9, 2015
 
Saggi    
 


Luca Tosin

La rappresentazione della mitologia in alcune marche editoriali del XVII secolo



Dall'iniziale segno tracciato da stampatori e librai per contrassegnare le balle di libri inviate ai clienti con lo scopo non solo di agevolare i trasportatori, ma anche di certificarne l'origine, la marca in breve divenne anche ornamento stesso del manufatto, sia che figurasse nel frontespizio o, meno frequentemente, nel colophon. Col diffondersi dell'industria tipografica non soltanto crebbe in misura proporzionale il loro numero, ma alcuni tipografi ne utilizzarono più d'una: già nel Cinquecento ebbe inizio il moltiplicarsi delle imprese per potere non solo assecondare il desiderio di novità e i mutati interessi dei lettori, ma anche per rispondere a una volontà pubblicitaria finalizzata a consentire al proprio prodotto di imporsi nel mondo dell'editoria, che, col trascorrere del tempo, era sempre più affollato di libri, tanto che l'insegna figurata collocata all'inizio venne spostata infine al centro della pagina contenente il titolo: a Venezia Comin da Trino poneva sulla copertina del Libro di m. Gio. Boccaccio delle donne illustri Nettuno in atto di colpire col tridente un serpente marino con testa di cavallo,1 mentre nel 1572 sul frontespizio dei Consilia feudalia ex variorum doctorum stampava un albero di palma con due bambini alla sua base e uno sospeso ad un ramo in atto di cogliere i datteri;2 Girolamo Scoto nel 1544 utilizzava come marca un'icona raffigurante la Fama,3 nel 1545 in altra appariva una quercia su di un cumulo di rocce,4 nel 1551 come insegna appare un'ancora che tiene uniti rami di palma e di olivo;5 a Ferrara Vittorio Baldini, nel 1579, faceva uscire l'Epistolarum Paulli Sacrati sulla cui copertina in cornice figurata compariva un ramoscello d'ulivo piantato in terra sospeso su due putti reggenti un'anfora,6 nel 1586 per il Discorso di Orazio Lombardelli usava come contrassegno Dedalo in volo sul labirinto di Creta,7 nel 1600 pubblicava Del modo di vincere i turchi col frontespizio occupato da una grande icona in cui compare Ercole che, con la clava, uccide l'Idra di Lerna.8 Tra i motivi che spingevano lo stesso editore o stampatore all'uso di icone con soggetti diversi, per cui in alcuni casi appare arduo comprendere quale possa essere stata l'impresa intesa come vera e propria marca tipografica, poteva esserci anche lo scopo di «suscitare meraviglia e consenso» da parte dei lettori.9 Fenomeno, questo, ancor più evidente nel Seicento, quando del libro assunse particolare rilevanza il frontespizio, così che le icone subirono modificazioni non solo in funzione delle mutate esigenze di gusto, ma anche per puri fini commerciali: si poteva pertanto presentare un prodotto esteriormente gradevole, tuttavia spesso in contrasto con la parte interna che appariva non coerente con l'importanza e la ricercatezza di quella esterna, sovente influenzata dalla imperante moda baroccheggiante in cui le marche non erano sempre frutto originale di fertile immaginazione come accadde nel Cinquecento, ma spesso rifacimenti di soggetti già utilizzati, pur con variazioni nelle misure e nei dettagli, inoltre aggiungendo, sopprimendo o variando il motto, se non addirittura copie identiche di imprese altrui. Si può ricordare la raffigurazione di Adamo ed Eva accanto all'albero di mele sul cui tronco è attorcigliato il serpente, che compare nel Tractatus de electionibus pubblicato in Colonia nel 1573 da Theodor Baum;10 nel 1618 lo stesso soggetto fu impresso a Venezia da Giovanni Battista Bonfadino.11 Il giglio fiorentino, impresa caratteristica delle opere dei Giunta, fu adottata come marca anche da altri stampatori: apparve sul frontespizio de L'argute et facete lettere dei tipografi trentini Gelmini,12 o delle Bizzarrie academiche del cremonese Giacinto Belpiero.13 A Bologna Bartolomeo Cochi, per l'edizione del Tancredi di Ridolfo Campeggi14 propose una brutta copia della Bellona che contraddistinse le edizioni di Antonio Bellone.15 La riproposizione dello stesso soggetto poteva anche essere originata da eventi che coinvolgevano la titolarità dell'azienda, sia nel caso fosse stata ceduta a terzi che dimostravano interesse a mantenerne l'insegna, sia a seguito di eredità per la morte del titolare; nella fattispecie se gli eredi non intendevano proseguire l'attività, il patrimonio di macchinari, caratteri e matrici, compresa la marca, venivano ceduti anche disperdendoli tra più tipografi che, con piccole modifiche ai legni, come l'asportazione della cornice se presente o di alcuni piccoli segni che la caratterizzavano, potevano riutilizzarla come propria. Oggetto di incisione potevano essere figure allegoriche come esseri appartenenti al mondo animale e vegetale; non mancavano le rappresentazioni di attività dell'uomo in agricoltura come le immagini di santi o che richiamavano il mondo fantastico della mitologia, ma potevano anche costituire un esplicito richiamo all'ambito della propria produzione, come nel caso di Antonio Barré, specializzato nella stampa di testi musicali, che aveva come impresa Orfeo contornato da strumenti,16 oppure un richiamo al nome dell'editore (per cui si possono definire parlanti), come per Pietro Paolo Porro, che pose nel colophon dello Psalterium un porro,17 o per Vincenzo Busdraghi, che usò tra le altre una marca in cui figurava un drago.18 Un altro drago, non allusivo al nome dello stampatore ma derivante dalla mitologia, appare sul frontespizio delle Decisiones Burdegalenses edite da Antoine Vincent:19 Apollo, uscito vincitore dal combattimento sostenuto con Pitone, è ritratto col piede su questo drago che non lontano da Delfi massacrava animali e persone. Numerosi miti classici, come questo, furono fonte di ispirazione per i creatori di imprese tipografiche anche se a volte vennero preferiti solo determinati episodi e trascurati altri, come accadde per le fatiche di Ercole di cui sia nel Cinque che nel Seicento (secondo quanto risulta dal catalogo SBN) si hanno raffigurate solo le prime due fatiche riguardanti le uccisioni del leone di Nemea e dell'Idra di Lerna. A fornire molti elementi, anche dotti, da sviluppare e poi realizzare nelle matrici iconografiche furono i libri di emblemi e di imprese che, dalla metà del Cinquecento, cominciarono a diffondersi in tutta Europa con grande successo. Libri come quelli dell'Alciati,20 di Scipione Bargagli,21 del Capaccio, 22 di Vincenzo Cartari,23 di Cesare Ripa,24 per rimanere in ambito italiano, divennero veri e propri «concentrati repertori della mitografia e simbologia antica [che fornivano] riferimenti al tempo stesso dotti e squisiti a una cultura letteraria e artistica curiosa di analogie e suggestioni simbolistiche».25 Di seguito si propongono alcuni esempi tratti da opere stampate in Italia nel Seicento. Non è certamente un panorama esaustivo della produzione di questo secolo, ma un campione di come venissero interpretate alcune figure appartenenti al mondo mitologico riscoperto grazie al rinnovato interesse che l'Umanesimo e il Rinascimento avevano provocato per la cultura classica.


 
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Abbondanza
Divinità allegorica dei Romani, rappresentata come una giovane ninfa incoronata di fiori, con un vestito verde ornato d'oro e con in mano la cornucopia.
«Donna graziosa, che avendo d'una bella ghirlanda di vaghi fiori cinta la fronte, e il vestimento di color verde, ricamato d'oro, con la destra mano tenga il corno della dovizia pieno di molti e diversi frutti, uve, olive, e altri; e col sinistro braccio stringa un fascio di spighe di grano di miglio, panico, legumi, somiglianti, dal quale si vedranno molte di dette spighe uscite cadere, e sparse anco per terra».26

Figura 1: Galileo Galilei, Le Operazioni del compasso geometrico ..., Padova, in casa dell'autore, per Pietro Marinelli, 1606.
Tipografo: Pietro Marinelli.
Marca: Una donna avanza tenendo col braccio sinistro una cornucopia e spighe nella mano sinistra [MAR.T.E. (Marche Tipografiche Editoriali) n. 68].
Motto: Abondantia.



 
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Aurora
Aurora ebbe due figli da Titone: Ematio e Mnemone, che fu ucciso da Achille sotto le mura di Troia. Disperata, Aurora non cessò di piangere la morte del figlio e le sue lacrime diedero origine alla rugiada.
«Se n'esce dalla porta dell'Oriente la vaga Aurora tinta di vermiglio la faccia, e con rugiadose stille di lagrime, che le cadono dagli occhi per cordoglio di avere lasciato l'amante Titone, bagna l'erbe, i fiori, che alla di lei uscita paiono adornarsi di nova bellezza».27
«Giovinetta alata per la velocità del suo moto, che tosto sparisce, di color incarnato con manto giallo, nel braccio sinistro un cestello pieno di vari fiori, e nella stessa mano tiene una fiaccolata accesa, e con la destra sparge fiori».28

Figura 2: Giacomo Filippo Tomasini, Bibliothecae Patauinae manuscriptae publicae & priuatae ..., Utini, typis Nicolai Schiratti, 1639.
Tipografo: Nicolò Schiratti.
Marca: In una cornice figurata una donna tiene nella mano destra una ghirlanda di fiori ed avanza tra le nuvole spargendo petali [MAR.T.E. n. 326].
Motto: Micat aurea Phaebo.



 
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Bellona
Divinità della guerra presso i Romani. Accompagnava Marte nella lotta ed era considerata sua sposa, sua sorella e sua figlia. L'arte romana la rappresentava come una donna che avanza a gran passi, armata di scudo, lancia e fiaccola.
«Fu Bellona appresso de gli antichi una Dea tutta piena d'ira, e di furore, e alla quale credettero che dilettasse assai di veder spargere il sangue umano, onde fu che nei suoi sacrifici in vece di vittima i Sacerdoti stessi si pungevano con le coltella le braccia, e le spalle, e la placavano col proprio sangue».29

Figura 3: Giovanni Antonio Roffeni, Discorso astrologico delle mutationi de' tempi,... Bologna, per Bartolomeo Cochi, 1612.
Tipografo: Bartolomeo Cochi.
Marca: Bellona, dea guerra, tiene con la mano destra la lancia e con la sinistra scudo; dietro al capo ha un nastro col motto [MAR.T.E. n. 123].
Motto: Et gaudet Bellona libellis.



 
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Centauro
I Centauri comunemente erano creduti discendere da Issione e Nefele; definiti selvaggi, rozzi, violenti, brutali, vennero cacciati dalla Tessaglia, ritenuta la loro patria, in seguito alla lotta coi Lapiti: Piroto, loro re, li aveva invitati alle nozze, ma essi si impossessarono della sposa e di altri invitati e ne seguì un sanguinoso combattimento. I Lapiti li sterminarono e li cacciarono dalla Tessaglia.
«I Centauri furono figliuoli di Isione, & d'una nube, si come è stato mostrato. Alcuni vogliono questi esser stati i primi, che in Tessaglia domassero cavalli, e essere divenuti famosi Cavalcatori; e perché furono insieme cento, furono detti Centauri, quasi cento armati, ovvero, cento Marti; perciocché Arios in Greco significa Marte, ovvero più tosto cento aure, attentoché sì come il vento velocemente vola, così questi parevano velocemente correre».30

Figura 4: Latino Tancredi, Latini Tancredi Camerotani ... De fame, et siti ..., Venetiis, apud Iac. Antonium Somaschum, 1607.
Tipografo: Giacomo Antonio Somasco
Marca: Centauro con arco, faretra a tracolla e serpente attorno al braccio destro [MAR.T.E. n. 438].
Motto: Viribus iungenda sapientia.



 
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Cerbero
Figlio di Tifone e di Echidna, vigilava che nessuno potesse uscire dagli Inferi. Tra i vari episodi che lo riguardano, questa marca tipografica rappresenta quello in cui la Sibilla Cumana, che accompagnava Enea, lo addormentò con una focaccia impastata nel miele (Eneide, VI, vv. 612-629).
Le tre teste di Cerbero indicano «geroglificamente le tre parti del Cielo, dove il Sole si lascia di giorno vedere; significò i tre regni divisi del Cielo, della Terra, e dell'Inferno; le tre necessità naturacene ritengono l'uomo dalla considerazione delle cose celesti, cioè la Fame, la Sete, il Sonno».31

Figura 5: Joachim Mynsinger von Fründeck, Ioachimi Mynsingeri a Frundeck ... Apotelesma ..., Venetiis, apud Hieronymum Polum, 1612.
Tipografo: Girolamo Polo.
Marca: Cerbero, con due teste abbassate e una alzata, sta per afferrare il cibo che gli viene lanciata da una mano [MAR.T.E. n. 1174].
Motto: Vis vincitur arte.



 
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Ercole e l'Idra
Il nome Ercole è la forma latinizzata di Eracle; pertanto col nome di Ercole si fa riferimento alle tradizioni mitico-letterarie romane, che quasi sempre riguardano l'attraversamento dell'Italia centrale che compì quando ritornò dall'impresa dei buoi di Gerione. Noto soprattutto per la eccezionale forza fisica di cui diede una significativa dimostrazione compiendo le dodici fatiche per volere di Era.
«Questa bellissima invenzione di un animale di sì orrenda e strana natura, con la bella maniera da Ercole usata per espugnarla, si vede con molta vaghezza celebrata da infiniti così antichi come moderni, e che in diverse guise ella presta comodissimi esempi e argomenti, non solo ai poeti, ma ancora ai filosofi e agli oratori in diverse occasioni per l'intento di quello che essi procurano di persuadere e di dimostrare».32
«Suida scrive che per dimostrare gli antichi che Hercole fu grande amatore di prudenza e di virtù lo dipinsero vestito di una pelle di Lione, che significa la grandezza e generosità dell'animo, gli posero la mazza nella destra, che mostra desiderio di prudenza e di sapere, e con essa finsero le favole».33

Figura 6: Ulisse Aldrovandi, Quadrupedum omnium bisulcorum historia ..., Bononiae, apud Sebastianum Bonhommium, 1621.
Tipografo: Sebastiano Bonomi.
Marca: Sotto un albero di palma Ercole uccide l'Idra dalle sette teste con la clava [MAR.T.E. n. 1296].
Motto: Prudentia et fortitudine.



 
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Europa
Mentre passeggiava sulla spiaggia Zeus, sotto le sembianze di un toro, si mise a pascolare l'erba del prato su cui passeggiava Europa con le sue ancelle che presero a carezzarlo; si avvicinò a Europa che, tranquillizzata dall'apparenza mansueta del toro, si sedette sul suo dorso; Zeus si lanciò sul mare trasportandola a Creta da dove, riprese le sue vere sembianze, la trasferì sul monte Ditte; lì Europa mise alla luce Minosse e Radamante.
«Europa fu figliuola d'Agenore, come si vede per Ovidio; della quale tal favola si narra. Vogliono che, essendo ella molto amata da Giove, egli comandasse a Mercurio, che cacciasse quelli armenti ch'erano su le montagne di Fenicia, nel lito dove Europa con altre donzelle era avvezza andar a giuocare e darsi piacere. Il che fatto, Giove si cangiò in un bianco Toro, e si pose nel mezzo de gli altri armenti. Onde veggendo Europa così vago e bello animale, e dilettandosi della sua piacevolezza, incominciò prima con le mani a farli vezzi, e indi montarli sopra; il quale pian piano ritirandosi verso l'acqua, e a poco a poco entrando nell'onde, tosto, che sentì quella esser sì bene fermata sul suo dorso e averli le mani nelle corna, notando passò il mare con quella, tutta timida e sbigottita, e la portò in Creta; dove ritornato nella sua vera forma seco ebbe a fare, e la impregnò».34

Figura 7: Ciriaco Francesco Negri, Controuersiarum forensium liber secundus ..., Venetiis, apud Brogiollum, 1664.
Tipografo: Francesco Brogiollo.
Marca: In cornice figurata: Giove, nelle sembianze di un toro, rapisce la fanciulla Europa portandola attraverso il mare sulla sua groppa [MAR.T.E. n. 652].



 
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Fama
Deificazione romana della «voce pubblica», corrispondente alla greca Ossa. Era immaginata come una fanciulla alata, con un numero infinito di occhi, orecchi e bocche, la cui dimora abituale si trovava al centro del mondo. Le furono eretti un tempio ad Atene e uno in Roma.
«Donna vestita d'un velo sottile succinto a traverso, raccolto a mezzagamba, che mostri correre leggermente, averà due grand'ali, sarà tutta pennata, e per tutto vi saranno tant'occhi quante penne, e tra quelli vi saranno molte bocche e orecchie, nella destra mano terrà una tromba; così la descrive Virgilio».35
«Vola senza riposo la Fama, non men verace in apportando il vero, che bugiarda in aggiugnendo il falso. Mostro orrendo, il quale ha tanti occhi quante piume, tante lingue quante penne, al cui dibattimento e volo, come a riaprimento di tante bocche, fa risuonare d'intorno quello che intese con più d'altrettanti orecchi».36

Figura 8: Nicolas Everaerts, Loci argumentorum legales ..., Venetiis, apud Matthaeum Valentinum, 1607.
Tipografo: Matteo Valentini.
Marca: Donna alata con una corona d'alloro nella mano destra suona una tromba a cui è attaccato un drappo recante le iniziali G.R. [MAR.T.E. n. 158].



 
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Fenice
Uccello favoloso dell'Egitto antico, citato anche da autori greci e romani (Erodoto, II, 73; Ovidio, XV, 392 e segg.). In Egitto era rappresentato sotto forma di airone, nella letteratura classica sotto forma di un pavone o di aquila. Esistono diverse versioni riguardo alla sua morte: ogni 500 anni l'uccello ritornava in Egitto per costruire il suo nido e per morire. Dal suo cadavere nasceva una nuova Fenice. Secondo un'altra versione l'uccello morente si dava dei colpi di becco e, dal sangue che colava dal suo petto, nasceva la nuova Fenice.
«Vive nell'Arabia odorata l'uccello Fenice unico al Mondo, colorito di piume, non men vago agli occhi, s'altri mai il vide, di quello che sia marauiglioso all'intelletto. Perciocché giunto al termine di sua vita, s'appresta il rogo, il quale abbia a servire per sepolcro al suo corpo, e per letto alla nuova prole, l'acconcia con legni odoriferi, perché con la soavità degli odori lì riceva nella culla il nuovo parto, e riccamente nella tomba il morto si chiuda. Chi mai intese modo si strano di procreare. S'uccide, s'accende, ne muore perché viva? perche si propaghi? perché si generi?».37
«... vive in Arabia 660 anni, quando invecchia si fa un nido di cassia e d'incenso, e riempielo d'odori, e poi vi more sopra. Dipoi delle ossa e delle midolla sue nasce prima come un vermicello, e poi si fa un picciolo uccello, e prima fa il funerale alla già morta, e porta tutto il nido presso a Pancaia nella Città del Sole».38
Della sua nascita «molte cose gli Egizi e molte Plinio han detto. Di cui anco scrisse Ovidio che un uccello si repara, e si resemina mentre fabbricando nel vertice d'una palma (quest'arbore Fenice era detto dai Romani) il nido con Cassia, Nardo, Cinammomo e Mirra, ponendovisi di sopra, ne gli odori finisce la vita. [...] Terulliano vuol che questo modo di rinascere significhi la resurrezione. [...] Imperciò che il corpo è patria dell'anima, e che noi qua peregriniamo l'han detto i Greci e i Latini, oltre a gli Egizi. E per che unico è quest'uccello, più vago dei volatili come Plinio il dipinge; per questo nel suo Simolacro intendeano il Sole».39

Figura 9: Justus Lipsius, Della politica ouero Dottrina ciuile ..., Roma, appresso a Giouanni Martinelli, stampato da Guglielmo Facciotto, 1604.
Tipografo: Guglielmo Facciotti.
Marca: In cornice figurata: fenice tra le fiamme rivolta verso il sole. Sull'anfora iniziali GM. La marca è di Giovanni Martinelli [MAR.T.E. n. 1200].
Motto: Semper eadem.



 
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Flora
Dea romana dei fiori e dei giardini, divinizzata dai Greci col nome di Clori. Amata da Zefiro, che la rese madre della Primavera e le fece dono dell'eterno splendore della giovinezza e dell'impero dei fiori.
«Portava ghirlanda in capo di diversi fiori, e veste parimente tutta dipinta a fiori di colori diversi perché dicono che pochi sono i colori dei quali non si adorni la terra quando fiorisce».40
«Dice Lattanzio nel libro delle Divine Instituzioni Flora essere stata una donna, che con l'arte meretricia acquistò grandissime ricchezze, delle quali, morendo, lasciò erede il popolo Romano, serbando di quelle una parte; la quale ogni anno forse spera in dare usura, del cui guadagno voleva, che ogni anno si celebrasse il giorno del suo natale con alcuni giuochi, i quali furono detti giuochi Florali e sacrifici Florali da Flora. Il che, perciocché in processo di tempo parve al senato cosa viziosa, e non potendo romper ciò per timor della plebe, gli venne in mente pigliar argomento da esso nome di meretrice acciocché si aggiungesse dignità all'opra vergognosa, e indi finsero Flora essere Dea dei fiori, e far bisogno placarla con giuochi affine, che gli altri con le biade e con le viti fiorissero bene. Il qual colore seguendo Ovidio, fece ch'ella non ignobile Ninfa se maritasse in Zefiro, e per premio di dote ebbe in dono dallo sposo di esser Dea sopra i fiori».41

Figura 10: Ciro Spontone, La metoposcopia ouero Commensuratione delle linee della fronte ..., In Venetia, presso gli heredi dell'Imberti, 1645.
Tipografo: Eredi Ghirardo Imberti.
Marca: Flora avanza sospinta dal vento, tenendo nella mano destra un ramo e spargendo fiori e semi con la sinistra [MAR.T.E. n. 625].



 
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Fortuna
Divinità romana della buona e della cattiva sorte. Era venerata con innumerevoli epiteti e rappresentata in diversi modi: mentre governava una barca in quanto pilotava la vita degli uomini; sulla sfera, a simboleggiare l'instabilità delle cose; con in mano la cornucopia in quanto dispensatrice di beni.
«Cebete in quella tavola nella quale dipinse tutta la vita umana, fa la Fortuna una donna cieca, e pazza, che sta con i piedi sopra un rotondo sasso. Et Artemidoro l'ha posta alle volte a sedere sopra una distesa colonna, e la fa talora bella e ornata, e talora sozza e malvestita, e che tenga la mano a un timone di nave. E in questa guisa la vediamo spesso su le medaglie antiche, e negli antichi marmi. Galeno parimente, quando esorta i giovani allo studio delle lettere, così dice di costei: Volendoci gli antichi porre davanti agli occhi con pitture, e con statue le malvagità della Fortuna, non bastò loro farla in forma di femmina, che questo ben doveva esser assai per mostrare e ch'ella fosse pazza e malvagia, e che non istesse in un proposito mai; ma le aggiunsero una rotonda palla sotto i piedi facendola senza occhi, e dandole poi un timone in mano, come che alla cieca, e senza provvidenza alcuna governi le cose del mondo».42

Figura 11: Pietro Battista Borgo, De dominio ser.mae Genuensis reip. in mari ligustico libri II, Romae, excudebat Dominicus Marcianus, 1641.
Tipografo: Domenico Marciani.
Marca: Donna in mare sulla valva di una conchiglia tiene con le mani una vela spiegata al vento [MAR.T.E. n. 398].
Motto: Ventis dabo vela secundis.



 
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Giano
Divinità romana, protettrice delle porte e delle finestre e del corso dell'anno. Secondo Virgilio avrebbe costruito la fortezza sul Gianicolo. Inconfondibile fu la sua raffigurazione di essere bifronte, con due facce opposte: una rivolta avanti, l'altra indietro, quasi a simboleggiare il duplice aspetto delle cose, l'alternarsi del giorno e della notte, la partenza e il ritorno, il principio e la fine.
«Giano è il Sole, il quale non solamente apre la mattina e chiude la sera il dì, ma fa il medesimo di tutto l'anno ancora perché l'apre quando di Primavera fa che la terra comincia a produrre erbe e fiori, e tutta allegra dilata l'ampio seno, e serrarlo poi d'Inverno all'ora, che ella privata di ogni suo ornamento in sé stessa si ristringe, e stassene coperta di neve e di ghiaccio. Mostrano ancora le due faccie di Giano il tempo, che tuttavia viene: perciò l'una è giovane, ed è quello che già è passato, e l'altra è di maggior età e barbuta. [...] Fecero anco gli antichi la immagine di Giano con quattro facce, perché ne fu già trovata una così fatta stato a in certo luogo della Toscana. E mostrava questa molto bene, che chi la fece, tolse Giano per l'anno, il quale ha quattro occhi, perché quattro sono le stagioni che gli fanno mutare viso, e aspetto: Primavera, Estate, Autunno e Inverno».43

Figura 12: Relazione dell'esperienze fatte in Inghilterra ..., Bologna, per Manolessi, 1668.
Tipografo: Emilio Maria & Fratelli Manolessi.
Marca: In cornice: Giano quadrifronte con scudo con le iniziali EMP circondate dal motto [MAR.T.E. n. 1559].
Motto: Quis contra nos.



 
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Giove, Giunone, Vulcano, Nettuno
Marca comprendente la raffigurazione di quattro antiche divinità: Giove, in alto a sinistra, di fronte a Giunone, mentre sotto sono raffigurati Nettuno e Vulcano. Mentre Giove e Nettuno sono stati rappresentati singolarmente anche in altre marche tipografiche (v. in seguito), da una ricerca effettuata nel catalogo SBN non risulta che qualche editore seicentesco abbia utilizzato l'icona di Giunone o di Vulcano quale elemento decorativo della propria stamperia. «In questa marca la presenza di Nettuno, è riconducibile alle allegorie dei Quattro elementi dove l'aria è l'elemento sacro a Giunone, che la rappresenta solitamente accompagnata dal pavone, il fuoco è rappresentato da Vulcano e infine l'acqua rappresentata da Nettuno appunto, dio del mare e dei suoi abitanti, riconoscibile dal suo tridente, un forcone a tre rebbi spesso uncinati».44
Giunone
«Fu dato il Pavone a questa Dea, come uccello suo proprio, e consacrato a lei. Onde Paufania, descrivendo le cose che erano nel tempio di Giunone in certa parte della Grecia, dice che vi fu un Pavone fatto tutto d'oro e di lucidissime gemme, offerto e dedicato alla Dea da Adriano Imperatore come uccello a lei consacrato, di che oltre alla favola che si racconta di Argo, dicono essere la causa, perché le ricchezze tirano così a loro gli animi nostri, come il Pavone per la bellezza sua tira a se gli occhi dei riguardanti».45

Vulcano
«Dicono Volcano essere la virtù e il potere del fuoco, e gli fanno una statua in forma di uomo con un cappello in capo di color cilestre per segno del rivolgimento de' cieli, e appresso de' quali si trova il vero fuoco, puro, e sincero: cosa che non si può dire di questo che abbiamo noi, perché non si mantiene da sé, ma di continuo ha bisogno di nova materia, che lo nodrisca e sostenti. E fu finto Volcano zoppo, perché tale pare essere la fiamma, con ciò sia che ardendo non va su per lo dritto, ma si torce e si dibatte di qua e di là perché non è pura e leggera come farebbe di bisogno per ascendere dritta al luoco suo». [...] Vulcano lavorava nella fucina con i Ciclopi «perché ogni volta che gli Dei avevano bisogno di qual si fosse sorte d'arme o per loro stessi, o per altri, andavano da lui quasi dal fabbro loro, come vi andò Tetide per le armi di Achille suo figliuolo, e così fu fatto su l'arca di Cipselo, secondo che racconta Pausania, il quale non dà altro segno che colui che dava le armi a Tetide fosse Vulcano, se non ch'egli era zoppo e aveva dietro un de' suoi con una gran tenaglia in mano, e Venere parimente ebbe da lui le armi ch'ella diede poscia ad Enea».46

Figura 13: Jacobus Pamphylus, De sponsalibus et matrimonio liber ..., Venetiis, apud Ambrosium Dei, bibliopolam ad signum Deorum, 1606.
Tipografo: Ambrogio Dei.
Marca: In cornice: Giove e Giunone in cielo sorretti da nuvole, Vulcano nella sua officina, Nettuno in mare [MAR.T.E. n. 131].
Motto: Numina nomini virtus.



 
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Giove
Figlio di Saturno e di Rea, fratello di Nettuno e di Plutone; Giunone fu sua sorella e anche sua sposa. L'aquila fu la sua messaggera e il suo simbolo.
«Poche sono poi quelle statue di Giove alle quali non sia aggiunta l'Aquila in qualche modo, come uccello proprio di lui. E perciò dalle aquile è tirato sempre il carro di Giove, o sia perché, secondo che riferisce Lattanzio, egli pigliò buono augurio di vittoria dall'Aquila che gli apparve già mentre che andava a certa guerra (e dicono alcuni che fu contro Saturno) dalla quale ritornò vincitore, onde fu dapoi finto che nella guerra contra i Giganti, l'Aquila minìstrava le armi a Giove, e perciò la dipingono sovente con lui, che porta il fulmine con gli artigli, ovvero perché si legge che di tutti gli uccelli l'Aquila sola è sicura dalla saetta del Cielo, e che ella sola parimente affissa gli occhi al Sole; sì che a ragione ella è detta la Regina degli uccelli, e data a Giove Re parimente de i Dei».47

Figura 14: Galeazzo Gualdo Priorato, Relatione della citta, e stato di Milano ..., Milano, appresso Lodouico Monza, 1666.
Tipografo: Lodovico Monza.
Marca: Putto bendato a cavallo dell'aquila di Giove; con la mano destra sparge fiammelle [MAR.T.E. n. 208].
Motto: Hinc micat inde ferit.



 
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Giustizia
Divinità romana corrispondente all'Astrea e in parte (anche se non equivalente) alla Temi dei Greci; rappresentata come una maestosa matrona con spada e bilancia, spesso bendata.
La Giustizia è regina di tutte le virtù, «corona delle perfezioni d'ogni altra essendo quella che rende a ciascuno il suo, che cagiona la concordia negli animi, convenienza delle parti, la pace del pubblico, la moderazione del vivere. Ella raffrena l'intemperanza, orna la frugalità, resiste all'iniquità, difende l'innocenza, s'oppone alle scelleraggini, amplia la bontà, toglie la tirannide, costituisce la libertà, non teme la potenza, né disprezza l'umiltà, concilia ogni discordia, stabilisce ogni Repubblica».48
«Siede giovane bella con la bilancia in una mano e con la spada nell'altra per dare a ciascheduno, conforme ai meriti, o il premio o la pena. Donna si dipinge, perché benignamente ascolti, e umanamente punisca; di età vaga e fiorita, perché abbia parimente 1'animo candido e netto tra ogni sordidezza; mostra severità nella destra, ma pietà negli occhi. Distribuisce ai nobili l'onore, ai virtuosi la lode e il premio; ai mercatanti l'utile; ai faticanti la mercede; lo stipendio ai soldati; ai misfatti la pena dovuta».49

Figura 15: Statuta Rhodigij, Lendenariae, & Abbatiae ..., Venetiis, ex thypographia ducali Pinelliana, 1648.
Tipografo: Pinelli.
Marca: La Giustizia, con una spada nella mano destra ed una bilancia nella sinistra, siede sopra due leoni [MAR.T.E. n. 1443].



 
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Grifoni
Uccelli con testa armata di un becco d'aquila, con corpo di leone. Consacrati ad Apollo, del quale conservano i tesori contro gli attacchi degli Arimaspi, nel deserto di Scizia.
«Se miri il Grifone all'ali e alla testa ha d'Aquila forma, se lo guati nell'altre parti ha di Leone sembianza, quasi che in lui abbia voluto unire la natura di due capi d'animali terreni e aerei la fortezza, e maestà, e farlo poi custode colà nella Scitia dei tesori della terra contra gli Arimaspi Ciclopi, i quali avari e sitibondi dell'oro guerreggiano con detti animali e uccelli per quindi trarlo dalle miniere profonde ad uso e piacer loro».50
«I Grifi, avendo il rostro d'Aquila, sono Impresa della superbia di coloro che ogni altro dispreggiano. Alle volte si congiungono col Leone, per significar che con la forza è congiunta l'iracundia. Alle volte col Cavallo, Impresa di annunziar guerra, come dice il Iacobino nell'Appendice della Gente Cesia. Spesso ponno significar custodia, da quel che si racconta, che custodiscono l'oro nelle miniere, e che per ciò combattono con gli Arimaspi».51

Figura 16: Juan Bautista de Lezana, Reformatio Regularium, seu De disciplina religiosa ..., Romæ, sumptibus Io. Antonij Bertani, ex typographia Andreæ Phæi, 1646.
Tipografo: Andrea Fei.
Marca: In cornice figurata: un grifone con la zampa destra poggiata su di un libro con due fermagli, siede su un piedistallo. La marca è di Giovanni Antonio Bertano [MAR.T.E. n. 1264].



 
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Icaro
Riuscì a fuggire col padre Dedalo dal labirinto di Creta nel quale erano stati rinchiusi da Minosse, grazie alle ali fatte con cera. Non ascoltando i consigli del padre, Icaro si levò così in alto nel cielo che il calore del sole sciolse la cera facendolo precipitare nel mare che circonda l'isola di Samo e che da quel momento prese il nome di Mar Icario.
« A cader và chi troppo in alto sale, scrisse il Poeta; lo seppe per esperienza l'infelice Icaro favoloso, il quale troppo ardito sprezzando gli avvisi di Dedalo padre, fece che l'ali, che dovevano servire al solo trasportamento del corpo, servissero alla giovenil voglia, di cui acceso sorvolando più del dovere, si liquefecero le piume incerate vicino all'ardore de' raggi solari, perché cadde precipitosamente nel mare, e morendo venne a vivere insieme nell'acque che col nome ritengono viva la memoria di lui, e ai giovani inesperti rammemorando l'occorso caso, dà loro a vedere quanto importi lo sprezzare i consigli de' maggiori».52

Figura 17: Lorenzo Ducci, Arte aulica di Lorenzo Ducci ..., Ferrara, appresso Vittorio Baldini, stampatore camerale, 1601.
Tipografo: Vittorio Baldini.
Marca: In cornice figurata: Icaro in volo sopra il labirinto. Catalogata in MAR.T.E. al n. 273, ma senza la cornice.
Motto: Nil difficile volenti.



 
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Idra
Serpente con almeno sette teste, viveva nei pressi di Lerna in Argolide e devastava raccolti e greggi. Ogni volta che un eroe tagliava una delle sue teste, ne rinascevano due: Ercole le bruciò con tronchi d'albero accesi; tagliata l'ultima testa, che era immortale, la sotterrò col corpo ponendovi sopra un grande masso. Questa fu la seconda delle dodici fatiche.
«Vibra colà nella palude Lernea l'Hidra fiero serpente sette capi, alla cui vista anche lontano tremava qual più coraggioso vivesse. Erano le vicine campagne abbandonate dagli abitanti, cedevano l'altre fiere alla furia d'una più crudele, e più micidiale, e i più mansueti animali divenuti preda di quella restavano per vivanda a satollare l'ingordigia e voracità d'un tal mostro. Quando Ercole ardito le andò a fronte, recidendo le teste stagnò la piaga col fuoco, e rese sterile il sangue che indi nove teste non germogliassero. Scrissero alcuni avere quella avuto nove capi, alcuni altri cinquanta, volendo forse accennare il maggior numero a ch'ella giugnesse, fino che Ercole del fatto accorto impedì le moltiplicazione di essi col levare la virtù al sangue da cui quelli pullulavano».53

Figura 18: Johann Nider, Consolatorium timoratae conscientiae ..., Romae : apud Stephanum Paolinum, 1604.
Tipografo: Stefano Paolini.
Marca: In cornice figurata: Idra con sei delle teste mozzate; accanto una fiaccola accesa. [MAR.T.E. n. 352].
Motto: Urit Veritas.



 
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Laocoonte
Sacerdote di Apollo a Troia, ebbe due figli da Antiope. Sconsigliò ai Troiani di introdurre il cavallo di legno lasciato sulla spiaggia dai Greci e anzi lo colpì col bastone; ma due serpenti, usciti dal mare, si lanciarono sui figli del sacerdote soffocandoli insieme al padre, che era accorso in loro difesa.
«Afferma Papia che Lacoonte fu figliuolo di Priamo e Sacerdote d'Apollo. [...] Dice Virgilio che costui fu quello che con un'asta percosse il cavallo di legno fabbricato da Greci, e che per ciò due suoi piccioli figliuoli furono divorati da due serpi, ed egli anco da quelli ritrovato fu preso e vinto; ma, che da quelli fosse morto, non se ne ha certezza, né altro si ritrova».54

Figura 19: Paolo Aresi, Oratione in lode di san Carlo cardinale di s. Prassede ..., Firenze, appresso Volcmar, e Lodouico Timan, 1611.
Tipografo: Volcmar & Lodovico Timan.
Marca: Laocoonte e i suoi figli tra le spire dei due serpenti. Catalogata in MAR.T.E. al n. 470, col motto ai lati della marca.
Motto: Morte fidem tueor.



 
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Mercurio
Dio del commercio e degli affari, successivamente venne identificato con l'Ermes dei Greci, divenendo messaggero degli dei oltre che accompagnatore dei defunti nell'oltretomba. Ha come attributi il caduceo, il cappello a larghe tese, i sandali alati, ma anche una borsa, simbolo del guadagno che deriva dal commercio.
«Nel libro delle anticaglie raccolte da Pietro Appiano si vede che fu già fatto per Mercurio, un giovane senza barba, con due alette sopra le orecchie, tutto nudo, se non che dagli omeri gli pendeva di dietro un panno non troppo grande, e teneva con la destra mano una borsa appoggiata sopra il capo di un capro che gli giaceva ai piedi insieme con un gallo, e nella sinistra aveva il caduceo. Quello era insegna propria di Mercurio, come l'avere anco l'ali in capo e ai piedi: onde i Poeti quasi tutti lo disegnano in questo modo, facendo che egli abbia le penne ai piedi, le quali chiamano talari, e in mano il caduceo da loro detto verga, perché da principio fu semplice verga quando ei l'ebbe da Apollo in cambio della lira che donò a lui, come raccontano le favole, allora che dopo le rubate vacche si rappacificarono insieme».55
«Mercurio rubò ben fanciulletto a Vulcano gli strumenti di fabbro, ad Apollo l'armento d'Ameto, a Venere la cintola, a Giove lo scettro, gli avrebbe anco levato la saetta folgore, se temuto non avesse le fiamme: egli toglie con la sua verga l'anime dai corpi e le conduce di notte all'Inferno, di giorno va su e giù Messaggere del Cielo, Conciliatore degli animi, Interprete delle voglie, Portatore di tregua e di pace, Giudice di misure, Aggiustatore di pesi, Venditore di merci, Curatore d'infermi».56

Figura 20: Camillo Rinuccini, Descrittione delle feste, fatte nelle nozze ..., Bologna, presso gli heredi di Giouanni Rossi, 1608.
Tipografo: Eredi Giovani Rossi.
Marca: Mercurio, con i calzari alati e il petaso, poggia il piede sul globo terrestre, punta verso l'alto con l'indice della mano e tiene nella destra il caduceo. [MAR.T.E. n. 715].



 
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Minerva
Inizialmente immaginata come protettrice di ogni attività artigiana, ben presto divenne simbolo della sapienza e dell'ingegno, assunse il compito di tutrice delle libertà cittadine non senza un chiaro carattere guerriero.
«Minerva, dopo l'aver mutato i capelli della testa di Medusa in tanti serpenti, applicò quella testa al suo scudo, onde ella così venisse a rendersi più formidabile ai suoi nemici, il perché lo scudo d'essa Minerva si vede col capo della Gorgone».57
«È comune opinione, che gl'Antichi nell'immagine di Minerva con l'olivo appresso volessero rappresentare la Sapienza [...]. Lo Scudo con la testa di Medusa, dimostra che il sapiente deve troncare tutti gli abiti cattivi da sé stesso, e dimostrarli, insegnando a gl'ignoranti, acciò che li fuggano e che si emendino. L'olivo dimostra che dalla sapienza nasce la pace interiore ed esteriore».58
Rispetto a Bellona, Minerva «fu differente almeno di imagine; [a questa] Apuleio mette sopra l'elmo una ghirlanda di ulivo, che questo arbore fu dato come proprio a lei dagli antichi, perché ella ne fu ritrovatrice, come la chiama anco Virgilio, e come racconta la favola della contesa, che fu tra lei e Nettuno sopra il possesso di Atene; ove Erodoto scrive che fu il medesimo ulivo che Minerva fece nascere allora, e che abbruciò insieme con la Città abbruciata già dai Persi, ma che lo stesso dì anco rigermogliò, e crebbe all'altezza di due cubiti. E dicono alcuni che fu così finto perché Minerva fu la prima che mostrasse il modo di spremere l'olio dalle ulive, e anco perché non si può acquistare le scienze senza frequente studio e lunghe vigilie».59
Figura 21: Fortunio Liceti, De monstris. Ex recensione Gerardi Blasii ..., Patavii, apud haeredes Pauli Frambotti, 1668.
Tipografo: Eredi Paolo Frambotto.
Marca: Minerva tende il braccio destro verso un ulivo e tiene con la mano sinistra lo scudo [MAR.T.E. n. 947].
Motto: Pacis opus.



 
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Nettuno
Dio romano che non possedette una propria leggenda fin quando non venne identificato con Poseideone, dio che regnava sul mare, figlio di Crono e di Rea.
«Nettuno, al quale toccò per sorte il regno delle Acque, e perciò fu detto Dio del mare, lo dipinsero gli antichi in diversi modi facendolo ora tranquillo, quieto, e pacifico, e ora tutto turbato, come si vede appresso di Homero e di Vergilio, perché tale si mostra parimente il mare secondo la varietà de' tempi. E l'hanno messo alle volte gli antichi con il tridente in mano, e dritto in pié in una gran conca marina, la quale a lui sia in vece di carro, tirato da cavalli che dal mezzo in dietro erano pesci, come sono descritti da Stazio».60
«Il Tridente dimostra le tre nature dell'acqua, perché quelle dei fonti e fiumi sono dolci, le marine sono salse e amare, e quelle de' laghi non sono amare, neanco grate al gusto. Gli è attribuito il carro per dimostrare il suo movimento nella superficie, il quale si fa con una rivoluzione e rumore, come proprio fanno le ruote d'un carro. È tirato detto carro da ferocissimi Cavalli, per dimostrare che Nettuno è stato il ritrovatore d'essi, come dicono i Poeti, percotendo la terra con il Tridente, ne fece uscire un cavallo, e come racconta Diodoro fu il primo che li domasse».61

Figura 22: Rodomontes Laurentius, De vitae humanae catastrophe ex pestilentia ..., Pisauri, typis Ioannis Pauli de Gottis, 1649.
Tipografo: Giovanni Paolo de Gotti.
Marca: Nettuno, in mezzo al mare, colpisce con il tridente un mostro marino con la testa di cavallo [MAR.T.E. n. 666].



 
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Orfeo
Cantore greco, figlio della musa Calliope, sposo di Euridice. Il suo canto era così toccante che non solo incantava gli esseri umani, ma inteneriva inoltre gli animali e commuoveva anche la natura inanimata.
«Presa per moglie Euridice da Orfeo, figlia d'Apollo e Calliope, quando credeva viver vita beata, morì Euridice morsicata da un serpe. Orfeo però confidato nel suo canto, scese all'Inferno, ove con la dolcezza seppe ammollir Plutone, e ricuperar Euridice, ma con legge di non guardarla, se prima non uscia dall'abisso; il che non osservato, li fece riperder Euridice. Disperando Orfeo la ricuperata della sua Euridice, ritirossi in un monte della Tracia ove con la dolcezza del suono e del suo canto fermava i fiumi, facea inchinar gl'alberi ed umiliar le fiere».62

Figura 23: Cesare Carena, Tractatus de modo procedendi in causis S. Officii ..., Cremonae, apud Marc'Ant. Belpierum, 1636.
Tipografo: Marco Antonio Belpieri.
Marca: In cornice figurata: Orfeo, con una corona d'alloro sulla testa, suona la viola in mezzo al bosco ed incanta gli animali [MAR.T.E. n. 901].
Motto: Coelestis vis in virtute.



 
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Pace
Dea allegorica dei Romani, corrispondente alla greca Irene, la più giovane delle Ore, figlie di Zeus e di Temi; fu per i Greci e per i Romani dea e personificazione dell'armonia.
«Gli antichi alle volte per la Pace, come si vede in alcune medaglie antiche, fecero una donna, qual teneva con mano una spiga di formento. E la coronavano talora dì ulivo, e alle volte di lauro. E vedesi ancora in alcune medaglie antiche la Pace con ghirlanda di rose. Ma benché siano i nomi diversi, e ne fossero ancora fatte diverse imagini, nondimeno mi pare che la Pace e la Concordia siano una medesima cosa, e furono l'una e l'altra adorate dagli antichi, acciocché dessero loro vita quieta e riposata».63
«L'oliva si dà in segno di pace, per unita testimonianza degl'antichi e moderni, così leggiamo ch'Enea essendo per smontare nelle terre di Evandro in Italia, per assicurare il figliuolo del Re, che sospettoso gli veniva incontro, si fece fuora con un ramo d'olivo in mano, e il giovane subito si quietò, oltre ad infinitissimi altri esempi, per li quali tutti basti questo».64

Figura 24: Giovanni Belloni, Discorso intorno all'antro delle ninfe Naiadi di Homero ..., Padova, appresso Francesco Bolzetta libraro dell'Academia, nella stamparia di Lorenzo Pasquati, 1601.
Tipografo: Lorenzo Pasquati.
Marca: In cornice figurata: una donna seduta tiene un ramo d'ulivo nella mano destra e poggia il braccio sinistro sul basamento di una colonna con la scritta: Pax. La marca è quella di Francesco Bolzetta [MAR.T.E. n. 76].



 
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Salamandra
La salamandra era capace di attraversare il fuoco indenne perché «è tanto fredda che spegne il fuoco come lo tocca come se fosse ghiaccio. Escegli di bocca un umore simile al latte, e dove tocca il corpo umano non vi nascono peli, e il luogo tocco muta il colore in vitilagine».65
«Nè Aristotele né Plinio dicono della Salamandra altro se non che ella ammorza il fuoco alla volta del quale va con molto ardire, come contra suo nimico. [...] La Salamandra non è animale di quei che nascono nel fuoco, quali sono i Pirigoni: ma è bene tanto ardita, che gli va incontro, e affrontando la sua fiamma, come suo certo nimico, si sforza in tal modo di spegnerla».66
«Vivono di terra le Talpe, le Botte, i Vermi e altri animali terrestri; vivono d'acqua le Cappe, le ConchigIie e altri, si fatti pesci d'acqua, volano più tosto nell'aria di quello, che vivano d'aria gli Uccelli, bene si nutriscono di essa i Camaleonti; e i Pirausti, o Pirigoni, e le Salamandre stanziano nel fuoco senza nocumento. E se ciò ragion non apprende, non è maraviglia che altre tali maraviglie si veggono in natura, di cui l'intelletto non resta affatto capace».67

Figura 25: Decretum Gratiani, emendatum, et notationibus illustratum ..., Taurini, apud Nicolaum Beuilaquam, 1620.
Tipografo: Niccolò Bevilacqua.
Marca: In cornice figurata: salamandra coronata in mezzo alle fiamme [MAR.T.E. n. 1545].



 
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Tre Grazie
Divinità della bellezza, del fascino e della felicità. In origine si veneravano ad Atene e Sparta solo due Grazie anche se di solito se ne nominavano tre: Aglaia, Eufrosine, Talia.
«Dice il medesimo Pausania che tutti quelli li quali posero in Delo con le statue di Mercurio, di Bacco e di Apollo le Grazie, le fecero tre, che tre parimente erano allo entrare della rocca di Athene. Onde comunemente è stato tenuto poi sempre, che siano tre, perché non si dee rendere il beneficio tale quale l'abbiamo ricevuto, ma maggiore assai; e molte volte duplicato. Da che viene che di loro una sta con le spalle verso noi, e due ci guardano, dandoci perciò ad intendere che nel ricambiare il bene fattoci abbiamo da essere più liberali assai che quando siamo noi i primi a fare beneficio altrui, qual non si dee però fare aspettandone rimunerazione, perché chi questo fa, usuraio piuttosto può essere detto che liberale benefattore».68
«Tre fanciullette coperte di sottilissimo velo, sotto il quale appariscono ignude, così le figurarono gli antichi Greci, perché le Grazie tanto sono più belle si stimano, quanto più sono spogliate d'interessi i quali sminuiscono in gran parte in esse la decenza e la purità; perciò gli Antichi figuravano in esse l'amicizia vera».69

Figura 26: Giacomo Menochio, De praesumptionibus, coniecturis, signis, & indicijs, commentaria ..., Venetiis, apud haeredem Hieronymi Scoti, 1609.
Tipografo: Erede Girolamo Scoto.
Marca: In cornice figurata: le tre Grazie in un palmeto [MAR.T.E. n. 1129]. Putto bendato a cavallo dell'aquila di Giove; con la mano destra sparge fiammelle [MAR.T.E. n. 208].
Motto: Virtus in omni re dominatur.



 
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Vittoria
Personificazione romana della vittoria, corrispondente alla Nike dei Greci, riverita come dea soprattutto dai generali vittoriosi.
«Donna di faccia verginale, e voli per l'aria, con la destra mano tenga una ghirlanda di lauro, overo di olivo, e nella sinistra una palma, con l'Aquila sotto a' piedi, la quale tiene nelle zampe un ramo pur di palma, e il vestimento si farà di color bianco, con la clamidetta gialla. Il lauro, l'olivo e la palma furono dagli Antichi usati per legno di onore, il quale volevano dimostrare doversi a coloro che avessero riportata vittoria de nemici in beneficio della Patria».70
Il simulacro della Vittoria «fu fatta per lo più da gli antichi con l'ali in forma di bella Vergine, che se ne voli per l'aria, e con l'una mano porga una corona di Lauro, ovvero di bianco UIivo, e nell'altra tenga un ramo di Palma, come nelle antiche medaglie si vede, e ne' marmi antichi, e talora la veggiamo con la corona sola, e talora col solo ramo della Palma. La fecero sovente i Romani col ramo del Lauro in mano, perché ebbero anco quello solo per segno di Vittoria, e lo mettevano con quelle lettere, che ne portavano le novelle, e facendosi allegrezza di qualche Vittoria andavano a porne alcune foglie nel grembo di Giove Ottimo Massimo, e i più degni Capitani trionfando se ne facevano corona».71

Figura 27: Fabiano di Edolo, Il superiore in visita ideato non solo per superiori ..., Venetia, appresso Paolo Antonio Sanzonio, 1695.
Tipografo: Paolo Antonio Sanzogno.
Marca: La Vittoria alata tiene con la mano destra una corona d'alloro, con la sinistra un ramo di palma circondato da un nastro con la scritta: Vittoria [MAR.T.E. n. 1127].



 
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Zefiro
Personificazione greca del vento dell'Est. Per i Romani era messaggero della Primavera; da qui il perché lo chiamavano Favonio.
Dei venti citati (Borea, Noto, Euro, Zefiro), «il quarto, il cui lieve spirare si sente con una aura temperata, e soave dall'Occidente, è Zefiro, o Ponente secondo i moderni, il quale perciò di primavera veste la terra di verdi erbe, e fa fiorire i verdeggianti prati. Onde venne che le favole lo finsero marito di Flora. [...] Egli è giovane, di faccia molle e delicata, ha le ali agli omeri, e in capo una ghirlanda di belli e vaghi fiori».72
«Dice Isidoro nel libro delle Origini [...] che Zefiro soffia da Occidente, così chiamato perché i fiori e l'erbe dal suo spirare sono renduti vivi; e l'istesso latinamente è detto Favonio, perché favorisce alle cose che nascono».73

Figura 28: Bartolomeo Rossi, Hieroglyphica symbola ..., Veronae, apud Andream de Rubeis, 1612 (Veronae, ex Angeli Tami officina, 1612).
Tipografo: Angelo Tamo.
Marca: Zefiro soffia su di un uccello nel nido. La marca è quella di Angelo Tamo [MAR.T.E. n. 1409].
Motto: Flante citius hoc.



L. T.






Note

1 G. Boccaccio, Libro di m. Gio. Boccaccio delle donne illustri, tradotto per messer Giuseppe Betussi. Con vna additione fatta dal medesimo delle donne famose dal tempo di m. Giouanni fino a i giorni nostri ..., In Vinegia : per Comin da Trino di Monferrato, a instanza di m. Andrea Arriuabene al segno del pozzo, 1545.torna su
2 Consilia feudalia ex variorum doctorum scriptis diligentissime collecta. ..., Venetiis, apud Cominum de Tridino Montisferrati, 1572. torna su
3 G. Contarini, La republica, e i magistrati di Vinegia, di M. Gasparo Contarino, nouamente fatti uolgari, In Vinegia, appresso Girolamo Scotto, 1544. È rappresentata una donna con tromba e scudo in mano, mentre ai lati sono appoggiate due faretre; in alto Mercurio le poggia corona su testa. Motto: Famam extendere factis est virtutis opus. torna su
4 Terenzio, P. Terentii Afri ... Comoediae, Andria, Eunuchus, Heautontimorumenos, Adelphi, Hecyra, Phormio ..., Venetiis, apud Hieronymum Scotum, 1545. Motto: Caedit iniquos. Alla base dell'albero le iniziali S.O.S. (Signum Octaviani Scoti). torna su
5 Philoponus Ioannes, Ioannis Grammatici cognomento Philoponi Libri duo de viginti aduersus totidem Procli successoris rationes de mundi aeternitate, ad octauum Physicorum Aristotelis librum attinentes ..., Venetiis, apud Hieronymum Scotum, 1551. La marca, presente anche nel colophon, è composta da un'ancora che unisce rami di palma e di olivo germoglianti da tronco, congiunti in basso dalla sigla SOS; sul tronco è un ramo fiorito, dei favi e delle api. Motto: In tenebris fulget. torna su
6 P. Sacrati, Epistolarum Paulli Sacrati canonici Ferrar. libri quinque. ..., Ferrariae, in aedibus Victorij Baldini, 1579. Motto: Etiam crescet. torna su
7 O. Lombardelli, Discorso intorno ai contrasti, che si fanno sopra la Gierusalemme liberata di Torquato Tasso ..., Ferrara, appresso Vittorio Baldini stampator ducale, 1586. Motto su due lati della marca: Nil difficile volenti. torna su
8 F. de La Noue, Del modo di vincere i turchi et scacciarli d'Europa con la lega dei prencipi christiani ..., Ferrara, appresso Vittorio Baldini, 1600. torna su
9 G. Zappella, Il libro antico a stampa, I, Milano, Editrice Bibliografica, 2001, p. 560. torna su
10 G. de Mandagot, Tractatus de electionibus nouorum praelatorum vtilis et necessarius ..., Coloniae Agrippinae, apud Theodorum Baumium, sub signo Arboris, 1573. Motto nella cornice: Fructus hominis iusti lignum vitae. torna su
11 G. B. Zapata, Li marauigliosi secreti di medicina, e chirurgia, di nuouo ritrouati, per guarire ogni sorte d'infermità ..., In Venetia, appresso Gio. Battista Bonfadino, 1618. torna su
12 C. Rao, L'argute, et facete lettere di M. Cesare Rao di Alessano metropoli città della Leucadia. ..., Trento, per Gio. Battista e Giacomo fratelli Gelmini, 1585. torna su
13 F. Loredano, Bizzarrie academiche di Gio. Francesco Loredano nobile veneto, Cremona, dal Belpieri, 1640. torna su
14 R. Campeggi, Il Tancredi tragedia di Ridolfo Campeggi nell'Academia de i Gelati il Rugginoso ..., Bologna, appresso Bartolomeo Cochi, 1614. torna su
15 Qui si fa riferimento a: A. Doria, Compendio d'Antonio Doria delle cose di sua notitia et memoria occorse al mondo nel tempo dell'imperatore Carlo V, Genoua, appresso Antonio Bellone, 1571. torna su
16 O. di Lasso, Secondo libro delle muse, a cinque voci, madrig. D'Orlando di Lassus con vna canzone del Petrarca, Roma, appresso Antonio Barrè, del mese d'agosto 1557. torna su
17 Psalterium Hebraeum, Graecum, Arabicum, & Chaldaeum cum tribus Latinis interpretationibus & glossis, Genuae, impressit miro ingenio Petrus Paulus Porrus, in aedibus Nicolai Iustiniani Pauli ..., 1516 mense VIIIIbri. torna su
18 A. Bendinelli, Quae inter Antonium Bendinellium et Carolum Sigonium non conueniant, in libro De vita et rebus gestis P. Scipionis Aemiliani, Lucae, apud Vincentium Busdracum, 1569. torna su
19 N. Bohier, Decisiones Burdegalenses Nicol. Boerii summa diligentia et eruditioe collectae et explicatae ..., Lugduni, apud Antonium Vincentium, 1567. torna su
20 A. Alciati, Diuerse imprese accommodate a diuerse moralità, con versi che i loro significati dichiarano. Tratte da gli Emblemi dell'Alciato, Lione, per Masseo Buonhomo, 1549. A questa seguirono diverse edizioni fino a quella padovana del Tozzi, 1626. torna su
21 S. Bargagli, La prima parte dell'imprese di Scipion Bargagli doue; dopo tutte l'opere cosi a penna, come a stampa, ch'egli ha potuto vedere di coloro, che della materia dell'imprese hanno parlato; della vera natura di quelle si ragiona, Siena, appresso Luca Bonetti, 1578, cui seguirono altre edizioni fino ai due volumi stampati in Venezia da Gio. Battista Ciotti senese nel periodo 1600-1610. torna su
22 G. C. Capaccio, Delle imprese trattato di Giulio Cesare Capaccio. In tre libri diuiso. .., Napoli, ex officina Horatij Saluiani, appresso Gio. Giacomo Carlino, & Antonio Pace, 1592. torna su
23 V. Cartari, Le Imagini con la spositione de i Dei de gli antichi. Raccolte per Vincenzo Cartari, Venetia, per Francesco Marcolini, 1556, cui seguirono numerose edizioni fino a quella veneziana del 1674 uscita dai torchi di Nicolò Pezzana. torna su
24 C. Ripa, Iconologia ouero descrittione dell'imagini uniuersali cauate dall'antichita et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino ..., Roma, per gli heredi di Gio. Gigliotti, 1593. L'ultima delle successive edizioni fu quella in cinque volumi del 1764-1767 stampata a Perugia da Piergiovanni Costantini. torna su
25 C. Jannaco, M. Capucci, Il Seicento, Milano, F. Vallardi, 19863 , p. 892. torna su
26 C. Ripa, Della novissima iconologia di Cesare Ripa Perugino ... Parte prima [-seconda], Padova, Pier Paolo Tozzi, 1625, p. 1. torna su
27 G. Ferro, Teatro d'imprese di Giouanni Ferro all'ill.mo e r.mo cardinal Barberino. Parte prima [-seconda], II, Venetia, appresso Giacomo Sarzina, 1623, p. 114. torna su
28 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 61. torna su
29 V. Cartari, Le imagini de gli dei de gli antichi del signor Vincenzo Cartari reggiano, nelle quali sono descritte la religione de gli antichi ..., Venetia, appresso Euangelista Deuchino, 1624, p. 301. torna su
30 G. Boccaccio, Della geneologia de gli Dei di m. Giovanni Boccaccio libri quindeci ..., Venetia, per il Valentini, 1627 (http://www.liberliber.it), p. 273. torna su
31 G. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 383. torna su
32 G. Ruscelli, Le imprese illustri con espositioni, et discorsi del s.or Ieronimo Ruscelli. ..., Venetia, appresso Francesco Rampazzetto, 1566, pp. 377-378. torna su
33 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 289. torna su
34 G. Boccaccio, Della geneologia de gli Dei cit., p. 91. torna su
35 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 218. torna su
36 G. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 307. torna su
37 Ivi, pp. 311-312. torna su
38 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 345. torna su
39 G. C. Capaccio, Delle imprese trattato di Giulio Cesare Capaccio. In tre libri diuiso ..., Napoli, ex officina Horatij Saluiani, appresso Gio. Giacomo Carlino, & Antonio Pace, 1592, pp. 99-100. torna su
40 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 222. torna su
41 G. Boccaccio, Della geneologia de gli Dei cit., p. 152. torna su
42 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 391. torna su
43 Ivi, p. 34 e 37. torna su
44 M. Iafelice, Marche dei tipografi e degli editori del XVII secolo (Milano-Venezia), «La Capitanata», n. 19, marzo 2006, pp. 245-278: 264. torna su
45 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 153. torna su
46 Ivi, p. 319 e 322. torna su
47 Ivi, p. 137. torna su
48 F. Origlia, Lo zodiaco over Idea di perfettione di prencipi ... Raccolta per Francesco Orilia ..., Napoli, appresso Ottavio Beltrano, 1630, pp. 101-102. torna su
49 G. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 373. torna su
50 Ivi, p. 386. torna su
51 G. C. Capaccio, Delle imprese cit., p. 109. torna su
52 G. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 409. torna su
53 Ivi, p. 400. torna su
54 G. Boccaccio, Della geneologia de gli Dei cit., p. 202. torna su
55 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., pp. 261-262. torna su
56 G. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 481. torna su
57 C. Camilli, Imprese illustri di diuersi, coi discorsi di Camillo Camilli, et con le figure intagliate in rame di Girolamo Porro padouano. Parte prima, II, Venetia, appresso Francesco Ziletti, 1586, p. 2. torna su
58 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 582. torna su
59 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 302. torna su
60 Ivi, p. 217. torna su
61 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 90. torna su
62 F. Bardi, Ovidio istorico, politico, morale brevemente spiegato, e delineato con artificiose figure, Venezia, presso Girolamo Albrizzi, 1696, pp. 65-66. torna su
63 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 264. torna su
64 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 66. torna su
65 Plinius Secundus Gaius, Historia naturale di C. Plinio Secondo di latino in volgare tradotta per Christophoro Landino ..., Stampato in Vineggia, per Thomaso de Ternengo ditto Balarino, 1534, cap. 67, p. 223. torna su
66 C. Camilli, Imprese illustri cit., I, pp. 30-31. torna su
67 G. Ferro, Teatro d'imprese cit., II, p. 610. torna su
68 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., pp. 494-495. torna su
69 C. Ripa, Della novissima iconologia cit., p. 285. torna su
70 Ivi, p. 729. torna su
71 V. Cartari, Le imagini de gli dei cit., p. 332. torna su
72 Ivi, p. 222. torna su
73 G. Boccaccio, Della geneologia de gli Dei cit., p. 148. torna su