minute dei telegrammi inviati dal presidente G. Vita a S. M. il Re e a S. E. Benito Mussolini in data 16 dicembre 1928; ivi, telegramma del re alla Comunità di Firenze, datato 17 dicembre 1928 e lettera del prefetto (a nome del capo del governo, B. Mussolini) alla Comunità di Firenze, datata 18 dicembre 1928. torna su
109 Vita, La fonte perenne nel Tempio di Firenze in memoria dei Caduti per la Guerra e la Rivoluzione cit. torna su
110 M. Milani, La Zona di Giurisdizione del G.F.R. "Dante Rossi” (Stradario Storico-Biografico. S. Croce: Il Sacrario dei Caduti), Firenze, Industria Tipografica Fiorentina, 21 aprile 1940, p. 460. torna su
111 Gino Bolaffi era nato a Firenze il 31 marzo 1897 da Emma Castiglioni (1894-1868) e Gustavo (1865-1941), medico, a cui il «martirio» del figlio valse la discriminazione in occasione delle leggi razziali (Archivio Storico del Comune di Firenze, "Censimento della razza ebraica. 1938”, CF 10196, ad nomina). Per ulteriori notizie su Gino Bolaffi e la sua fine, cfr. G. A. Chiurco, Storia della Rivoluzione Fascista, vol. II, Anno 1920, Firenze, Vallecchi, 1929, pp. 158-59; Come Gino Bolaffi cadde per il trionfo della Causa Fascista, in «La Nostra Bandiera», n. 15, 9 agosto 1934, p. 4; Milani, La Zona di Giurisdizione del G.R.F. "Dante Rossi” cit., pp. 460-61; P.N.F.-Ufficio Stampa, Caduti per la Rivoluzione, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1942, p. 15. Cfr. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo cit., p. 73; M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003, p. 298. torna su
112 U. F. Banchelli, Le memorie di un fascista 1919-1923 (ed. ampliata e riveduta), Firenze, Edizioni della V.A.M., 1923, p. 29. Che Bolaffi non appartenesse a nessuna squadra di combattimento viene avvalorato anche dal fatto che il suo nome non compare in nessuno degli elenchi degli "uomini della vigilia”, di cui pure è prodiga la memorialistica locale: cfr. i numerosi elenchi degli squadristi e dei sostenitori del fascio fiorentino riportati in B. Frullini, Squadrismo fiorentino (prefazione di A. Pavolini), Firenze, Vallecchi, 1933. torna su
113 Testo del manifesto firmato dai «Fasci di Combattimento» e dai «Combattenti» comparso subito dopo l’assassinio di Bolaffi e Fiorini, riportato in M. Milani, Guida del rione e stradario storico di Settignano. Giurisdizione G.R.F. "Gino Bolaffi”, Firenze, Stabilimento Tipografico A.G. Pieri, 1938, pp. 82-83. torna su
114 R. OttanelliO. Valle, Stille di sangue (Fascismo Fiorentino), Firenze, Stabilimento Tip. I. Funghi & C, 1922, p. 48 (una delle prime pubblicazioni incentrate sul martirologio dei fascisti fiorentini). Su Bolaffi e le circostanze della sua morte cfr. ivi, pp. 9-13; Frullini, Squadrismo fiorentino cit., pp. 89-91; S. Versari, Una pagina di storia del fascismo fiorentino. Il fascio autonomo. In appendice la Squadra d’azione "Guido Fiorini”, Rocca S. Casciano (Firenze), Stabilimento Tipografico Licinio Cappelli, [s. d., ma 1938], p. 85; M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, 1919-1922, prefazione di R. De Felice; introduzione di M. Toscano, Roma, Bonacci, 1980, pp. 90-91; Milani, Guida del rione e stradario storico di Settignano cit., pp. 79-83 (vi si trova anche una fotografia del giovane Bolaffi con dedica del padre Gustavo al Gruppo Rionale Fascista di Settignano "G. Bolaffi”, p. 81). torna su
115 L’appartenenza ebraica non viene rammentata nei testi coevi fascisti né nella pubblicistica successiva; fanno ovviamente eccezione i ripetuti articoli su Bolaffi come «Primo Caduto della Rivoluzione» comparsi a più riprese su «La Nostra Bandiera» (qui di seguito citati). torna su
116 OttanelliValle, Stille di sangue (Fascismo Fiorentino) cit., p. 13. Per le tematiche relative al culto dei caduti, cfr. Gentile, Il culto del littorio cit., pp. 47-48. torna su
117 La solenne inaugurazione di un busto del martire fascista Gino Bolaffi, in «La Nostra Bandiera», n. 8, 21 giugno 1934, p. 4. torna su
118 M. Palla, Firenze nel regime fascista (1929-1934), Firenze, Olschki, 1978, p. 111. torna su
119 La solenne inaugurazione di un busto del martire fascista Gino Bolaffi cit., p. 4. Cfr. anche: A. Minerbi, La comunità ebraica di Firenze, in Razza e fascismo cit., pp. 115-222, in partic. p. 138. torna su
120 In memoria di Gino Bolaffi, in «La Nostra Bandiera», n. 24, 25 ottobre 1934, p. 1. Cfr. anche: [S. n.], L’Olocausto di Firenze. I Caduti della Rivoluzione Fascista, La Nazione editrice, Firenze, ottobre 1934. torna su
121 Per la minuziosa ricostruzione della cerimonia: A. Staderini, La "Marcia dei martiri”: la traslazione nella cripta di Santa Croce dei Caduti Fascisti, in «Annali di Storia di Firenze», vol. III, ottobre 2011, p. 202 (disponibile all’indirizzo: http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/9851; ultimo accesso: 18 gennaio 2017). Cfr. anche: Suzzi Valli, Il culto dei martiri fascisti cit., pp. 115-17. torna su
122 Gentile, Il culto del littorio cit., p. 48 (c.vo del testo). torna su
123 La stessa impaginazione del numero speciale del «Bargello» fu molto attenta, in funzione propagandistica, a connettere strettamente il sacrificio dei «martiri» con l’elogio delle imprese del regime. Sotto il titolo a tutta pagina, Il loro sacrificio insegnò la via del dovere verso la Patria e dell’amore per il popolo, comparvero tre articoli, a dimostrazione di cosa il regime intendesse realmente per «amore per il popolo»: N. Antinori, "Andare verso il popolo”. La politica assistenziale del Fascismo; Il contributo del Fascismo fiorentino all’assistenza per il popolo; A. P., Il regime per la razza. L’attività del Consorzio Provinciale Antitubercolare di Firenze, in «Il Bargello», Edizione speciale dedicata ai Caduti per la Rivoluzione Fascista, n. 43, 27 ottobre 1934, p. 25. Allo stesso modo, sotto il titolone Caddero per il Fascismo e dettero nuova vita alle energie della stirpe, troviamo articoli sullo sviluppo dell’artigianato e sull’O.N.M.I. (G.L.O., Il Fascismo ha rimesso in valore il nostro artigianato; Il Fascismo vigila sull’avvenire della razza. L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia nella Provincia di Firenze, ivi, p. 24). Tra gli squadristi che contribuirono al numero speciale del settimanale, si annoverano gli interventi di Giacomo Lumbroso, Raffaele Manganiello, Giovan Battista Marziali, Alessandro Pavolini, Guido Baroni, Dino Perrone-Compagni, Ottone Rosai, Onorio Onori, Mario Piazzesi. Per «Il Bargello», cfr. Palla, Firenze nel regime fascista (1929-1934) cit. pp. 184-204 e C. Bencini, ‘Il Bargello’ di Firenze e ‘Il Ferruccio’ di Pistoia, in Razza e fascismo cit., pp. 293-312. torna su
124 P. Chimichi, Il rito di Firenze, in «La Nostra Bandiera», n. 25, 1° novembre 1934, p. 1. torna su
125 Atto di nascita. Fuori dell’equivoco, in «La Nostra Bandiera. Settimanale degli italiani di religione ebraica», n. 1, 1 maggio 1934, p. 1. Cfr. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 98-100 e L. Ventura, Ebrei con il duce. La Nostra Bandiera, 1934-1938, Torino, Zamorani, 2002. Per un’accurata ricostruzione delle vicende della comunità ebraica fiorentina dagli anni Trenta fino all’occupazione tedesca, si veda Minerbi, La Comunità ebraica di Firenze, in Razza e fascismo cit., pp. 115-222. Cfr. anche Piattelli, ‘Israel’ e il sionismo in Toscana negli anni Trenta cit., pp. 35-79. torna su
126 Cfr. L’omaggio de ‘La Nostra Bandiera’ alla memoria di Gino Bolaffi, in «La Nostra Bandiera», n. 25, 1 novembre 1934, p. 1. I bandieristi tributarono al Duce anche tutta la loro gratitudine per avere «accolti e protetti» i correligionari stranieri perseguitati, come «segno di superiore, umana fraternità» (G. V. [G. Vita], Presente!, in «La Nostra Bandiera», ibid.).torna su
127 Cfr. Fenomeno di amnesia, in «La Nostra Bandiera» cit., p. 3. In effetti il giornale sionista «Israel» ignorò del tutto la cerimonia di inaugurazione della lapide fiorentina, ma fedele alla propria consegna di occuparsi prevalentemente di "vita ebraica”, pubblicò invece con un certo rilievo, poche settimane dopo, la notizia dell’inaugurazione in città di un convitto annesso al Collegio Rabbinico italiano, posto sotto «la concorde direzione didattica del rabbino Elia S. Artom e di Umberto Cassuto» (L’inaugurazione del Convitto annesso al Collegio rabbinico Italiano, in «Israel», n. 16, 3 gennaio 1928, p. 3). torna su
128 Cfr. Ringraziamenti, in «La Nostra Bandiera», n. 26, 8 novembre 1934, p. 3. torna su
129 G.V., Presente!, in «La Nostra Bandiera» cit., p. 1. torna su
130 Cfr. Ringraziamenti, in «La Nostra Bandiera» cit. (lettera di G. Passigli, P. Sacuto, B. Passigli, E. Nissim, C. Piperno, diretta al Commissario della Comunità, datata 17 ottobre 1934). torna su
131 Ibid.torna su
132 Ibid. (lettera di B. Errera, datata 30 ottobre 1934). torna su
133 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 86-87. torna su
134 Ivi, p. 76 (la legge in questione era il R. D. n. 1731 del 30 /10/1930); cfr. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., pp. 20-21. torna su
135 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 74. torna su
136 A. Cavaglion, Ebrei senza saperlo, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2002, pp. 107 e ss. torna su
137 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 90-98. torna su
138 Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 21. torna su
139 Minerbi, La Comunità ebraica di Firenze, in Razza e fascismo cit., p.116. torna su
140 Cfr. Parlare italiano, in «La Nostra Bandiera», n. 1, 1° gennaio 1937, p. 2. torna su
141 Cfr. Largo alla giovinezza. Cose milanesi… e di ogni luogo, in «La Nostra Bandiera», n. 7, 15 aprile 1936, p. 2. torna su
142 Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 129. torna su
143 Minerbi, La comunità ebraica di Firenze cit., pp. 143-47. torna su
144 Cfr. Ora decisiva, in «La Nostra Bandiera», n. 10, ottobre 1935, p. 3. torna su
145 Cfr. Gesti significativi di ebrei ex combattenti, in «La Nostra Bandiera», n. 12, dicembre 1935, p. 10. torna su
146 Cfr. l’editoriale senza titolo, in «La Nostra Bandiera», n. 9, 5 maggio 1936, p. 1. torna su
147 Cfr. Simpatica manifestazione, in «La Nostra Bandiera», n. 10, 31 maggio 1936, p. 6. torna su
148 Cfr. Cronache di vita ebraica italiana. Firenze per l’Impero, in «La Nostra Bandiera», n. 23, 16 dicembre 1936, p. 6. torna su
149 Cfr. Le manifestazioni patriottiche degli italiani ebrei per la fondazione dell’Impero. Elevate parole di Guglielmo Vita, in «La Nostra Bandiera», n. 2, 16 gennaio 1937, p. 1. torna su
150 N. Labanca, Morire per l’Impero. Su cifre e parole per i caduti italiani di una guerra coloniale fascista, in La morte per la patria cit., pp. 119-156, in partic. p. 155. torna su
151 Cfr. Distinzione, in «La Nostra Bandiera», n. 12, 30 giugno 1936, p. 6. torna su
152 Cfr. Le manifestazioni patriottiche degli italiani ebrei per la fondazione dell’Impero, in «La Nostra Bandiera» cit. torna su
153 Ibid. Cfr. per la cronaca e due foto della cerimonia: Firenze, in «Davar», a. VI, n. 1-2, genn.-febbr. 1937-XV − Shévat-Adàr 5697, pp. 69-70. Anche «Israel» dava notizia dell’inaugurazione, sia pure senza enfasi e in un esiguo trafiletto: Dalle città d’Italia. Da Firenze. Per la fondazione dell’Impero, in «Israel», nn. 15-16, 7-14 gennaio 1937, p. 7. torna su
154 A. Leogrande, Pavolini nonno e nipote, in «Minima & Moralia. Un blog di approfondimento culturale», 26 aprile 2010 (http://www.minimaetmoralia.it/wp/pavolini-nonno-e-nipote/ , ultimo accesso 31 gennaio 2017). torna su
155 Cfr. Le manifestazioni patriottiche degli italiani ebrei per la fondazione dell’Impero. Il discorso del Rabbino, in «La Nostra Bandiera», n. 2, 16 gennaio 1937, p. 1. torna su
156 Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 41. Cfr. anche M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Torino, Zamorani, 1994. torna su
157 Piattelli, ‘Israel’ e il sionismo in Toscana negli anni Trenta cit., p. 72 e p. 79 (nota 175); Minerbi, La comunità ebraica di Firenze cit., pp. 171-72. Cfr. per lo stesso episodio anche A. Luzzatto, Autocoscienza e identità ebraica, in Storia d’Italia. XI, Gli ebrei in Italia cit., pp. 1829-1900, in partic. p. 1845. torna su
158 Per l’arresto dei Passigli, cfr. infra, nota 48. torna su
159 D. Palterer, Un impegno da mantenere. Firenze: nuova lapide nel giardino del tempio, in «Firenze ebraica», n. 3, maggio-giugno 2003, p. 24 (corsivo del testo). torna su
160 Giobbe 16, 18, in Bibbia ebraica. Agiografi cit., p. 160. «La copertura e l’assorbimento del sangue sparso in terra venivano considerati come espiazione del delitto. Giobbe quindi paragona le sue disgrazie a sangue sparso senza copertura per cui se ne potesse tramandare il ricordo e fosse riconosciuta la sua innocenza», ivi, nota 7. torna su
161 La neonata era la piccola Eva Cassuto, figlia del rabbino capo di Firenze, Nathan e di Anna Di Gioacchino, entrambi deportati; per gli altri casi cfr. Picciotto, Il libro della memoria cit., ad nomina.torna su
162 Viterbo, A ricordo perenne dei deportati cit., p. 35. torna su
163 Tra questi, per esempio, il già ricordato bandierista Piero Chimichi e sua moglie Laura Prato. Secondo la testimonianza della figlia, i Chimichi «furono arrestati a Firenze il 27 gennaio 1944 da elementi tedeschi e fascisti» (ASFI, Corte d’Assise di Firenze 1954/12, fasc. "Circolo d’Assise di Firenze”. Vol. III, verbale della testimonianza di A.-S. Chimichi, resa a Roma il 30 maggio 1947, p. 69). Tra gli altri deportati fiorentini battezzati, non inseriti nella lapide del 1951, troviamo il caso già ricordato di Giuseppe Passigli (cfr. infra, nota 48), Elena Castelli Modigliani, suo figlio Vittorio Modigliani; tra i fucilati i due fratelli Papini, Franco e Alfredo (ACEFI, Dep. 13.2, fasc. 3 Elenchi di ebrei fiorentini. Elenco di ebrei catturati a Siena e a Firenze).torna su
164 2 Samuele 1, 19, in Bibbia ebraica. Profeti anteriori, a cura di R. D. Disegni, Firenze, Giuntina, 2003, p. 156. «L’invocazione può riferirsi a Israele e cioè significare: il fiore dei tuoi figli, lo splendore della nazione è scomparso», ivi (nota 4). torna su
165 Zaccaria 3, 2, in Bibbia ebraica. Profeti posteriori, a cura di R. D. Disegni, Firenze, Giuntina, 20113, p. 350. torna su
166 Cfr. Enzo Bonaventura (1891-1948). Una singolare vicenda culturale dalla psicologia sperimentale alla psicoanalisi e alla psicologia applicata, a cura di S. Gori-Savellini, Firenze, Giunti, 1990. torna su
167 Desidero ringraziare Shulamit Furstenberg Levi per le traduzioni dall’ebraico. torna su