9, 2015
 
Saggi    
 


Vincenzo Vitale

La dedica ad Ariete:
implicazioni anti-aragonesi nel Novellino di Masuccio



1. Nel prologo alla quarta parte del Novellino Masuccio annuncia un cambio di progetto in corso d'opera. In origine la quarta parte avrebbe dovuto trattare di «materie lacrimivole e appassionate» (Nov. iv, Prol.).1 Questo primo disegno prevedeva una più fedele imitazione del Decameron, la cui quarta giornata è incentrata proprio sul tema degli amori infelici. Al momento della scrittura (questo almeno è ciò che si intende far credere al lettore), Masuccio ha deciso di alternare in questa sezione i racconti tragici e neri con le novelle «facete e iocunde» (ibid.). In ciò egli ha inteso comportarsi come il medico che somministra ai suoi pazienti antidoti gradevoli e dolci per mitigare l'effetto delle medicine «acute e violente» (ibid.). A una novella tragica seguirà dunque una comica, in una sorta di sintesi, emblematica dell'operazione di dimezzamento che soggiace a tutta l'opera, della quarta e della quinta giornata del Decameron. Alla fine di questo prologo, Masuccio rivolge una concisa invocazione al suo segno zodiacale, l'Ariete, pregandolo di aiutarlo a non deflettere da questo principio di alternanza per tutta la quarta parte: Tuttavia, senza altro intervallo, con un'altra appresso tutta piacevole e bella a tale rencrescimento darò condigna recompensa; e da tale camino li mei passi non diviando, si Ariete, mio celeste signo, mi prestarà il suo favore, insino a la fine serà il mio continuare (ibid.). L'invocazione rivolta dall'autore al proprio segno zodiacale è di trasparente ascendenza dantesca. Accedendo al cielo delle stelle fisse Dante e Beatrice entrano proprio nella costellazione dei Gemelli, segno zodiacale di Dante stesso. Commosso da questa felice coincidenza, il poeta innalza un'elaboratissima invocazione alle sue stelle. Il viaggio e la scrittura stessa della Commedia sono posti così sotto l'influenza positiva dei Gemelli:
  O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s'ascondeva vosco
quelli ch'è padre d'ogne mortal vita,
quand'io senti' di prima l'aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
d'entrar ne l'alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
l'anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.
 
  (Par. xxii, vv. 112-123).2  
Come Dante nelle terzine del Paradiso, anche Masuccio ci ha consegnato attraverso l'invocazione al segno zodiacale un'indicazione approssimativa sulla sua data di nascita. Sulla base di questo luogo del Novellino si presume infatti che egli sia nato tra il 21 marzo e il 19 aprile. Accertata l'influenza della Commedia su questo passo del Novellino, vorrei indagare il senso dell'invocazione all'Ariete nel libro di Masuccio. Essa non è legata solo alla volontà di inserirsi nel solco illustre della Commedia, ma istituisce nel testo una serie di corrispondenze decisive per la comprensione non solo della quarta parte, ma del senso complessivo di tutta l'opera. Occorre partire da una considerazione generale sulla struttura del libro. Come il Decameron, il Novellino di Masuccio è organizzato in gruppi di dieci novelle legate da un criterio tematico. Lo scarto più forte rispetto al paradigma boccaccesco riguarda l'abolizione della cornice narrativa. Le cinquanta novelle non sono narrate da personaggi fittizi ma da Masuccio stesso, il quale introduce ogni racconto con una lettera dedicatoria indirizzata a un destinatario illustre. Tra questi vi sono i più alti esponenti della casa reale aragonese: il re Ferrante, l'erede al trono Alfonso duca di Calabria, i principi Federico, Giovanni e Francesco, le principesse Eleonora e Beatrice, gli umanisti e uomini politici Panormita e Pontano. A Ippolita Sforza, moglie di Alfonso duca di Calabria, già dedicataria di tutto il libro, è offerta anche la quarta novella della quinta parte. Ogni novella è conclusa da un commento morale dell'autore intitolato Masuccio. Non mi pare si sia prestata sufficiente attenzione finora al funzionamento della cornice di dediche inventata da Masuccio, benché Giancarlo Mazzacurati non abbia mancato di sottolinearne l'originalità: «La soluzione concepita da Masuccio per il suo ordinamento è fortemente innovativa, se non emergeranno tracciati intermedi a documentare dimenticati influssi».3 Mancanza di attenzione tanto più sorprendente se si considera che questa struttura di cornice fu ripresa con qualche variazione − l'abolizione dei commenti morali − dal più grande scrittore di novelle del Cinquecento, Bandello. Uno dei pochi accertamenti in materia è stato condotto da Helmut Meter in un saggio incentrato sulle lettere dedicatorie di Bandello.4 Tuttavia in questo saggio le dediche di Masuccio sono trattate come un precedente minore, atto a esaltare, quasi per contrasto, la presunta originalità di Bandello. Secondo lo studioso le dediche del Novellino sono troppo brevi per sviluppare un discorso compiuto; in esse l'autore si limiterebbe a indicare il nome del destinatario e, eventualmente, quello del primo relatore della novella. Ma, scrive Meter, «indirizzarsi semplicemente a un destinatario e nominare il narratore o relatore della singola novella è prova di scarsa originalità».5 Bandello si sarebbe servito invece della dedica come di uno strumento molto raffinato, in grado di influenzare la ricezione stessa della novella. Le dediche di Masuccio sarebbero tradizionalmente encomiastiche; quelle di Bandello contribuirebbero viceversa alla comprensione e al commento del racconto.6 Meter riconosce giustamente come in Bandello «le frontiere tra lettera e novella si confondano».7 Egli vede bene quando rileva che la lettera di dedica in Bandello esorbita dalla funzione di semplice «atto di riverenza» e «avvio convenzionale», assumendo il peso ermeneutico di «un testo di importanza basilare».8 Sennonché, a ben guardare, questi rilievi si possono avanzare giustamente anche per il Novellino: è Masuccio l'inventore della dedica che dialoga a più livelli con la novella, istituto letterario inedito ripreso e portato alle estreme conseguenze da Bandello. Per dimostrare compiutamente questo assunto, occorrerebbe studiare tutti gli esordi del Novellino. Mi riservo tuttavia di esaurire questa dimostrazione in altra sede specifica, limitandomi a indicare qui uno specimen esemplare nella dedica di Nov. iv, 7. La novella è inviata a un personaggio misterioso di nome Ariete. Chi era costui? Difficile rispondere. Fatto strano visto che gli altri dedicatari del Novellino sono personaggi storici contemporanei di Masuccio. L'editore e promotore ottocentesco del Novellino, Luigi Settembrini, ha rilevato come i «nomi delle persone [dei dedicatari] nelle edizioni antiche [del Novellino] sono tutti ricordati nelle nostre storie, e conosciuti».9 Si tratta di un giudizio che individua una regola generale del Novellino, non tenendo conto però dell'eccezione di Ariete. Così quando in sede di commento deve spiegare chi sia l'Ariete di Nov. iv, 7 Settembrini si vede costretto a esprimere qualche perplessità, ipotizzando si tratti di un «soprannome dato a qualche giovane da Masuccio».10 Perplessità giustificata, visto che un uso di Ariete come nome proprio di persona non sembra attestato.11 Il ricorso a un soprannome per il destinatario di una novella è un vero e proprio unicum nel Novellino, dove i dedicatari, anche quelli meno illustri, appaiono solitamente con i dati di identità al completo: nome, cognome e titolo. Faccio qualche esempio, citando il primo caso in ordine di apparizione per ogni tipologia. L'intestazione della dedica di Nov. i, 1 recita: «A lo eccelso re don Ferrando d'Aragona».12 A volte il titolo del dedicatario non è indicato: «Al spettabile Ioan Francesco Caracciolo» (Nov. ii, 10).13 Altrove il destinatario è individuato viceversa dal nudo titolo: «A lo eccellente conte de Altavilla» (Nov. iii, 4).14 In un unico caso l'intestatario è indicato dal solo nome proprio: «Al magnifico messere Dragonetto» (Nov. i, 9).15 Tuttavia questo Dragonetto è figura storicamente ben identificabile: si tratta di Dragonetto Bonifacio, nobile del seggio di Portanova beneficato con la donazione di feudi da Alfonso il Magnanimo.16 La dedica ad Ariete configura un'eccezione sotto due rispetti: l'uso di un soprannome e l'impossibilità di identificare storicamente il destinatario. Questi due indizi inducono a collegare l'Ariete della dedica con il segno zodiacale invocato da Masuccio alla fine del prologo della quarta parte, tanto più che la novella dedicata al misterioso Ariete è compresa proprio nella quarta decade.17 L'ipotesi è confortata da una spia testuale minima ma non trascurabile. In entrambi i casi al nome Ariete è accostato direttamente l'aggettivo mio: «Ariete, mio celeste signo» (Nov. iv, Prol.)18 recita il prologo, «Al formosissimo mio Ariete» (Nov. iv, Es. 7)19 la dedica. All'interno della lettera dedicatoria l'aggettivo si trova addirittura posposto come nel prologo della quarta parte: «Ariete mio formosissimo». Il ricorso al possessivo mio nell'intestazione è in effetti eccezione che distingue la dedica ad Ariete da tutti gli altri esordi del Novellino, con un'infrazione che lascia trasparire i segni di una familiarità eccezionale.20 Tutto ciò conforta e rende plausibile l'ipotesi di un collegamento tra Ariete dedicatario e Ariete segno zodiacale. Essa pare confermata anche dalla terza parola significativa dell'intestazione: «formosissimo». Il termine significa in primo luogo 'bello, avvenente'; tuttavia esso potrebbe essere inteso anche nel senso di 'dotato di forma al più alto grado'. Considerata l'ascendenza dantesca della dedica ad Ariete, non pare superfluo ricordare che forma è termine tecnico della dottrina filosofico-astrologica di Dante. La parola è implicata nella conclusione del canto vii del Paradiso, dove Dante distingue per bocca di Beatrice le cose create direttamente da Dio da quelle create da Dio indirettamente. La forma delle creature corruttibili è frutto secondo la dottrina seguita da Dante di una combinazione dei quattro elementi non operata direttamente da Dio ma dalla «virtù informante» (Par. vii, v. 137) delle stelle. Nella prospettiva della dottrina astrologica della Commedia l'aggettivo formosissimo è quindi quasi tecnico con riferimento alle costellazioni: in Dante le stelle sono infatti largitrici di forma. D'altra parte, anche il significato più piano e naturale di formosissimo − quello di 'bello, avvenente' − può vantare i crismi di un'autorizzazione dantesca. L'aggettivo bello riferito alle stelle è una sorta di costante lessicale nella Commedia. Le stelle sono le «cose belle» a Inf. i, v. 40 («mosse di prima quelle cose belle») e Inf. xxxiv, vv. 137-138 («tanto ch'i' vidi de le cose belle / che porta 'l ciel, per un pertugio tondo»). Alle stelle è associato l'aggettivo bello in molti altri luoghi della Commedia.21 Uno di questi è decisivo per il nostro discorso. Si tratta di Par. xxvii, vv. 97-99, dove è descritto il passaggio di Dante e Beatrice dal cielo delle stelle fisse al primo mobile. In questi versi il poeta nomina ancora una volta la costellazione dei Gemelli (in questo caso con la perifrasi «nido di Leda») e la dice bella: «E la virtù che lo sguardo m'indulse / del bel nido di Leda mi divelse / e nel ciel velocissimo m'impulse». Formosissimo è dunque, Commedia alla mano, l'attributo più appropriato che un personaggio-autore-narratore come Masuccio possa riferire alla propria stella. Se l'esordio di Nov. iv, 7 è veramente una dedica al segno zodiacale, l'inedita operazione è attuata con dissimulazione sofisticata. Ariete è presentato infatti nella dedica come un giovane bellissimo, attualmente lontano e legato a Masuccio da un'amicizia fuori dal comune: Dagli legame de la vera amicicia costretto, Ariete mio formosissimo, me ho voluto de quella, como ad immacolata, in questa nostra assenzia recordare, e a te, unico amico, la presente novella mandare; de la quale come che 'l fine sia acerbo e sanguinoso, puro ne la tua giovenile età, ne la quale sei, cognoscerai quanto e quale sono con poco ordene e senza mesura le forze d'Amore, a ciò che, negli anni più maturi venendo, te sappi, se potrai, da tali travagliati lazzi con prodencia guardarete. Vale (Nov. iv, Es. 7).22 La delineazione del profilo di questo personaggio (la giovane età, la lontananza, la bellezza e l'amicizia) è il risultato di suggestioni in parte letterarie in parte storico-politiche che varrà una volta la pena di approfondire.
2. I dati attribuiti ad Ariete corrispondono al profilo biografico di Boffillo del Giudice, nobile napoletano dedicatario dell'ultima novella, e indicato proprio nella dedica di Nov. v, 10 come colui che aveva incoraggiato Masuccio a intraprendere la scrittura del Novellino: «Reducome a memoria, generoso e magnanimo Buffilo, che tu non sulo fusti principio de 'l mio adormito ingegno svegliare, ma potissima accagione de farmi quasi, scrivendo, immortale tra' mortali cognoscere e connumerare» (Nov. v, Es. 10).23 Sempre nella dedica dell'ultima novella Masuccio fa riferimento alla «longa assenzia» (ibid.) di Boffillo, con ripresa quasi letterale del rinvio alla lontananza di Ariete («in questa nostra assenzia»). La «longa assenzia» è quella legata all'esilio di Boffillo del Giudice, che era riparato in Francia dopo essersi alleato con Giovanni d'Angiò contro Ferrante in occasione della crisi dinastica seguita alla morte di Alfonso il Magnanimo nel 1458. La prossimità del dedicatario di Nov. iv, 7 con Boffillo appare ancora più forte se si considera che anche il protagonista dell'ultima novella del Novellino si chiama Ariete. Tanto più che la storia di questo Ariete pare ricalcare molto da vicino proprio i travagliati casi della vita di Boffillo (il protagonista di Nov. v, 10 espatria in Francia dopo aver causato in una «notturna zuffa»24 la morte di un favorito del re di Spagna). Con la biografia di Boffillo collima anche il dato della «giovenile età». Non si conosce con esattezza la data di nascita di Boffillo; ma egli nacque probabilmente intorno al 1435, dal momento che è attestato come paggio di Alfonso d'Aragona dal 144325 (se nel Quattrocento come nel Medioevo il ragazzo nobile iniziava il suo servizio come paggio verso i sette anni).26 Della novella dedicata ad Ariete non si conosce una versione spicciolata risalente agli anni Cinquanta del Quattrocento;27 tuttavia il forte legame con Nov. v, 4, la cui redazione definitiva è collocabile negli anni immediatamente successivi al 1467,28 induce a supporre che la sua composizione sia da collocare intorno al 1470. A questa altezza cronologica Boffillo aveva molto probabilmente un'età vicina ai trentacinque anni. Ora, è lecito predicare la giovinezza di un uomo che è nel mezzo del cammin di nostra vita? La risposta deve essere affermativa, almeno se si tiene conto della suddivisione della vita umana esposta nel Convivio. Nell'opera di Dante i termini della «Gioventute» (Conv. iv, 13 e xxiv, 1)29 sono fissati nel venticinquesimo e nel quarantacinquesimo anno. Secondo questa partizione Boffillo sarebbe quindi al culmine della giovinezza al tempo della dedica di Nov. iv, 7. Che il Convivio fosse ben presente a Masuccio si ricava anche dall'età dell'autore implicita nella dedica ad Ariete. Se non sono completamente sbagliate le congetture sulla data di composizione di Nov. iv, 7, Masuccio doveva avere circa sessant'anni al momento della dedica di questa novella (la sua data di nascita è collocata congetturalmente intorno al 1410).30 In base al diagramma dantesco egli sarebbe dunque nell'età della «Senettude» (Conv. iv, 13 e xxiv, 1),31 comprendente il lasso della vita dal quarantaseiesimo al settantesimo anno. L'assegnazione a questa età appare coerente del resto con il contegno da vecchio saggio tenuto da Masuccio nella dedica ad Ariete. L'influenza del Convivio sulla suddivisione in «Gioventute» e «Senettude» adottata da Masuccio nel Novellino mi pare confermata dall'uso di un'accusata terminologia dantesca nel luogo in cui l'autore fa fuggevolmente riferimento alla sua età: Non bastando a tanto lavore la mia stracca e non sacia penna de, scrivendo, racontare le più mostruose che umane operazione del pravo e vilissimo femineo sesso, de lassare intendo quello che intrinsicamente ho dagli teneri anni conosciuto e con la presente senettù cognosco de' fatti loro (Nov. iii, Es. 2).32 Masuccio appartiene alla senettute non solo con riferimento a Nov. iv, 7 e a Nov. iii, 2, ma in quanto autore di tutto il Novellino. Esso fu veramente l'opera di uno scrittore non più giovanissimo: secondo la ricostruzione di Giorgio Petrocchi la composizione del libro iniziò intorno al 1460,33 quando Masuccio era entrato nella «senettù» ormai da circa cinque anni. L'identikit di Ariete dedicatario di Nov. iv, 7 corrisponde quindi a quello di Boffillo del Giudice per la giovinezza, la lontananza e l'amicizia eccezionale (solo un sodalizio fuori dal comune potrebbe spiegare infatti il coraggio mostrato da Masuccio nell'intitolare l'ultima novella a un avversario degli Aragonesi). Non mi risultano testimonianze sull'avvenenza di Boffillo che possano fornire riscontro anche per questo verso all'identità del «formosissimo» Ariete. La bellezza tuttavia non è dato che si possa impugnare solamente perché non se trova menzione nelle fonti. È allora Boffillo colui che si nasconde dietro il misterioso soprannome di Ariete? L'ipotesi di Nov. iv, Es. 7 come dedica al segno zodiacale dell'autore va quindi abbandonata? No, non mi sembra. Non è chiaro infatti il motivo per cui Masuccio avrebbe dovuto usare il soprannome Ariete per Boffillo. Certo, l'occultamento del nome di un nemico degli Aragonesi in un libro dedicato a Ippolita Sforza d'Aragona può essere spiegato facilmente adducendo necessità di cautela politica. Tuttavia, se l'intenzione era quella di celare il nome di un avversario degli Aragonesi, perché accordare a Boffillo ancora maggior peso ed evidenza con la dedica dell'ultima novella del libro? Perché porre sotto il segno della sua amicizia addirittura l'origine stessa della scrittura del Novellino? Più coerente è supporre che Masuccio abbia assegnato alla personificazione del suo segno zodiacale alcuni tratti biografici di Boffillo. Quella di associare al proprio segno zodiacale (e quindi alla propria "stella") un personaggio politicamente così pregiudicato è operazione tutt'altro che neutra. Riconoscere le ragioni di questo accostamento richiederebbe un'indagine specifica sul gioco di rispecchiamenti tra l'ultima novella del Novellino e la dedica a Boffillo. Si tratta tuttavia di una traccia che ci condurrebbe troppo lontano, e che per questo mi riprometto di seguire in un'altra sede. Per ciò che importa soprattutto qui − la vera identità di Ariete dedicatario di Nov. iv, 7 − basterà ritenere due elementi che ho messo in evidenza: l'ulteriore connotazione dantesca di questo personaggio misterioso, stabilita dalla ripresa della dottrina delle età dell'uomo esposta nel Convivio; e l'indizio di un orientamento anti-aragonese di Masuccio, legato all'accostamento di Boffillo al segno zodiacale dell'autore, l'Ariete appunto. Stabiliti entità e modi della compromissione di Ariete con la figura di Boffillo del Giudice, mi interessa ora mettere in evidenza come la dedica di Nov. iv, 7 contenga i segni di una dimestichezza fuori dal comune tra Ariete e l'autore. Il primo indizio è nella parola che suggella la dedica: «guardarete». Il termine significa 'difenderti, assicurarti' (in questo caso dal pericolo di Amore). Sennonché «guardarete» rinvia anche al cognome di Masuccio, il cui nome completo è Tommaso Guardato.34 L'uso di guardare con rinvio allusivo al cognome dell'autore è costante in tutto il Novellino: si tratta di una sorta di parola-emblema capace di racchiudere l'intero orizzonte ideologico del libro. Nella costellazione del triangolo amoroso al centro di molte novelle del Novellino, a guardare è chiamato il marito contro le insidie di un amante; guardare è l'azione di difendere il proprio onore, vanificando le tentazioni di adulterio cui è continuamente esposta la donna. La funzione programmatica affidata a questo verbo implica una sorta di interpretatio nominis di Tommaso Guardato. Masuccio è il "guardato" per eccellenza, colui che difende il proprio onore resistendo alle lusinghe e alle insidie delle donne. Il gioco di parole guardare/Guardato fu probabilmente piuttosto diffuso nell'entourage intellettuale della corte aragonese e tra gli amici letterati di Masuccio. Ne è prova, tra l'altro, l'incipit del sonetto inviato a Masuccio da Francesco Galeota in risposta alla dedica di Nov. v, 1: «Guardato sono assai, Masucio mio».35 Oltre al rinvio cifrato al nome dell'autore, c'è un altro aspetto che induce ad avvertire la presenza di Masuccio stesso dietro la figura del dedicatario di Nov. iv, 7: l'aura di eccezionalità che circonfonde l'amicizia con Ariete. Il personaggio dell'autore si dichiara stretto al destinatario della novella dai «legami della vera amicizia»; il legame che li stringe è detto «immacolato». Ma, soprattutto, Ariete è definito «unico amico». L'aggettivo sembrerebbe non ammettere qui il significato di solo, perché l'indicazione di Ariete come unico amico cozzerebbe con le attestazioni di amicizia iscritte in altre dediche del Novellino. Dopo la relazione di autorità, l'amicizia è in effetti il legame che presta fondamento sociale al maggior numero di dediche nel Novellino. Le dichiarazioni di amicizia con i destinatari delle novelle sono particolarmente frequenti nella prima parte del libro. In Nov. i, Es. 3 Masuccio si annovera umilmente tra i «minimi amici» di Pontano.36 I vincoli di una relazione più intrinseca sono esibiti invece nella dedica ad Angelo Caracciolo, dove, come nella dedica ad Ariete, l'autenticità del rapporto è sottolineata dall'aggettivo vero: [...] dal cominciamento de la nostra amicicia insino a qui me trovo in tante e sì diverse manere de cose a te obligato, che non sulo al remunerar de quelle in alcun modo comparer porrìa, ma al pensare de como insufficientissimo me cognosco. E perché a li magnanimi, qual tu sei, le poche cose, recevendole da coloro con li quali in vera amistà sono congiunti, sogliono più che le suntuose agradire, me son disposto alcuna particella del mio a te devuto debito con la sequente novella satisfare (Nov. i, Es. 5).37 Nell'esordio di Nov. i, 7 Masuccio dichiara di nutrire «grande amore» per Marino Caracciolo.38 Nel segno di una giovane ma già non ordinaria amicizia è posta la dedica a Francesco Scales: Iudico, suavissimo mio Scales, che al cominciamento de nostra amicicia a me si appartenga dare al scrivere principio, sì como tra gli amici assenti è costumato farsi. Volendo dunque, per non parere al tutto ingrato degli recevuti onori e colti frutti de tua iocundissima amistà, non sulo al presente visitarte de familiare scritture che communemente usar si sogliono, ma como singulare amico, m'è parso de una bella piacevolezza e digna de aviso farte copia (Nov. i, Es. 8).39 Questi gli esempi dalla prima parte; altri se ne potrebbero citare dalle decadi successive (Nov. ii, 9; iv, 2, 4, 8; v, 1, 3, 10). Nella dedica a Francesco Scales compare lo stesso aggettivo − «singulare» − che nel prologo del libro qualifica la seconda tipologia di destinatari della prima parte accanto a quella dei signori, i dedicatari amici: «Anzi, per non tacere il vero, ho voluto ad alcuno gran principe e ad altri mei singulari amici dare noticia de certi moderni e d'altri non multo antiqui travenuti casi» (Nov. i, Prol.).40 Singulare figura in Nov. i, 10, Nov. ii, 1, Nov. ii, 4, Nov. iii, 1, Nov. iii, 8 come spia lessicale di un rapporto di amicizia privilegiato.41 Nelle parti del libro in cui Masuccio scrive in prima persona, oltre che nei casi già indicati (il prologo con rinvio ai dedicatari della prima decade e la dedica a Francesco Scales), l'aggettivo figura in forma superlativa a qualificare un'amicizia speciale in Nov. ii, Es. 9. In questo esordio indirizzato a Bernardo de Rogieri compare, prima con riferimento a tutti i dedicatari amici del Novellino, poi al solo Bernardo, anche l'aggettivo perfetto: Volendome nel mio novellare degli perfetti amici recordare, e ne la mia operetta i lor nomi con perpetua memoria scolpire, sono da tale debito costritto, prima che più ultre vada, de tanto perfetto e singularissimo amico rammentandome, la presente novelletta de faceta materia composta a te intitulare (Nov. ii, Es. 9).42 All'infuori della dedica ad Ariete, l'aggettivo unico è associato ad amico solo in un altro luogo del Novellino: «Il giovane […] prepuose tale felicità col pinsiero insiemi non doverse occultare ad un suo unico e perfettissimo amico e compagno» (Nov. iii, 6).43 Il brano pare attestare un uso di unico preposto al sostantivo nel significato non di solo ma di eccezionale. Col senso di solo, infatti, unico non potrebbe essere retto logicamente da «un», a meno di interpretare «un» non come articolo indeterminativo ma come una sorta di pronome indefinito. L'uso di unico nel senso di eccezionale pare essere autorizzato da un brano del Filostrato di Boccaccio, un passo del dialogo tra gli amici Troilo e Pandaro all'inizio della terza parte che pare aver lasciato qualche traccia nel Novellino: «E sai quant'io mi tenni a discovrirlo / a te che sol mi sei unico amico» (Fil. iii, 14, vv. 1-2).44 In questo caso la presenza dell'avverbio «sol» sembra escludere che il significato di solo sia già contenuto in «unico»; quest'ultimo aggettivo avrà dunque il senso di 'straordinario, eccezionale'. Il caso della dedica ad Ariete è però differente sia da quello di Nov. iii, 6 sia dal Filostrato. In Nov. iv, Es. 7 «unico» non è preceduto infatti né dall'articolo indeterminativo né dall'avverbio solo, sicché non mi sembra lecito escludere in questo caso il significato "forte" dell'aggettivo. Per sanare l'apparente contraddizione aperta dal sintagma «unico amico» bisognerà quindi intendere diversamente l'amicizia in questione. Qualificato con un aggettivo che Masuccio non utilizza per nessun altro destinatario, Ariete è messo in una posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri «singulari» e «perfetti» amici. Come intendere il carattere straordinario di questa amicizia nel quadro di un'interpretazione di Nov. iv, Es. 7 come dedica al segno zodiacale? Una soluzione potrebbe essere l'ipotesi che l'amicizia in questione non sia quella comune, bensì quel legame particolare che è l'amore per sé stessi. Nel nono libro dell'Etica nicomachea (1168 b) Aristotele distingue l'egoismo dall'amore virtuoso per la propria persona: Dicono, infatti, che bisogna amare più di tutto chi è più di tutti amico, ed è amico più di tutti chi, quando vuole il bene di qualcuno, lo vuole proprio per lui, anche se nessuno lo verrà a sapere: ma questi sentimenti si incontrano soprattutto nel rapporto dell'uomo con se stesso, e, quindi, anche tutte le altre caratteristiche in base alle quali si definisce l'amico. S'è già detto, infatti, che tutti i sentimenti d'amicizia hanno origine dall'uomo e poi si estendono agli altri. Ma anche i proverbi sono tutti della stessa opinione: per esempio, «un'anima sola», «le cose degli amici sono comuni», «amicizia è uguaglianza», «il ginocchio è più vicino della gamba». Tutto questo, infatti, si applica soprattutto al rapporto con se stessi, giacché si è amici soprattutto di se stessi: per conseguenza, si deve anche amare soprattutto se stessi.45 Tutti i caratteri dell'amicizia derivano dal rapporto d'amore con sé. Ciò che si attribuisce a un rapporto di amicizia autentico si può predicare al massimo grado del rapporto con sé stessi. Senza amore per la parte migliore di sé non si può dare amore verso gli altri. Quindi, conclude Aristotele, ogni uomo è soprattutto e prima di tutto amico di sé stesso; egli ama e deve amare sé stesso al di sopra di tutto. In questa ottica l'amore per sé può dirsi legittimamente «vera amicizia» e l'oggetto di questo sentimento, la parte più nobile della propria persona, «unico amico». Che Masuccio sia influenzato dalla dottrina aristotelica dell'amicizia è testimoniato anche da un altro indizio. All'inizio della terza dedica, la prima indirizzata non a un signore ma a un amico, l'umanista Giovanni Pontano, Masuccio associa esplicitamente la vera amicizia all'amore per sé: «Se de' veri amici como de se medesmo, magnifico mio Pontano, lo onore e commodità se recerca, io, ancora che del numero de' tuoi minimi amici sia, a quello cercare e volere e per ogne debito disiderare son costretto» (Nov. i, Es. 3). Se questa ipotesi non è troppo lontana dal vero, Masuccio ha inteso dare vita con l'Ariete di Nov. iv, Es. 7 a una sorta di alter ego fittizio, tanto che questo esordio del Novellino potrebbe essere considerato come un precocissimo esempio di auto-dedica. Ariete è la personificazione della "stella" di Masuccio: della sua vocazione politica e letteraria più autentica, che egli virtuosamente ama. Ciò pare confermato da altri minimi indizi già indicati, che pongono il rapporto con Ariete nella luce di una prossimità fuori dal comune: l'uso di mio nell'intestazione e il rinvio cifrato al cognome di Masuccio nella parola che suggella la dedica («guardarete»). Affinché la dimestichezza di Masuccio con Aristotele non appaia improbabile, giova ricordare che nella "medievale" Salerno, ancora in epoca di dilagante umanesimo, nel xv secolo inoltrato, l'orientamento culturale della scuola medica era di pretta matrice aristotelica.46 Come ricorda Kristeller, nei diplomi di laurea rilasciati dal Collegium doctorum di Salerno tra la fine del XV e l'inizio del XIX secolo accanto ai testi di Galeno, Avicenna e Ippocrate sono elencati come materia di esame anche la Fisica e gli Analitici Posteriori di Aristotele.47 La presenza della cultura aristotelica nell'ambiente della scuola medica salernitana aveva del resto radici ancora più gloriose e antiche: proprio nella Salerno del xii secolo il mondo occidentale entrò per la prima volta in contatto con le nuove traduzioni di Aristotele.48 Non si può tuttavia escludere che la predilezione per Aristotele sia anche un retaggio del "medievale" Dante; e in particolare, di nuovo, del Convivio, dove lo Stagirita è menzionato in apertura (e poi in tanti altri luoghi del libro) come il filosofo per antonomasia: «Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere» (Conv. i, 1).49 Un'antonomasia analoga si trova nel prologo del Novellino, dove Masuccio assicura a Ippolita Sforza che l'umile e rozzo Novellino esalterà ancora di più il pregio delle opere umanistiche ospitate nella sua biblioteca. La tesi è rafforzata con la citazione del giudizio di un filosofo per eccellenza, probabilmente Aristotele, secondo il quale le cose umili avvicinate a quelle nobili fanno rilucere ancora di più queste ultime: «Quale a la loro decorazione ne adiungerà una altra maiore, perché, como vole il filosofo, le cose opposite insieme coniunte, con maiore luce se distingue la loro disuguaglianza» (Nov. Prol.).50 Tuttavia, anche prescindendo dall'identità dell'auctoritas alla quale intese alludere Masuccio, mi pare possibile affermare la ripresa nel prologo del Novellino dell'antonomasia che apre il Convivio di Dante.51
3. Dopo aver mostrato il sottile recupero del modello dantesco che soggiace a Nov. iv, Es. 7, vorrei mettere in evidenza come la dedica ad Ariete svolga la funzione di un preciso commento morale alle novelle contigue. Non può essere casuale che la dedica ad Ariete «unico amico» sia inserita proprio tra due novelle che trattano parallelamente il tema dell'amicizia. Nov. iv, 6 e Nov. iv, 7 affrontano in particolare il problema della gerarchia tra i valori dell'amicizia e dell'onore. Nel giudizio immanente nel Novellino l'ago pende decisamente dalla parte dell'onore. Masuccio ritiene che l'onore debba essere tutelato al di sopra di tutto, anche al di sopra dell'amicizia più perfetta e virtuosa. La posizione dell'autore, esplicita nei commenti morali alle due novelle (in particolare in Nov. iv, Mas. 6, che precede immediatamente la dedica ad Ariete), è implicita anche nella connotazione sociale dei protagonisti: popolani rustici e incolti quelli di Nov. iv, 6, abili e virtuosi cavalieri quelli di Nov. iv, 7.52 Ma occupiamoci ora delle storie di questo dittico, cominciando dalla sesta novella della quarta parte. I protagonisti sono due amici di estrazione sociale molto umile: uno è mugnaio, l'altro è calzolaio. L'amicizia di Agostino e Petruccio (questi i nomi dei due compagni) e quella delle loro mogli è presentata come un legame saldo e di antica data: [...] tra' quali da loro fanciullezza era contratta tanta amicicia e compagnia, quanta per veri amici usata fusse mai; e avendo ognuno de loro muglie assai giovane e bella, tra esse semelemente era una domestichezza e familiarità sì grande e continua, che rado o non mai seperate se vedeano (Nov. iv, 6).53 Per un intreccio fortunoso che Masuccio definisce nella rubrica «strano e travagliato», gli amici giacciono l'uno con la moglie dell'altro. Scoperto l'accaduto, Agostino e Petruccio decidono però di dare séguito alla loro amicizia e, addirittura, di istituzionalizzare l'inedito menage mettendo in comune le mogli: [...] a lui parea che se la fortuna era stata favorevole a l'astucie e malignità de loro muglie, che essi a loro medesimi non volessero essere inimici e guastarne o in alcuno atto diminuire la loro de tanti anni continuata amicicia; e che quello ch'era stato con inganno, per lo inante fusse, per emenda del passato rencriscevole errore, con comone consintimento e piacere de tutti quattro [...] per l'avvenire tra loro le muglie insiemi abbottinassero (ibid.).54 Lo sdegno dell'autore per la condotta dei due amici è già iscritto nel corpo della novella. Raccontando della scelta di Petruccio, deciso a far prevalere le ragioni dell'amicizia, il narratore lamenta l'esecrabile commercio dell'onore perpetrato nel tempo presente: Petruccio [...] diliberò essergli multo più caro lo conservarese l'amico, che per suo mancamento perdere il dovea, che non lo onore del mundo, quale, come ogge chiaro se vede, como cosa poco appregiata non sulo se vende, ma se ne fa baratto como de vilissima mercia (ibid.).55 L'indignazione del narratore affiora anche nel resoconto finale, dove la storia è presentata come l'esito di una perversa interpretazione della massima amicorum communia omnia: «E cossì da qui avante né de muglie né d'altra qualsivoglia natura de robba niuna divisione tra loro fu cognosciuta mai; e in tale manera andava la cosa trasattata, che suli gli figlioli per proprie loro matre cognosceano» (ibid.). Ma è nel commento morale che l'autore dà sfogo apertamente alla sua riprovazione: in Nov. iv, Mas. 6 si trova persino una sorta di pessimistica filosofia della storia esemplificata attraverso la parabola discendente dell'onore. Il caso di Agostino e Petruccio, scrive Masuccio, susciterà una reazione di sprezzante ironia presso qualche lettore contemporaneo; ma se uno sconvolgimento delle stelle non intervenisse a mutare l'indirizzo del tempo presente, presto non ci sarà più nessuno capace di indignarsi per un comportamento tanto disonorevole: Seranno alcuni che pigliaranno in deriso la narrata operazione degli dui cari compagne, che volsero la loro amicicia a lo onore comone anteponere; ma io dubito che a cui verrà appresso, se gli cieli non fanno altra mutazione, che questo onore, che ogge sulo per gli vertuosi è estimato e celebrato, venerà a termene, che serà con comone dispregio non sulo non corato, ma dagli estremi termeni de la terra con perpetuo esilio discacciato (Nov. iv, Mas. 6).56 Nobili e virtuosi come i pochi lettori abbastanza probi da condannare il comportamento di Agostino e Petruccio sono invece i protagonisti di Nov. iv, 7, la novella dedicata ad Ariete. Si tratta di due prodi cavalieri, Marchetto da Faenza e Lanzilao da Virzella, legati da un sentimento di amicizia virtuoso, fraterno e perfetto: Nel tempo che l'invitto e illustrissimo signore conte Francesco Sforza, non ancora duca de Milano devenuto, la Marca d'Ancona signoriggiava, fuoro ne la sua fiorita compagnia dui uomini d'arme, l'uno chiamato Marchetto da Faenza e l'altro Lanzilao da Virzella, ciascuno de loro animoso e gagliardo a maraviglia, e vertuosi ioveni, ligiadri e acconzi quanto dire se potesse. Il che, per esserno in una compagnia medesma allevati, nacque tra loro una amistà sì grande e continua, che, como è già de' soldati costume, se affratellarno insiemi e in vita e in morte e con perfetto amore, che nun sulo l'arme, i cavalli e ogne altra loro facultà aveano tra essi comunicata, ma ad ognuno parea avere l'anima del compagno dentro 'l corpo con la sua insiemi unita. E in tale giocundissimo stato più anni, sempre in onore fama e robba augumentando, dimoraro, e in manera la loro unione era supra tanto amore e carità fabricata, che né disiderio de stato o cupidità de robba, né ambizione de fama o gloria avrebbe bastato a guastare puro in alcuno atto tanta amicicia e fraternità, se la maestra de tutte le cose Fortuna con le insidie e sottile vie d'amore negli loro petti non fusse intrata; però che con nova manera de atrocissimo veneno tutti dui de una medesma fiamma rescaldando, ogni altro fatto reparo vinse e bottò per terra (Nov. iv, 7).57 Con la mente al segno zodiacale di Dante, i Gemelli, quasi divinità tutelari di tutta questa parte del Novellino, si potrebbe guardare a Marchetto e Lanzilao come a una sorta di Dioscuri redivivi. Tanto più che a un certo punto, con sintesi metaforica non rara in Masuccio, i due sono chiamati addirittura fratelli: «[…] 'l signore Malatesta fe' bannire un torniamento in Arimini, nel quale andando de multi e diversi armigeri, tra' quali foro i dui fratelli Marchetto e Lanzilao» (ibid.).58 L'analogia tra dedica e novella appare evidente: l'amicizia singolare di Marchetto e Lanzilao corrisponde a quella «unica» di Masuccio e Ariete. Ulteriore indizio di questo ricercato parallelismo è il ricorso nella novella di Marchetto e Lanzilao a due proverbi sull'amicizia citati da Aristotele proprio nel capoverso dell'Etica nicomachea indicato sopra come punto di partenza dell'inedito artificio di rivolgersi a una parte di sé come a un amico: "tra gli amici tutto è in comune" («nun sulo l'arme, i cavalli e ogne altra loro facultà aveano tra essi comunicata») e "una sola anima" («ma ad ognuno parea avere l'anima del compagno dentro 'l corpo con la sua insiemi unita»).59 I due cavalieri continuano ad amarsi fraternamente fino a quando scoprono di desiderare la stessa dama: la bella figlia di un cavaliere di Rimini chiamata Ipolita. Dopo uno scambio di battute che infiamma gli animi, dimentichi ormai dell'amore fraterno che li ha legati dalla nascita, Marchetto e Lanzilao si sfidano a duello uccidendosi vicendevolmente. Dal mito di Castore e Polluce si passa così a quello di Eteocle e Polinice, i gemelli figli di Edipo che si uccisero reciprocamente davanti alle porte di Tebe. Masuccio giudica con grande favore il comportamento di Marchetto e Lanzilao: a differenza di Agostino e Petruccio essi hanno anteposto la difesa dell'onore a ogni altra virtù, persino a una amicizia fraterna e perfetta. Le novelle sesta e settima della quarta parte costituiscono i due elementi di un dittico a contrasto. La prima è una novella comica, la seconda una novella tragica. In Nov. iv, 6 due compagni popolani decidono di «abbottinare» le mogli; in Nov. iv, 7 i nobili Marchetto e Lanzilao si uccidono pur di non lasciare l'amata all'amico. Da questo exemplum per contrasto si ricava una morale che non lascia spazio a esitazioni di sorta: è necessario che l'onore prevalga su ogni rapporto di amicizia, benché eccezionale. La dedica ad Ariete si trova tra questi due apologhi sul rapporto tra amicizia e onore; e pour cause anche nella dedica è rappresentata un'amicizia straordinaria. Nella lettera Masuccio motiva l'invio di Nov. iv, 7 con la volontà di mettere in guardia l'amico Ariete dai lacci di Amore: [...] de la quale como che 'l fine sia acerbo e sanguinoso, puro ne la tua giovenile età, ne la quale sei, cognoscerai quanto e quale sono con poco ordene e senza mesura le forze d'Amore, a ciò che, negli anni più maturi venendo, te sappi, se potrai, da tali travagliati lazzi con prodencia guardarete. Vale (Nov. iv, Es. 7).60 Dato il contesto delle novelle che incorniciano la dedica ad Ariete, questa messa in guardia dall'amore parrebbe implicare un avvertimento per così dire privato: la difesa del proprio onore potrebbe indurre un giorno anche l'autore a rompere il legame di eccezionale amicizia che lo unisce ad Ariete. Se Ariete è un alter ego fittizio dell'autore, la scala di valori proposta dal Novellino può essere sintetizzata nel modo seguente: il proprio onore di amante è più prezioso non solo dell'amicizia, ma addirittura del legame d'amore che fonda ogni rapporto sociale, l'amicizia verso sé stessi.
4. Questa interpretazione di Nov. iv, 7 mi pare gettare una luce nuova sulla quarta novella della quinta e ultima parte del Novellino. Si tratta di una novella molto particolare, perché offerta a Ippolita Sforza d'Aragona, dedicataria anche dell'opera intera. Singolare è anche che i protagonisti siano personaggi storici già dedicatari di alcune novelle della prima decade: lo stesso marito di Ippolita, Alfonso duca di Calabria, titolare della seconda novella del libro, e Marino Caracciolo, gentiluomo napoletano destinatario di Nov. i, 7. Questa la storia. Marino, «privatissimo» (Nov. v, 4) del duca di Calabria,61 si invaghisce di una dama giovane e bella, la quale inizialmente sembra corrispondere. Intuito a una festa l'interesse del duca, la donna preferisce a Marino il più avvenente e valoroso Alfonso. Il principe e la donna si accordano allora per giacere insieme in una delle notti seguenti, appena il marito di lei sarà partito per Genova. Intanto il sopravvenuto disinteresse della donna getta Marino in uno stato di prostrazione malinconica. Nel giorno stabilito per l'incontro, volendo condurre con sé Marino, Alfonso si risolve a chiedere all'amico la causa di tanta afflizione. Marino rivela allora al principe la vicenda dell'infelice amore per la nobildonna. A questo punto, tenendo «più cara la contentezza de lo amico che satisfare a la sua sensualità» (ibid.),62 Alfonso decide senza esitazioni di cedere la donna a Marino. La decisione è annunciata da un discorso solo in apparenza irreprensibile, con un'esaltazione della condivisione tra amici che ricorda la perversione di Agostino e Petruccio, piuttosto che il nobile sacrificio affrontato da Marchetto e Lanzilao in nome dell'onore: Marino mio, como tu più che altro pòi sapere, dagli teneri anni io non ebbi mai niuna cosa tanto cara, che gli amici non l'abbiano per propria possuta usare; e certo pòi tenere che, se la cosa che tu tanto ami, fusse de tale natura che mia e tua insiemi fare la potesse, non altramente che sempre de l'altre ho fatto, più che d'una darei. E ancora ch'io l'abbia insino a qui ardentissimamente amata, e gli suoi congiungimenti ed essa gli mei questa notte con grandissimo disio aspettavamo, e a lei accompagnarme te avia eletto, nondemeno ho diliberato, e voglio che cossì sia, che vincendo me medesmo, de uno mio volere fare non mio, prima che vederte in tanta angustia languire e per amore stentando perire (ibid.).63 La novella è compresa nella parte quinta, tra le novelle che raccontano azioni virtuose e magnanime. Coerentemente a questa collocazione, nella rubrica della novella si legge che il principe si sarebbe privato della donna «per vertute».64 La liberalità di Alfonso è presentata come una azione magnanima compiuta a costo di una dolorosa astinenza.65 Questo gesto magnanimo è esaltato con un fervore insolito nel commento morale che chiude la novella, dal quale pare alzarsi il suono stridente e sinistro dell'ironia: Quale ornata ed esquisita eloquencia fusse bastevole, scrivendo, racontare le accomolatissime vertute, che nel divo spirito de questo terreno dio como a proprio luoco de continuo albergano? Cui dunque porrà in carta ponere tante sue laudivole parte, tanti digni gesti da vero figliolo de re e gran signore in ogne luoco per lui adoperati? Cui cantarà la gloriosa fama e perpetuo nome, che custui per Italia per propria vertute se have vindicato? Cui saperà con tante eccessive laude comendare questa recontata vertute, magnificencia e liberalità, per lui usata verso il suo caro e fidele servitore? Quale patre per unico figliolo, o un fratello per uno fratello, o vero amico perfetto per amico, che più ultre dire non si può, avesse operata vertute alcuna, che a questa egualare se possa? Io, volendone alcuna parte toccare, sento raoca la mia lira, debole cognosco l'ingegno, e la ruzza mano insufficiente volgerìa la penna: taceronne, prima, de tutto, che non posserene a bastanza parlare (Nov. v, 4, Mas).66 Dalle lodi di Alfonso Masuccio passa a quelle della moglie Ippolita, chiudendo la sua perorazione con una preghiera agli dei affinché custodiscano il connubio della santa coppia. L'orazione finale, che non difetta nemmeno del suggello di un canonico «Amen», potrebbe suonare come una dissacrazione pungente a commento di una storia che narra una delle tante avventure extraconiugali di Alfonso: E de ciò restandome, non me occorre altro de dire, si non beati i populi che da lui serranno retti e gobernati, beati i servitori che 'l vedeno, beati i criati che 'l serveno; ma beatissima dirò a te, immortale dea Ipolita Maria, sua dignissima consorte, quale dagli fati te fu concieso de possedendo gaudere tanto tesoro. Però non meno felicissimo puro dirò meritamente a lui essere per divino sacramento congiunto con tale dignissima madonna, speciosa de vertù e de onestate, fonte de bellezza e de ligiadria, fiume de magnificencia, de gratitudine e de caritate. Oh, che formosa coppia! oh, gloriosa compagnia! oh, che giocunda e santa unione! Gli dii che continuo siano pregati, che vui e gli vostri conservano per longissimi tempi con prosperoso e tranquillo stato, como ognuno de vui maioremente disidera. Amen (ibid.).67 Sotto la superficie di una retorica encomiastica altisonante si cela in realtà un atteggiamento tutt'altro che benevolo nei confronti dell'erede al trono. Settembrini aveva sollevato qualche dubbio sulla convenienza di dedicare a Ippolita una novella in cui le avventure extraconiugali del marito sono presentate come un comportamento cronico e ormai tollerato con buon viso: «E che donna era costei, a cui Masuccio indirizza la novella 44 nella quale narra un'avventura galante del duca Alfonso, e neppure sospetta che il racconto a lei moglie debba dispiacere?»68. Agli occhi dei lettori ottocenteschi la dedica a Ippolita di Nov. v, 4 sarebbe potuta apparire sconveniente; Settembrini si era sentito così in dovere di chiarirne le circostanze, adducendo la rassegnazione di Ippolita ai tradimenti di Alfonso e la schiettezza ingenua ma sincera propria di Masuccio e di tutti i napoletani. Tentare di interpretare il testo sulla base di assiomi biografici e antropologici difficilmente verificabili è tuttavia operazione piuttosto rischiosa. Più prudente mi sembra cercare di ricavare dal testo stesso i dati necessari alla sua comprensione. E nel nostro caso il Novellino sembra testimoniare l'esistenza di una convenzione sociale che consentiva a Masuccio di glorificare la virilità di un personaggio di rango con il racconto delle sue mirabili avventure extraconiugali. L'esistenza di questo gioco mi sembra testimoniata dal racconto, in Nov. iii, 10, di un'avventura extraconiugale di Roberto Sanseverino, principe di Salerno e marito di Raimondina Orsini del Balzo. Masuccio non avrebbe avuto infatti alcun interesse a riprendere, neppure velatamente, il comportamento libertino del suo signore. Riassumo brevemente la storia di Nov. iii, 10. Una bella donna napoletana di nobile stirpe si innamora dell'avvenente e valoroso Roberto. Volendo abbordare il principe senza compromettersi, la donna riesce con uno stratagemma a servirsi di uno dei cappellani di Roberto come mezzano. Appreso l'interessamento della donna, il principe, lusingato, corrisponde di buon grado. La scena finale dell'incontro erotico è descritta con un gioco di allusioni audaci che Masuccio non avrebbe sicuramente arrischiato se avesse temuto di incrinare anche solo minimamente l'onorabilità pubblica del suo signore: Al quale ogne cosa per longo referito, quando ora loro parve, il signore con sue brigate al prepostato luoco se condusse; dove trovata la vaga dammicella de suavi oduri repiena, con le bracce aperte e con gran feste il recevette, e da poi infiniti basci e date e recevute al signore, montate in barca, reconciato il temone e fatta vela, ancora che ne l'arte marinaresca non fusse multo esperta, puro quanto dal tempo loro fu concesso, per lo mare d'amore navigarno (Nov. iii, 10).69 Nel sistema del Novellino e probabilmente nella società napoletana del Quattrocento, le avventure extraconiugali di un principe non costituiscono motivo di scandalo; al contrario, il loro racconto rappresenta un modo divertito e complice di aumentarne la gloria. Non è dunque l'accusa di adulterio e intemperanza quella insita pericolosamente nella novella 44. La critica ad Alfonso non è nelle parole di Masuccio, ma in quelle del Novellino. Le lodi clamorose del commento morale sembrano addirittura voler coprire le sommesse ma incisive insinuazioni dell'opera. Con il gioco delle sue corrispondenze il Novellino proietta sul principe aragonese un'ombra di disdoro e di infamia. L'attacco nei confronti di Alfonso si coglie sullo sfondo della dottrina dell'amicizia illustrata nella quarta parte del Novellino: cedendo la donna a Marino il principe ha anteposto l'amicizia all'onore, comportandosi in modo non molto dissimile dal mugnaio e dal calzolaio di Nov. iv, 7. Il principe è reo di non avere anteposto l'onore all'amicizia: si tratta di un rimprovero grave, il più pesante che si possa muovere all'interno dell'orizzonte ideologico del Novellino. Il biasimo del Novellino non si limita alla persona del principe, ma coinvolge l'intera dinastia aragonese. In Nov. v, 4, infatti, Alfonso, per chiedere alla donna di giacere con Marino, inventa un espediente fittizio che chiama in causa anche re Ferrante. Il principe racconta che il padre gli avrebbe raccomandato di far "provare" ogni amante a un suo servitore, precauzione necessaria per evitare il tragico destino dell'ultimo re napoletano della casa d'Angiò Durazzo, Ladislao II, morto improvvisamente all'età di trentasette anni avvelenato da una delle sue numerose amanti: Egli è vero che nel mio ultimo partire dal cospetto del serenissimo e potentissimo re mio patre e signore, tra gli altri ordeni e precetti me donò, fu che, in niuno lato ove me retrovasse, in tanto fusse d'amore fieramente priso, non devesse con veruna donna usare senza avereme prima fatta fare de uno mio privato la credenza, per accagione che la veneranda recordazione del potente re Lancilao fu per donna in sì fatto esercicio in quisto paese avvenenato (Nov. iv, 7).70 La nobildonna intuisce tuttavia le reali intenzioni di Alfonso, liberale al punto da anteporre − contro ogni legge d'amore, ma anche contro le leggi morali del Novellino! − la felicità dell'amico al suo piacere: Ma adesso sentendo che altramente la disiderati, ancora che in maiore eccellencia tenga la vostra usata e inaudita vertute e gran magnificencia, che essendo sì dignissimo principe e figliolo de tanto nobele, potente ed eccellente re, lassando d'essere, a quisto fatto, principali, per satisfare ad altrui disiderio ci sèti fatto voluntario e lialissimo mezzo, amando più lo piacere del vostro lialissimo servitore che la contentezza del mio e vostro core, quale cosa è fora de ogne legge de amore (ibid.).71 Pur con qualche riluttanza, non volendo impedire con un diniego un'azione tanto magnanima e bella, la donna va a giacere in camera da letto con Marino mentre il principe attende in anticamera. Giova a questo punto tornare al passo con la menzione di re Ladislao. Esso racchiude infatti implicazioni di non secondaria importanza. La prima è di ordine per così dire geografico. Situando l'omicidio di Ladislao nel paese della donna, il duca fornisce un'indicazione indiretta sul luogo in cui è ambientata la novella. All'inizio di Nov. v, 4 Masuccio aveva fissato i termini cronologici della vicenda: il fatto sarebbe avvenuto «dopo la prossima passata guerra de Romagna» (ibid.).72 L'evento bellico in questione si può identificare incrociando i dati della biografia di Masuccio con quelli di Alfonso. Si tratta di una campagna militare del 1467 che culminò nella battaglia di Molinella, a metà strada tra Bologna e Ferrara. La guerra vide schierati da una parte le truppe di Bartolomeo Colleoni, alleato di Borso d'Este, i signori di Pesaro, quelli di Forlì e alcune famiglie antimedicee di Firenze, dall'altra un esercito al comando di Federico da Montefeltro riunito da Piero de' Medici alleato con Galeazzo Sforza, Ferrante d'Aragona e Giovanni Bentivolgio signore di Bologna. Lo scontro ebbe esito incerto e gli eserciti si divisero senza che il campo avesse sancito un vincitore.73 Masuccio lascia intendere che le due parti si separarono a causa di condizioni atmosferiche non favorevoli alla battaglia: «per lo non essere a le doe potencie de la qualità del tempo conceso più li bellicosi esercicii adoperare» (ibid.); fatto non confermato però dalle fonti. L'11 agosto fu concordata una tregua e gli eserciti indietreggiarono cominciando a sciogliersi. La pace fu firmata successivamente grazie alla procura del pontefice Paolo II nel maggio del 1468. Alfonso duca di Calabria, giovanissimo (era nato nel 1448), si distinse come capitano delle truppe inviate in soccorso di Firenze dal padre Ferrante.74 Masuccio scrive che l'esercito di Alfonso dopo la battaglia di Molinella si ritirò nel contado pisano: «[...] ognuna de esse se retrasse indietro, cui in uno luoco e cui in un altro, secundo da la comodità eran tirati. E tra gli altri toccato in sorte il pisano contado a stanciare a lo eccelso principe Alfonso duca de Calabria» (ibid.). Da qui Alfonso si sarebbe spostato per motivi diplomatici da una città all'altra della lega filo-fiorentina. Proprio in una di queste città dell'Italia centrale Alfonso avrebbe conosciuto la nobildonna di Nov. v, 4. Masuccio è reticente sul nome di questa città: «ed essendo in tutte con gran triunfi recolto e lietamente recevuto e onorato multo, accadde che in una de ditte cità, quale de nominare necessità non me astrenge, gli piacque più che a niuna de l'altre dimorare» (ibid.). Ma il luogo in cui è ambientata la novella si può dedurre, almeno approssimativamente, dal riferimento al luogo della morte di Ladislao. Dovrebbe trattarsi di una città umbra appartenente ai territori dello Stato pontificio: il sovrano angioino era morto infatti durante l'assedio di Todi nel 1414.75 L'assedio di Todi fu l'ultimo atto della spregiudicata politica di espansione nello Stato della Chiesa perseguita da re Ladislao a partire dal 1404. Nell'ultimo decennio della sua vita il sovrano napoletano conquistò due volte (nel 1408 e nel 1413) Roma e i possedimenti pontifici a nord dell'Urbe. A queste imprese sembra fare riferimento indirettamente Masuccio nella penultima novella del Novellino. In Nov. v, 9 l'imperatore Federico Barbarossa lotta e vince contro il perfido Alessandro IV. La novella è caratterizzata dall'uso libero e allusivo dei dati storici: alleato dei comuni contro Federico Barbarossa non fu infatti Alessandro IV ma Alessandro III. Alessandro IV era stato avversario politico di Federico II, nipote di Federico Barbarossa. Ma il nome di Alessandro serviva a Masuccio non solo per evocare il grande imperatore svevo che aveva scelto l'Italia meridionale come sede della sua corte, ma anche per istituire un rinvio indiretto a Ladislao d'Angiò Durazzo. Durante la sua prima campagna nello Stato della Chiesa Ladislao aveva combattuto infatti contro Alessandro V. Questo papa, appena eletto, nel 1409, aveva incoronato re di Napoli Luigi II d'Angiò come atto della guerra contro Ladislao; con l'aiuto di Firenze e delle truppe pontificie Luigi riuscì a riconquistare Roma nel settembre di quello stesso anno. La penultima novella del Novellino si chiude con la sconfitta di Alessandro IV, che l'imperatore Federico Barbarossa per punizione scaccia da «Roma vituperosamente» (Nov. v, 9).76 Questa cacciata (che non riuscì mai né a Federico Barbarossa né a Federico II) allude molto probabilmente alle imprese vittoriose di Ladislao. Nella penultima novella del Novellino, manifesto del radicale ghibellinismo di Masuccio, non riconoscerei quindi, come ha fatto Nigro, una testimonianza di incondizionata fedeltà agli Aragonesi;77 quanto, viceversa, un documento della nostalgia di Masuccio per la politica di aggressione militare contro lo Stato pontificio perseguita da Ladislao d'Angiò Durazzo. Questa interpretazione di Nov. v, 9 è confermata dalle implicazioni politiche della novella che ha come protagonista Alfonso duca di Calabria. Anche in Nov. v, 4 si riconoscono i segni dell'ammirazione di Masuccio per quel re che era riuscito per ben due volte nell'impresa di scacciare il pontefice da Roma.78 Ladislao è nominato come colui che soccombe per la scelta nobile e coraggiosa di non condividere le proprie amanti. Egli è morto perché non si è prestato all'umiliante precauzione che Alfonso, su raccomandazione del padre Ferrante, si accinge ad adottare. Ciò stabilisce un legame sotterraneo con Marchetto e Lanzilao, morti anche loro per essersi valorosamente rifiutati di rinunciare al godimento esclusivo della propria amata. Il lien di re Ladislao con Marchetto e Lanzilao, apparentemente debole, è confortato da cogenti rispondenze onomastiche con i personaggi della settima novella della quarta parte: uno dei due cavalieri di Nov. iv, 7, Lanzilao, si chiama proprio come il re rimpianto dall'autore! La forma del nome utilizzata da Masuccio, «re Lancilao», rende la corrispondenza ancora più stringente. Che la coincidenza onomastica non sia casuale è provato dal fatto che anche un altro personaggio implicato in Nov. v, 4, la dedicataria Ippolita, ha un riscontro onomastico in uno dei personaggi di Nov. iv, 7. Nella novella dedicata ad Ariete Ipolita è proprio il nome della donna per cui Marchetto e Lanzilao si tolgono reciprocamente la vita. Ippolita è la figura meno rilevata del trio: corteggiata sia da Marchetto sia da Lanzilao non sa decidersi, alimentando la speranza di entrambi i cavalieri. Tuttavia dopo la catastrofe la donna si lancia dalle mura del palazzo, reagendo da eroina valorosa e senza paura. Il suo corpo è sepolto insieme con quelli di Marchetto e Lanzilao. La scelta onomastica di Masuccio sembra mirare a escludere Ippolita dal biasimo per il marito Alfonso attraverso l'associazione a un personaggio positivo di Nov. iv, 7. A questi due rilievi onomastici si può aggiungere forse che anche i nomi MARchetto e MARino sono collegati da forte allitterazione. Un ulteriore indizio di natura numerica avvalora il collegamento a distanza di Lanzilao con re Ladislao d'Angiò Durazzo. La morte di Lanzilao nella trentasettesima novella del Novellino potrebbe rinviare in maniera criptica agli anni del sovrano di Napoli al momento della morte nel 1414: trentasette appunto. Certo, Lanzilao e «Lancilao» muoiono per motivi apparentemente diversi: il primo combattendo valorosamente contro l'amico Marchetto, il secondo assassinato proditoriamente da un'amante. Bisogna però considerare il fatto che la morte improvvisa di Ladislao diede àdito tra i contemporanei al sospetto che il re angioino fosse stato assassinato su commissione del papa e dei suoi alleati (in particolare di Firenze). Studi più recenti hanno dimostrato che la morte di Ladislao fu provocata in realtà da un'infezione genitale contratta da una delle sue numerose amanti.79 Ma Masuccio, da buon monarchico anti-clericale, credeva probabilmente alla versione dell'omicidio politico. Nel caso di «re Lancilao» i due momenti della lotta e della scelta di non condividere la propria donna coincidono: il suo avvelenamento da parte di un'amante è conseguenza della guerra senza quartiere per l'annessione dei territori pontifici. Ecco che per questa via il rimprovero indirizzato in maniera molto sottile ad Alfonso e a suo padre Ferrante acquista inopinatamente una connotazione politica: a differenza di re Ladislao, secondo Masuccio gli Aragonesi non si sono adoperati abbastanza per annettere con le armi lo Stato della Chiesa. L'operazione messa in atto da Masuccio è di sorprendente sottigliezza: letta singolarmente, la quarta novella della quinta parte appare come una novella encomiastica e adulatoria. Dalla prospettiva del macrotesto, essa assume invece i contorni di una precisa imputazione politica nei confronti di Alfonso e della casa aragonese. La novella conferma in maniera molto efficace come il discorso sedizioso del Novellino sia affidato alle possibilità molteplici di interpretazione aperte dalla raccolta.80 Mettendo a frutto le potenzialità della raccolta Masuccio ha inserito nel testo messaggi subliminali talvolta addirittura antitetici a quanto affermato apertis verbis nelle singole novelle. E proprio Nov. v, 4 reinterpretata alla luce della dedica ad Ariete mostra chiaramente come le lettere dedicatorie siano il mezzo principale di questa feconda tensione ermeneutica tra libro e novelle, proprio quelle lettere che qualcuno ritiene espressione di una pratica adulatoria stanca e convenzionale. Le dediche del Novellino sono tutt'altro che inutili orpelli paratestuali. Al contrario: solo chi porge ascolto al dialogo prudentemente sommesso che le dediche instaurano con le novelle può sperare di essere messo a parte dei segreti più scabrosi e inconfessabili del Novellino.

V. V.






Note

1 Masuccio Salernitano, Il Novellino (con appendice di prosatori napoletani del '400), a cura di G. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1957, p. 286; così le cit. successive. torna su
2 La Commedia è citata sempre da Dante Alighieri, Commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1967, 4 voll. torna su
3 G. Mazzacurati, All'ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. Palumbo, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 117. torna su
4 Cfr. H. Meter, Le lettere dedicatorie delle novelle di Bandello: ragionamento moralistico e disposizione ricettiva, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, a cura di M. A. Terzoli, 21-23 novembre 2002, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 55-75. torna su
5 Ivi, p. 57. torna su
6 Una posizione analoga − riconoscimento della precedenza cronologica di Masuccio, ma sottolineatura di una presunta originalità di Bandello − sembra sostenere anche uno dei più importanti studiosi di Masuccio, Salvatore Nigro, nella sua introduzione all'edizione delle lettere dedicatorie di Bandello: «Non è che mancassero precedenti alla struttura epistolare della novella, dal quattrocentesco Novellino di Masuccio Salernitano (dove però la finzione epistolare voleva essere una controrisposta laica alle prediche) fino alle più vicine spicciolate di Giovanni Jacopo Calandra e di Luigi da Porto. Solo con Bandello però la simulazione epistolare traghetta in forma di "novelle", di recente accadute o novellamente a notizia venute, i "ragionamenti" delle corti (dei conventi e dei militari alloggiamenti) toccati dall'esperienza di un segretario» (S. S. Nigro, Rinascimento fantastico, in M. Bandello, Lettere dedicatorie, A cura di S. S. Nigro, Palermo, Sellerio, 1994, vol. i, pp. 7-28, la cit. è alle pp. 21-22). torna su
7 Meter, Le lettere dedicatorie cit., p. 59. torna su
8 Ivi, p. 65. torna su
9 L. Settembrini, Masuccio, i suoi tempi, il suo libro, in Masuccio Salernitano, Il Novellino nell'edizione di Luigi Settembrini, A cura di S. S. Nigro, Milano, bur, 20104 (1a ed. 1990), pp. 61-93; la cit. è a p. 92. torna su
10 Ivi, p. 444. torna su
11 Cfr. per esempio A. Rossebastiano-E. Papa, I nomi di persona in Italia. Dizionario storico ed etimologico, presentazione di G. G. Queirazza, Torino, utet, 2005, 2 voll. torna su
12 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 13. torna su
13 Ivi, p. 196. torna su
14 Ivi, p. 238. torna su
15 Ivi, p. 99. torna su
16 Cfr. la nota dell'edizione di Settembrini, che legge però «Al generoso misser Dragonetto Bonifacio» (Masuccio Salernitano, Il Novellino nell'edizione di Luigi Settembrini cit., p. 201), diversamente anche dall'edizione Mauro (Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di A. Mauro, Bari, Laterza, 1940, p. 82: «Al magnifico misser Dragonetto»). torna su
17 Questo collegamento è rilevato in modo apodittico e relegato in nota in L. Reina, Masuccio Salernitano. Letteratura e società del 'Novellino', Salerno, Edisud, 20003 (1a ed. 1979), p. 11: «È lo stesso Masuccio a precisare, nell'esordio generale della quarta parte del Novellino, di avere come proprio segno zodiacale Ariete […]. E "Al formosissimo mio Ariete" è dedicata la novella xxxvii». torna su
18 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 286. torna su
19 Ivi, p. 335; così la cit. successiva. torna su
20 Non raro invece l'uso di mio nel corpo delle dediche. Si vedano per esempio le dediche della prima parte: Nov. i, Es. 3: «magnifico mio Pontano» (ivi, p. 39); Nov. i, Es. 4: «magnifico mio maiore» (ivi, p. 52); Nov. i, Es. 5: «magnifico mio compare» (ivi, p. 63); Nov. i, Es. 6: «unico signor mio» (ivi, p. 70); Nov. i, Es. 7: «magnifico mio Marino» (ivi, p. 79); Nov. i, Es. 8: «suavissimo mio Scales» (ivi, p. 90); Nov. i, Es. 10: «Vertuosissimo mio Arcella» (ivi, p. 106). torna su
21 Cfr. L. Onder, bello, in AA.VV., Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 19842 (1a ed. 1940) pp. 563-65, in particolare p. 564. torna su
22 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 335. torna su
23 Ivi, p. 441; così la cit. successiva. torna su
24 Ivi, p. 442. torna su
25 Cfr. F. Petrucci, Del Giudice Boffillo, in AA.VV., Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988, vol. xxxvi, pp. 591-96, in particolare pp. 591-92. torna su
26 Cfr. Paggio, in AA.VV., Enciclopedia italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1935, vol. xxv, p. 928. torna su
27 L'esistenza di una versione spicciolata antecedente alla composizione del libro e riconducibile agli anni 1450-1457 è stata dimostrata per le novelle ii, iii, xxi, xxxi da Giorgio Petrocchi; per la questione cfr. G. Petrocchi, Per l'edizione critica del «Novellino» di Masuccio, in SFI, x, 1952, pp. 37-82; e Id., La prima redazione del "Novellino" di Masuccio, in GSLI, cxxix, 1952, pp. 266-317. torna su
28 Cfr. infra.torna su
29 Dante Alighieri, Convivio, a cura di G. Fioravanti, Canzoni a cura di C. Giunta, in Id., Opere, Edizione diretta da M. Santagata, vol. ii, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe, a cura di G. Fioravanti, C. Giunta, D. Quaglioni, C. Villa, G. Albanese, Milano, Mondadori, 2014, pp. 3-805, la cit. è alle pp. 746 e 750. torna su
30 Cfr. F. De Propris, Guardati Tommaso, in AA.VV., Dizionario biografico cit., 2003, vol. lx, pp. 279-86, in particolare p. 279. torna su
31 Dante Alighieri, Convivio cit., pp. 746 e 750. torna su
32 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 220. torna su
33 Cfr. G. Petrocchi, Masuccio Guardati e la narrativa napoletana del Quattrocento, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 56-57. torna su
34 Sia l'edizione Settembrini (Masuccio Salernitano, Il Novellino nell'edizione di Luigi Settembrini cit., p. 444) sia l'edizione Mauro (Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di A. Mauro cit., p. 294) leggono «guardarte», con vicinanza ancora più stretta al nome di Masuccio. torna su
35 Il testo è citato in Nigro, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento, prefazione di E. Sanguineti, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 26. torna su
36 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 39. torna su
37 Ivi, p. 63. torna su
38 Ivi, p. 79. torna su
39 Ivi, p. 90. torna su
40 Ivi, p. 9-10. torna su
41 Per l'uso di questo aggettivo nelle novelle in rapporto all'amicizia cfr. Nov. i, 10: «singularissimo amico» (ivi, p. 112); Nov. ii, 1: «singulare amico» (ivi, p. 125); Nov. ii, 4: «singular suo amico» (ivi, p. 157); Nov. iii, 1: «singulare amico» (ivi, p. 212); Nov. iii, 8: «singulare amistà» (ivi, p. 344). torna su
42 Ivi, p. 191. torna su
43 Ivi, p. 255. torna su
44 G. Boccaccio, Filostrato, a cura di V. Branca, in Id., Tutte le opere di G. Boccaccio, a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1964-1998, 10 voll., vol. ii, 1964, p. 86. torna su
45 Aristotele, Etica Nicomachea, Introduzione, traduzione, note e apparati di C. Mazzarelli, Milano, Bompiani, 20033 (1a ed. 2000), p. 355. torna su
46 Sull'università salernitana come possibile sfondo culturale della scrittura di Masuccio cfr. L. Reina, Masuccio Salernitano cit., pp. 21-24. torna su
47 Cfr. P. O. Kristeller, Studi sulla Scuola medica salernitana, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1986, pp. 86-87. torna su
48 Cfr. ivi, pp. 45-48; per l'importanza del ruolo giocato dai medici e dagli scienzati nella diffusione delle dottrine aristoteliche in Occidente, e in particolare da quelli della scuola medica salernitana cfr. A. Birkenmajer, Le rôle joué par les médecins et les naturalistes dans la réception d'Aristote au XII-e et XIII-e siècles, in Id., Études d'histoire des sciences et de la philosophie du Moyen Âge, Studia Copernicana, i, Woclaw-Warszawa-Krakow, Zaklad Narodowy, 1970, pp. 73-87, in particolare pp. 76-77. torna su
49 Dante Alighieri, Convivio cit., p. 93. torna su
50 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 9. torna su
51 Non mi pare si possa escludere un'influenza dantesca benché, come ricorda Vasoli, «l'appellativo di "Filosofo" per antonomasia, attribuito ad Aristotele, è di uso comune nella cultura tardomedievale, almeno a partire dal XII secolo» (C. Vasoli, commento a Dante Alighieri, Opere minori, t. i, p. ii, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, p. 3). torna su
52 Per la polemica sociale anti-popolare condotta in questo dittico da Masuccio cfr. M. Papio, Keen and Violent Remedies. Social Satire and the Grotesque in Masuccio Salernitano's 'Novellino', New York, Peter Lang, 2000, pp. 46-48. torna su
53 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 329. torna su
54 Ivi, pp. 332-33. torna su
55 Ivi, p. 333; così la cit. successiva. torna su
56 Ivi, pp. 333-34. torna su
57 Ivi, pp. 335-36. torna su
58Ivi, p. 336. torna su
59 L'unità dei due amici è dichiarata apertamente anche da Lanzilao nel dialogo che precede lo scontro finale: «avendo io cossì bene como te giostrato, per mia cortesia, essendo nui una cosa, me contentai che lo onore tenesse» (ivi, p. 338). torna su
60 Ivi, p. 335. torna su
61 Ivi, p. 392. torna su
62 Ivi, pp. 394-95. torna su
63 Ivi, p. 395. torna su
64Ivi, p. 391. torna su
65 Oltre che con l'ottava novella della decima giornata del Decameron (la storia di Gisippo che regala la sposa Sofronia all'amico Tito), la quarta novella dell'ultima parte del Novellino dialoga con Dec. x, 6, in cui è il racconto di una grande azione di Carlo I d'Angiò re di Napoli, capace di reprimere l'amore sconvenevole per la figlia di Neri degli Uberti. A questa novella fa riscontro quella successiva, il cui protagonista è Pietro III d'Aragona, fomentatore dei Vespri siciliani proprio contro Carlo I d'Angiò. In Dec. x, 7 re Pietro decide di diventare cavaliere di una giovinetta innamorata di lui ma rattristata quasi mortalmente per l'impossibilità dell'amore verso il proprio sovrano. Questa coppia di novelle contigue che trattano un tema analogo e complementare (in Dec. x, 6 è il re angioino ad essere innamorato, nella novella successiva è invece una giovinetta a invaghirsi del re aragonese) suscitò certamente l'interesse di Masuccio, che vi vedeva il coinvolgimento delle dinastie che ancora nel Quattrocento si contendevano il Regno di Napoli. E forse proprio Dec. x, 6 e Dec. x, 7 fornirono a Masuccio uno dei modelli per la microstruttura di dittico a contrasto adottata in Nov. iv, 6 e Nov. iv, 7, nonché in Nov. v, 9 e Nov. v, 10. torna su
66 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 398. torna su
67 Ivi, pp. 398-99. torna su
68 L. Settembrini, Masuccio, i suoi tempi cit., p. 73. torna su
69 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 283. torna su
70 Ivi, p. 396. torna su
71 Ivi, p. 397. torna su
72 Ivi, p. 392; così le cit. successive. torna su
73 Cfr. M. E. Mallett, Colleoni Bartolomeo, in AA.VV., Dizionario biografico cit., 1982, vol. xxvii, pp. 9-19, in particolare pp. 14-15. Dal riferimento alla guerra di Romagna, che Masuccio dice «prossima», si può dedurre anche la data di composizione della novella, almeno nella sua redazione definitiva. Bisognerà considerare il 1467 come post quem; la data di composizione della novella non dovrebbe quindi andare oltre i primissimi anni Settanta del Quattrocento. torna su
74 Cfr. R. Mormone, Alfonso II d'Aragona, re di Napoli, in AA.VV., Dizionario biografico cit., 1960, vol. ii, pp. 331-32, in particolare p. 331. torna su
75 Cfr. A. Kiesewetter, Ladislao d'Angiò Durazzo, re di Sicilia, in AA.VV., Dizionario biografico cit., 2004, vol. lxiii, pp. 39-50, in particolare p. 47. torna su
76 Masuccio Salernitano, Il Novellino cit., p. 439. torna su
77Così Nigro, Le brache di San Griffone cit., pp. 86-87. torna su
78 Nostalgia politica instillata in Masuccio probabilmente dal nonno materno, Tommaso Mariconda, nato prima del 1341 (cfr. De Propris, Guardati, Tommaso cit., p. 279) e citato all'inizio di Nov. i, 4 come depositario di antiche storie della Napoli angioina. torna su
79 Cfr. Kiesewetter, Ladislao cit., p. 47. torna su
80 Si tratta di una circostanza già evidenziata da Nigro: «Le "fabellae" spicciolate, per quanto di più sfacciata polemica, dovevano risultare più accettabili e maggiormente sostenibili a corte al postumo Novellino − alla raccolta organica − con la sua scrittura laconica. La reticenza faceva questione del linguaggio: poneva la scrittura nella necessità di essere interpretata; azionava una produttività semantica multipla [...]. Anche perché la cornice aggiunta trasformava la silloge in un romanzo che, nato con l'intento "assentatorio" di celebrare la civiltà umanistico-aragonese, all'improvviso impennava alla denuncia delle inadempienze della cultura e della politica della corte» (Nigro, Le brache di San Griffone cit., pp. 9-10). torna su