Vincenzo Vitale
L'epistola dedicatoria della summontina come finale dell''Arcadia' di Sannazaro
Nessuna parola, in una dedica, è innocente
In questo saggio tenterò di estinguere ogni ragionevole dubbio sul fatto che la lettera dedicatoria dell'Arcadia, recante in calce la firma di Pietro Summonte, è in realtà opera di Jacopo Sannazaro. L'indagine partirà dal riconoscimento nel testo di una tessera tratta dall'epistola dedicatoria della Raccolta aragonese, che, se inserita in una rete di altre evidenze indiziarie, può condurre a una piccola rivoluzione di paradigma nell'interpretazione della dedica di Summonte, nonché alla fissazione di alcuni corollari teorici di non secondaria importanza.
Inizio delineando i termini della storia editoriale dell'Arcadia invalsi nella critica sannazariana.1 L'editio princeps dell'Arcadia esce a Napoli nel 1504 presso l'editore Sigismondo Mayr. Il volume si apre con una lettera dedicatoria firmata da Summonte, editore anche dell'opera omnia di Pontano (1505-1512) e di Tutte le opere volgari di Cariteo (1509). Qui l'umanista napoletano fornisce ragguagli circa la situazione editoriale in cui era venuta alla luce l'opera. In apertura egli informa il dedicatario dell'edizione, il «Reverendissimo et Illustrissimo» (Dedica, 1) cardinale Luigi d'Aragona,2 della ragione che lo ha spinto a curare l'edizione a stampa dell'opera dell'amico: lo sdegno verso la Fortuna, «cieca dea» (Dedica, 2) che, non paga di aver sconvolto ripetutamente il Regno di Napoli, facendolo passare in pochi anni, tra il 1495 e il 1503, da mano aragonese alla dominazione francese e spagnola, arrivava a «extendere la sua perniciosa mano» (Dedica, 1) sui frutti del lavoro letterario che «per vincere la morte la umana industria avea trovato» (ibid.).
Il riferimento è alla stampa pirata della prima redazione del prosimetro, il Libro pastorale nominato Arcadio, uscita a Venezia il 14 giugno e poi il 22 novembre 1502 presso lo stampatore Bernardino Rosso senza l'autorizzazione dell'autore.3 La prima redazione dell'opera, composta da un prologo, dieci prose e dieci ecloghe, era circolata fino a quel momento in forma manoscritta. In particolare tra il 1486 e il 1488 (probabilmente nella primavera del 1486) Sannazaro si era deciso a inviare una copia di dedica,4 il Vat. Barb. Lat. 3964, a Ippolita Maria Sforza,5 già dedicataria del Novellino di Masuccio e moglie del principe Alfonso duca di Calabria, presso il quale il poeta prestava servizio come cortigiano. Alla pubblicazione del Libro pastorale nominato Arcadio, redazione manifestamente incompiuta dell'Arcadia,6 non seguì mai un'edizione a stampa autorizzata da Sannazaro, che venne informato della pubblicazione veneziana del 1502 solo il 3 febbraio del 1503 da Iacopo d'Atri, corrispondente di Isabella d'Este, al quale, costernato, chiese di fargli inviare una copia «affinché si potesse correggere et provedere ad tanto errore».7
Sannazaro si trovava allora in Francia, a Blois, dove si era recato in esilio volontario salpando da Ischia il 2 ottobre del 1501 al séguito dell'ultimo re della dinastia aragonese, Federico d'Aragona, figlio di Ferdinando e fratello di Alfonso Duca di Calabria.8 Il poeta sarebbe tornato in patria solo dopo la morte del re, avvenuta a Tours il 9 novembre 1504, quindi dopo la pubblicazione napoletana dell'editio princeps dell'Arcadia. Al momento della pubblicazione pirata del Libro pastorale nominato Arcadio Sannazaro si trovava dunque in Francia, come si legge anche nella lettera dedicatoria:
mentre egli in Francia dimora, per non mancare al vero officio di perfetto et onorato cavaliero in seguitare la adversa fortuna del suo re in quelle parti, furono or son tre anni impresse in Italia le sue colte e leggiadrissime ecloghe tutte deformate e guaste, senza che lui di ciò avesse notizia alcuna (Dedica, 2).
Summonte, per affetto verso l'amico, si proponeva così con l'edizione dell'Arcadia del 1504 di rimediare alla pubblicazione di un'opera piena di «errori intolerabili» (Dedica, 3) e soprattutto «non fornita» (ibid.), cioè non ultimata e priva della conclusione. Garanzia di fedeltà alla volontà definitiva dell'autore sarebbe stato l'autografo «correttissimo» (ivi, 4) che Sannazaro avrebbe lasciato prima di partire per la Francia al fratello Marco Antonio. Congedandosi da Luigi d'Aragona il dedicante esprimeva l'augurio che Sannazaro, ancora trattenuto in Francia dai marosi della fortuna, potesse almeno trarre conforto dal vedere il frutto del suo impegno letterario, l'Arcadia, dopo tante sfortunate vicissitudini (le apparizioni intempestive in terra veneziana), raggiungere l'approdo, con l'edizione del 1504, della cara patria, Napoli: «E poiché lo auttore di quella sol per servare fede si contenta sopto altro cielo andare fluttuando, almeno veda le opere sue dopo sì lunga tempesta ridutte in porto» (ivi, 6).9
Proprio in queste parole, che sono le ultime della dedica, si trova un'immagine preziosa derivata dalla dedicatoria della Raccolta aragonese:10
Imperocché [...] non facendo gli uomini alcuna cosa laudabile, ancora questi sacri laudatori hanno al tutto dispregiato. La qual cosa se ne' prossimi superiori secoli stata non fussi, non sarebbe di poi la dolorosa perdita di tanti e sí mirabili greci e latini scrittori con nostro grandissimo danno intervenuta. Erano similmente in questo fortunoso naufragio molti venerabili poeti, li quali primi il diserto campo della toscana lingua cominciorono a cultivare in guisa tale, che in questi nostri secoli tutta di fioretti e d'erba è rivestita. Ma la tua benigna mano, illustrissimo Federico, quale a questi porgere ti sei degnato dopo molte loro e lunghe fatiche, in porto finalmente gli ha condotti.11
Oltre all'evidente sovrapponibilità delle immagini, che paragonano le opere letterarie a fragili oggetti in balìa di vicende storiche tempestose salvati dall'impresa editoriale di una raccolta o di una pubblicazione, il rapporto di fonte tra la dedica dell'Arcadia e la dedicatoria della Raccolta aragonese mi pare indiscutibile per l'omogeneità di genere, l'epistola dedicatoria appunto, e per la quasi coincidenza dei dedicatari. Il Federico che in un incontro a Pisa con Lorenzo il Magnifico aveva auspicato l'allestimento di una raccolta dei testi toscani minacciati dall'usura del tempo è infatti quello stesso Federico d'Aragona che Sannazaro aveva seguito in Francia nel 1501, e presso il quale rimase, dal 1501 al 1503, lo stesso cardinale Luigi d'Aragona, nipote di Federico e a sua volta dedicatario dell'Arcadia.
Come nota Marina Riccucci, Luigi d'Aragona rappresenta una sorta di «dedicatario dello schermo»,12 di controfigura di Federico d'Aragona. L'omaggio alla dinastia aragonese non è tuttavia l'operazione simbolica più densa di significato tra quelle sottese all'immagine della tempesta e del porto nella dedica dell'Arcadia. L'applicazione all'Arcadia di questa stupenda immagine delinea un consapevole gesto di orgoglio intellettuale, significando l'assimilazione dell'opera di Sannazaro ai classici più o meno recenti della letteratura toscana, quei «venerabili poeti» che con le loro opere avevano contribuito a «cultivare» il «deserto della toscana lingua» facendone un campo florido «di fioretti e d'erba»: Guittone, Guinizelli, Cavalcanti, Bonagiunta, Jacopo da Lentini, Pier delle Vigne, Cino da Pistoia, Dante e Petrarca, e lo stesso Lorenzo.
Paragone tanto più orgoglioso perché operato anche sulla scorta dell'ascendente diretto della metafora del naufragio esperita nell'epistola dedicatoria della Raccolta aragonese: l'immagine dei libri come frammenti scampati ai corrosivi eventi della storia (incendi, diluvi, avvento del cristianesimo, avarizia, immoralità dei principi) e al logorìo del tempo che figura nel Proemio delle Genealogiae deorum gentilium di Boccaccio. Nella dedica prefatoria di quest'opera enciclopedica indirizzata al re Ugo IV di Cipro, ispiratore della grande impresa intellettuale, Boccaccio paragona a frammenti di un naufragio i superstiti scampoli dei libri barbari, greci e latini che avrebbe dovuto compulsare per ricostruire i rapporti genealogici degli dei pagani:
undique in tuum desiderium, non aliter quam si per vastum litus ingentis naufragii fragmenta colligerem sparsas, per infinita fere volumina deorum gentilium reliquias colligam, quas comperiam, et collectas evo diminutas atque semesas et fere attritas in unum genealogie corpus, quo potero ordine, ut tuo fruaris voto, redigam.13
La stessa immagine è riproposta, di nuovo a definire il salvataggio di favole antiche operato da Boccaccio, nel proemio del libro xiv: «et undique, o clementissime rex, iuxta promissum veteris naufragii, prout concessum est, desuper fragmenta collegimus, et in unum corpus, qualecunque sit, pro viribus ingenii nostri redegimus».14 Con la metafora della navigazione per l'impresa intellettuale di ricostruire l'albero genealogico degli dei pagani si chiude anche il proemio-dedica del libro i, dove Boccaccio si rivolge direttamente a Ugo IV di Cipro, dedicatario e ispiratore dell'opera: «Sit michi splendens et inmobile sydus et navicule dissuetum mare sulcantis gubernaculum regat, et, ut oportunitas exiget, ventis vela concedat, ut eo devehar, quo suo nomini sit decus, laus et honor, et gloria sempiterna».15
La sottile, silenziosa rivendicazione all'Arcadia dello statuto di classico, attuata attraverso l'allusione alla più illustre testimonianza dei fasti culturali e politici della monarchia aragonese, l'epistola dedicatoria della Raccolta aragonese, e a uno dei suoi maggiori modelli, il Proemio delle Genealogiae deorum gentilium di Boccaccio, mi pare un indizio molto forte a sostegno della tesi di chi attribuisce a Sannazaro e non a Summonte la paternità dell'epistola dedicatoria dell'Arcadia. Poteva Summonte, in qualità di sodale e amico, farsi carico di una così sfrontata, seppur criptica rivendicazione di merito? Poteva l'umanista napoletano senza l'avallo dell'autore arrischiare il prolungamento e l'apoteosi del catalogo di glorie letterarie toscane contenuto nella dedicatoria della Raccolta aragonese con l'aggiunta del napoletano Sannazaro?
Il riconoscimento della portata identitaria della metafora del naufragio, capace di significare nell'universo simbolico di Sannazaro simultaneamente l'indole «quasi splenetica» dello scrittore,16 l'indomita, quasi sfrontata consapevolezza del suo valore intellettuale e la fedeltà indefessa ai regnanti aragonesi, conferma l'intuizione di Isabella Becherucci, che nel saggio L'importanza della summontina ha avanzato l'ipotesi della «partecipazione dell'autore [di Sannazaro] alla stesura della lettera di dedica dell'Arcadia».17 La studiosa si appoggia su una serie di minuti ma rilevanti indizi: il cenno di Summonte nella Prefazione al De Fortuna (1525) di Pontano all'inizio della sua attività editoriale intorno all'Arcadia come precedente alla stampa veneziana del 1502,18 la bellezza e perfezione retorica della lettera,19 la «inesatta indicazione della prima stampa delle egloghe sannazariane "or son tre anni"».20 L'argomento più forte a favore della paternità sannazariana della lettera mi pare tuttavia il ricorso al tòpos della navigatio (con le immagini del naufragio, dei frammenti e del porto esperite in funzione metaletteraria), nell'elegia x del Libro i dedicata a Giovanni di Sangro:
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At tu, quandoquidem Nemesis jubet, optime Sangri;
Nec fas est homini vincere posse Deam,
Accipe concussae tabulas, atque arma carinae;
Naufragiique mei collige reliquias.21
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e soprattuto nella dedica di Sonetti e Canzoni a Cassandra Marchese:
Non altrimente che dopo grave tempesta pallido e travagliato nocchiero, da lunge scoprendo la terra, a quella con ogni studio per suo scampo si sforza di venire, e come miglior po', i frammenti raccogliere del rotto legno, ho pensato io, o rara e sopra le altre valorosa donna, dopo tante fortune mercé del cielo passate, a te, come a porto desideratissimo, le tavole indrizzare del mio naufragio.22
Questi due luoghi dell'opera sannazariana inducono Becherucci a inserire anche l'episodio intermedio, l'epistola dedicatoria della summontina, nel solco di una variazione lineare facente capo al medesimo autore. In particolare la studiosa giustamente nota come nella dedica delle Rime Sannazaro istituisca a quasi trent'anni di distanza una «precisa autocitazione» della lettera dedicatoria dell'Arcadia.23 Il riconoscimento del significato simbolico, letterario e politico della metafora del naufragio e dei frammenti, che ne fa una sorta di impronta digitale, di divisa dell'autore, ci consente ora di dare ragione del ritorno di questa metafora in testi liminari decisivi per la comprensione delle maggiori opere volgari di Sannazaro.
L'esame dell'elegia per Giovanni di Sangro e della dedica di Sonetti e canzoni conferma inoltre l'attendibiltà della derivazione proposta, che ipotizza per il tropo metatestuale del naufragio una ripresa dalla dedica della Raccolta aragonese, mediata anche dal Proemio delle Genealogiae deorum gentilium di Boccaccio. Se, infatti, nella dedica del prosimetro figuravano i due elementi della triade metaforica che si trovano anche nell'epistola dedicatoria della Raccolta aragonese (la tempesta, variazione del naufragio, e il porto), nell'elegia a Giovanni di Sangro e nella dedica delle Rime a Cassandra Marchese compare il terzo tassello di questa costellazione simbolica, i frammenti. Variato nell'elegia in «tabulas», «arma» e «reliquias», «frammenti» figura invece nella dedica delle Rime. E pour cause, dal momento che il termine rinvia direttamente alla metafora usata da Petrarca per i testi del suo canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta), punto di partenza, del resto, anche della variazione marittima di Boccaccio (naufragii fragmenta).24 Si tratta di un albero genealogico il cui ramo più illustre può essere riconosciuto nel proemio della Gerusalemme liberata, dove proprio all'atto di dedicare il poema al «magnanimo» Alfonso II d'Este (con epiteto che evoca non causalmente armoniche aragonesi!), Tasso paragona sé a un nocchiero e la propria opera a una nave minacciata dalle tempeste e dagli scogli, condotta pietosamente in porto dal dedicatario:
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Tu, magnanimo Alfonso, il qual ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l'onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i' porto.25
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Se il rapporto con la dedica delle Rime di Sannazaro pare confermato dall'elezione del termine fortuna, nel terzo, memorabile verso del poema («Molto egli oprò co 'l senno e con la mano»),26 è riecheggiato un passo della dedicatoria della Raccolta aragonese: «né d'altronde veramente ebbono origine li leggiadri ed alteri fatti e col senno e con la spada».27
Non ultimo esito di questa immagine, quello della Liberata: una sua variazione − non metatestuale, molto romantica, ma sicuramente dipendente dall'ottava tassiana − sugella infatti il Torquato Tasso di Goethe:
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Zerbrochen ist das Steuer und es kracht
Das Schiff an allen Seiten. Berstend reißt
Der Boden unter meinen Füßen auf!
Ich fasse mich mit beiden Armen an!
So klammert sich der Schiffer endlich noch
Am Felsen fest, an dem er scheitern sollte.28
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Ma non lasciamo che la storia pur gloriosa di questo tropo spinga alla deriva la nostra indagine e torniamo alla dedica dell'Arcadia.
Un altro indizio sulla strada del riconoscimento della mano di Sannazaro nella lettera dedicatoria della summontina è stato indicato da Marina Riccucci. La studiosa ha ipotizzato un coinvolgimento attivo di Sannazaro nell'edizione napoletana del 1504 notando come alla fine della dedica figuri il titolo Arcadia («Legga dunque felicemente sua Reverendissima et Illustrissima Signoria la Arcadia del suo Sannazaro», Dedica, 6), benché tutti i codici e le stampe precedenti rechino il titolo «libro intitulato Archadio». La scelta del nuovo titolo e quella del dedicatario, il cardinale Luigi d'Aragona, compagno d'esilio di Sannazaro in Francia, non si possono spiegare secondo Riccucci senza il placet di Sannazaro.29
Tanto ricca è la messe di indizi, e tanto univoca la sua direzione, che pare difficile non tenere per certa la partecipazione di Sannazaro alla stesura della lettera dedicatoria dell'Arcadia e non liquidare le ultime riserve che ancora si trovano nel saggio di Becherucci.30 Neppure si può pensare che Sannazaro si sia limitato a fornire dalla Francia generiche direttive per la composizione della dedica (titolo dell'opera, scelta del destinatario, metafore finali), rivendicando per sé solo l'inventio e rimettendo l'elocutio nelle mani di Summonte. Non solo perché l'eccezionale riuscita di questa prosa presuppone il lavoro di uno scrittore di altissimo livello; ma soprattutto perché Sannazaro aveva, come nota Maria Corti, «un'altissima concezione del fatto stilistico»,31 che non gli avrebbe consentito di lasciare a un altro la definizione delle sfumature di un testo così decisivo per la corretta decifrazione dell'opera e delle scelte politiche e biografiche dell'autore. Più conciliabile col bizzarro e sapiente genio del reale è pensare che Sannazaro abbia inviato a Summonte la dedica interamente scritta, cesellata in ogni sillaba e non solo abbozzata. L'invio potrebbe essere avvenuto insieme con quello del Congedo, che Riccucci ritiene «scritto in funzione, proprio della princeps napoletana»,32 e che Vecce ipotizza «composto in Francia nel 1503, e subito inviato agli amici napoletani».33 La composizione integrale dell'epistola dedicatoria dell'Arcadia da parte di Sannazaro può essere quindi considerata da questo momento un punto fermo, sicuro dell'indagine, che pure è lungi dall'essere conclusa.
Benché la critica più recente sia concorde nel considerare più che plausibile il coinvolgimento di Sannazaro nell'operazione editoriale di Summonte e nella stesura della dedica dell'Arcadia del 1504, nessuno si è interrogato sin qui sulle ragioni della mistificazione. Solo Francesco Erspamer, avanzando nella Nota al testo del suo commento all'Arcadia l'ipotesi della partecipazione di Sannazaro alla stesura della lettera, indica una motivazione possibile. Secondo lo studioso Sannazaro avrebbe attribuito il testo a Summonte per indurre nel lettore una disposizione di compassionevole indulgenza per le manchevolezze e le imperfezioni dell'opera:
la storia delle vicende editoriali dell'Arcadia che essa [la dedica] traccia è importante per comprenderne il carattere di testo incompleto, 'provvisorio', non ufficialmente autorizzato. Proprio quest'ultima precisazione ritengo che fosse considerata necessaria (e magari in qualche modo sollecitata) da Sannazaro: è evidente che un'opera che fin dal principio si annunciava stampata "senza…ordinazione" dell'autore [...] poteva essere letta [...] con minori esigenze e aspettative di completezza.34
Si tratta tuttavia di una motivazione non condivisibile, perché l'Arcadia è tutt'altro che opera incompleta e provvisoria, a differenza di quello che il suo stesso autore vorrebbe far credere.35
Nella dedicatoria dell'edizione definitiva dell'Arcadia è accreditata la tesi della completa estraneità di Sannazaro all'impresa editoriale dell'amico Summonte: «audacia» (Dedica, 1) è definita la decisione di pubblicare l'opera e «alienissimo» (ibid.) Sannazaro dalla volontà di licenziare il prosimetro; il firmatario della dedica dice di avere agito «senza altra [...] ordinazione» (Dedica, 4) dell'amico «anzi forse [...] non senza qualche offesa de l'animo suo quando per aventura il saprà» (ibid.). Questa calcata professione di autonomia cozza tuttavia con un dato ormai acquisito: la dedica e il congedo A la sampogna, che compaiono per la prima volta rispettivamente in testa e a conclusione dell'Arcadia proprio nell'editio princeps del 1504, furono composti da Sannazaro in Francia nel 1503 e inviati agli amici napoletani con implicita autorizzazione a pubblicare l'opera. Sulla composizione in esilio del congedo convengono sia Marina Riccucci sia Carlo Vecce, pur partendo da prospettive esegetiche divergenti. La prima vede nel «malvagio accidente» (Congedo, 2) che ha costretto Sannazaro a disgiungere dalle sue labbra la «rustica e boscareccia sampogna» (ivi, 1) e a «palesare», cioè a pubblicare, le «indotte note» (ivi, 2) dell'Arcadia un riferimento alla conquista definitiva del Regno di Napoli da parte degli Spagnoli a scapito dei Francesi (1503-1504), evento che coinciderebbe per Sannazaro con la completa perdita delle illusioni.36 Il secondo, sulla scia di Enrico Carrara,37 riconosce nello stesso passo del congedo una possibile allusione all'episodio della stampa clandestina del 1502, forse non a torto visto l'insistito ricorso a immagini di furto e il riferimento a rapine già avvenute proprio nel passo che lamenta la pubblicazione forzata:
Con ciò sia cosa che a me conviene, prima che con experte dite sappia misuratamente la tua armonia exprimere, per malvagio accidente da le mie labra disgiungerti, e (quali che elle si siano) palesare le indotte note, apte più ad appagare semplici pecorelle per le selve, che studiosi popoli per le cittadi; facendo sì come colui che, offeso da notturni furti nei suoi giardini, coglie con isdegnosa mano i non maturi frutti dai carichi rami; o come il duro aratore, il quale dagli alti alberi inanzi tempo con tutti i nidi si affretta a prendere i non pennuti ucelli, per tema che da serpi o da pastori non gli siano preoccupati (Congedo, 2-3).38
Pur rilevando la contraddizione tra le enfatiche assicurazioni del firmatario della dedica e i dati cronologici della composizione del congedo e della lettera dedicatoria, la critica ha mancato finora di interrogarsi sul perché di tanta pervicacia e spudoratezza nel mentire. Perché Sannazaro avrebbe dovuto firmare la dedica dell'Arcadia col nome di Pietro Summonte, attribuendo esclusivamente al firmatario ogni responsabilità circa l'edizione a stampa del libro? La risposta a questa domanda va ricavata ancora una volta da un ordine di cose che non è né storico né biografico ma letterario. Due sono a mio parere i motivi di questa ben celata mistificazione della verità storica: uno più particolare, uno di ordine più generale.
Partiamo dal primo. Accreditando l'estraneità e addirittura la contrarietà dell'autore alla pubblicazione della sua opera attraverso la figura di Summonte Sannazaro intendeva insinuare una forte analogia con la situazione editoriale dell'Eneide, edita, secondo il racconto di Elio Donato, da Lucio Vario Rufo e Plozio Tucca, nonostante la raccomandazione di Virgilio di bruciare l'opera nel caso fosse rimasta incompiuta al momento della sua morte:
egerat cum Vario, priusquam Italia decederet, ut si quid sibi accidisset, Aeneida combureret; at is ita facturum se pernegarat. igitur in extrema valetudine assidue scrinia desideravit, crematurus ipse; verum nemine offerente nihil quidem nominatim de ea cavit. ceterum eidem Vario ac simul Tuccae scripta sua sub ea conditione legavit, ne quid ederent, quod non a se editum esset. edidit autem auctore Augusto Varius, sed summatim emendata.39
Il rapporto tra le vicende editoriali dell'Eneide e quelle dell'Arcadia nel racconto di Summonte è di simmetria quasi perfetta, poiché anche nel caso del prosimetro di Sannazaro due sono gli amici letterati che si fanno parte diligente nella pubblicazione del capolavoro dell'amico assente. Nella dedicatoria dell'editio princeps Summonte racconta infatti di essere stato confortato nell'impresa da Cariteo: «movendomi ancora a questo non poco la auttorità del vostro Cariteo, dal quale non solo sono stato a ciò con ragione indutto, ma con tutte le forze de la amicizia constretto» (Dedica, 4). Analogo è anche il rapporto asimmetrico tra i due editori, essendo primario l'apporto al lavoro filologico ed editoriale di Vario e Summonzio, collaterale il ruolo di Tucca e Cariteo. Un rinvio alla tradizione della Vita Donati è del resto iscritto nell'ecloga viii dell'Arcadia, in particolare nelle parole di Clonico, una delle controfigure malinconiche di Sannazaro: «Allor le rime, ch'a mal grado accumolo, / farete meco in cenere risolvere, / ornando di ghirlande il mesto cumolo».40
L'ipotesi mi pare avvalorata anche da alcune analogie strutturali tra le due opere (il numero delle ecloghe ad esempio, dodici come i libri del poema virgiliano), e dalla forte presenza di luoghi dell'Eneide nell'ordito dell'Arcadia, che si infittisce proprio verso la fine del romanzo, nelle ecloghe xi e xii, determinando quel «mutarsi del registro delle fonti» nel passaggio alla seconda redazione del prosimetro rilevato da Maria Corti.41 Per provare il sentimento di speciale, privilegiata ammirazione di Sannazaro nei confronti dell'autore dell'Eneide si può ricordare che nel congedo il personaggio-poeta indica proprio nell'opera di Virgilio, oltre che di Calpurnio, l'egida sotto la quale il suo romanzo potrà ripararsi dalle critiche dei detrattori: «Senza che in altri tempi sono già stati pastori sì audaci che insino a le orecchie de' romani consuli han sospinto il loro stile; sotto l'ombra dei quali potrai tu, sampogna mia, molto ben coprirti e difendere animosamente la tua ragione» (Congedo, 16). Nella storia della sampogna svolta nella prosa x dell'Arcadia proprio a Virgilio si riconosce inoltre il ruolo di ultimo e più grande poeta bucolico dopo Teocrito: al «mantuano Titiro» (x, 17) il personaggio-poeta dell'Arcadia, primo a «risvegliare le adormentate selve, et a mostrare a' pastori di cantare le già dimenticate canzoni» (Congedo, 15), direttamente si riallaccia, saltando orgogliosamente tutta la tradizione bucolica post-virgiliana e volgare. Tuttavia il culto di Sannazaro per la «divinità di Virgilio» è fatto troppo noto perché si debba qui ribadire.42
Più interessante mi pare invece mostrare come Sannazaro tendesse a modellare la sua parabola autobiografica sulla vita di Virgilio persino in privato. E questo in modo più sottile rispetto alla ricerca, pure strenua, di una contiguità fisica ai luoghi virgiliani, che persuase il poeta a trascorrere tutta la vita dopo il ritorno in patria nell'amata villa di Mergellina e a voler giacere, dopo la morte, nella chiesa di Santa Maria del Parto, a pochi metri dalla tomba di Virgilio. Nelle sue lettere Sannazaro lamenta in effetti quasi tutti i sintomi − mal di stomaco, mal di gola, mal di testa, perdita di sangue dalla bocca − elencati da Elio Donato nella descrizione della salute cagionevole e malferma di Virgilio: «corpore et statura fuit grandi, aquilo colore, facie rusticana, valetudine varia; nam plerumque a stomacho et a faucibus ac dolore capitis laborabat, sanguinem etiam saepe reiecit».43
Del dolore allo stomaco e della perdita di sangue dalla bocca Sannazaro si lamenta nelle lettere del 17 e del 23 ottobre 1517 a Antonio Seripando, dalle quali si evince che si tratta di male non occasionale ma cronico:
Spero meritarà vènia la brevità mia con V. S., sapendo quella donde si causa. Sopra al dolore continuo dello stomaco, questo, non dirò sputo, ma fiume di sangue, mi vessa di sòrte, che, benché in tal milizia possa dirmi veterano, mi fa desiderare altro che vita.
Le cagioni che mi indussero a dimandare vènia de la brevità de lo scrivere mio, ancora stanno in piede. Non si crederia, se non per chi la vede, la abundanzia del sangue che mi esce da la bocca.44
Di «doglia continua de lo stomaco» Sannazaro parla nella lettera al Seripando del 27 marzo 1518 per giustificare una mancata partenza per Roma.45 Lo stesso male è definito «passione di stomaco» nella lettera a Mario Equicola del 19 febbraio 1519.46 Nella lettera a Antonio Seripando del 9 marzo 1521 è il mal di testa a essere addotto come motivo del fatto che la breve epistola non è vergata di suo pugno:
Persona di tanta prudenzia, e che sa le indesposizione mie, son certo mi escusarà a se medesma, se non li scrivo de <mia mano>, e li iuro che due volte ho preso la penna per farlo e non mi sono confidato. Per amore de Dio mel perdone, ché tengo tanta doglia di testa, che appena posso dittare questo poco.47
In un'altra lettera allo stesso, del 26 marzo 1521, Sannazaro si scusa del ritardo nell'invio di una risposta descrivendo un nuovo episodio di emorragia:
Mercoridì a sera, tornando a casa, mi fu data la lettera di V. S., e per molto che fusse da me desiderata, non volse Dio che io ne pigliasse piacere. Stando per aprirla, mi sopravenne tanta abundanzia di sangue per bocca, e con tanta furia, che insino al iovidì non ebbi gracia di legerla.48
Ancora il mal di testa trova breve menzione in un'altra lettera, sempre a Antonio Seripando, dell'aprile 1521: «Bisogna festinare, ché son lasso e non ho tempo, oltre che la doglia de la testa e la febre mi tormenteno».49 Il dolore al ventre è di nuovo menzionato per giustificare il ritardo della risposta in una lettera probabilmente dell'aprile 1521: «Son stato un poco tardo a responderli, non per negligenzia veramente, ma per la indisposizione del tormentatissimo stomaco; caso che a pena mi lassa respirare, di sòrte che mi fa essere inimico di carta, di penna e di libri».50
È troppo sospettare che le indisposizioni lamentate da Sannazaro nelle sue lettere, per lo più per giustificare un ritardo o un atto inadeguato, siano sintomi di una malattia letteraria, contratta attraverso la Vita Virgilii di Donato? Se infatti disturbi psicosomatici come il mal di testa, il mal di stomaco e il mal di gola potrebbero sembrare non troppo singolari, certo singolare è la cronica emorragia di sangue dalla bocca. Soprattutto se si considera che Sannazaro non condivise il destino di morte precoce di altri poeti come Corazzini e Gozzano.
Esistono anche testimonianze di altri sulla complessione cagionevole del poeta. Jacopo d'Atri in due lettere a Isabella d'Este, rispettivamente datate 29 gennaio e 19 febbraio 1504, si scusa per il mancato invio alla marchesa di Mantova di componimenti di Sannazaro, inetto all'attività poetica perché malato: «De m. Jacobo Sanazario non ve mando cosa alcuna per esserse infermato. [...] M. Jacobo Sanazario è amalato, et quelli versi che haveva dicto de darmi non ho per tal causa possuti havere».51 Tuttavia anche in questo caso non è peregrino immaginare che Sannazaro utilizzasse le sue malattie, più o meno fantomatiche, come pretesto per allontanare da sé pressioni moleste. Dal carteggio di Isabella d'Este con Jacopo d'Atri e il marchese di Bitonto si coglie infatti come la brama della marchesa di Mantova di entrare in possesso di suoi versi si fosse trasformata a un certo punto in una mania indiscreta, ispiratrice di veri e propri furti ai danni di Sannazaro, che, geloso delle sue cose, da questa invadenza si difese probabilmente con pretesti fasulli e cauti differimenti.52
Descrivendo, nella lettera dedicatoria firmata da Summonte, una vicenda editoriale fittizia molto simile alla storia della pubblicazione postuma dell'Eneide ad opera di Vario e Tucca, Sannazaro rivelava a chi era in grado di cogliere tali allusioni cifrate la natura ancipite del suo classicismo; in questo modo egli indicava infatti i suoi modelli nel corpus dei classici latini e greci, oltre che, attraverso il rinvio a un passo decisivo dell'epistola dedicatoria della Raccolta aragonese, nell'alta tradizione volgare toscana. Alla dedica di Sannazaro firmata da Summonte va riconosciuta dunque una sagacissima e dissimulata funzione prefatoria, perché essa, sin dall'inizio, prima ancora dei ragguagli del Prologo, stringe l'opera tra i due poli del classicismo antico e moderno, tra Petrarca e Virgilio per intenderci. Anche per il romanzo di Sannazaro pare dunque confermata «la stretta connessione che, almeno in una prima fase, lega la dedica d'autore al testo proemiale, e dunque ascrive la dedica a pieno titolo all'opera»,53 riconosciuta da Maria Antonietta Terzoli attraverso una disamina di dediche notevoli premesse a libri di rime del Cinquecento, che culmina nella considerazione della lettera dedicatoria delle Rime di Sannazaro, definita sotto questo rispetto «caso esemplare e memorabile».54
Proprio il carattere squisitamente letterario delle mistificazioni riscontrate nella dedica dell'Arcadia deve suscitare a mio parere una riflessione sull'autentica natura di questo testo. Si tratta di un testo letterario, fittizio, o di testimonianza storica, nato dalla volontà di descrivere fatti realmente accaduti? Bisogna in altre parole sceverare qui tra retorica bugiarda e finzione, le quali, come nota Kant, si distinguono per il fatto che la finzione è una menzogna per così dire sincera, perché chi la pratica parte dal presupposto della sospensione, da parte di chi la recepisce, di qualsivoglia aspettativa sulla veridicità di quanto detto: «Sie [die Dichtkunst] spielt mit dem Schein, den sie nach Belieben bewirkt, ohne doch dadurch zu betrügen; denn sie erklärt ihre Beschäftigung selbst für bloßes Spiel».55 A me pare che l'epistola dedicatoria dell'Arcadia sia un testo letterario a tutti gli effetti, dove la finalità del diletto attraverso l'invenzione di un racconto fittizio sopravanza l'intento di ricostruire veridicamente una circostanza storica. Proprio la libertà d'invenzione è il secondo movente, di ordine più generale (e perciò più cogente) rispetto al primo, che potrebbe aver indotto Sannazaro ad apporre in calce all'epistola dedicatoria del suo romanzo il nome dell'amico Summonte. L'indizio principale in tal senso consiste nel fatto che Summonte e Cariteo, il filologo e il poeta che secondo la versione fornita nella dedica hanno promosso l'edizione a stampa dell'opera contro la volontà dell'autore, sono proprio i due pastori napoletani, Summonzio e Barcinio, incontrati da Sannazaro-Sincero in occasione del suo improvviso e rocambolesco ritorno a Napoli: «E volendo io più oltre andare, trovai per sorte appiè de la non alta salita Barcinio e Summonzio, pastori fra le nostre selve notissimi» (xii, 48). Tale coincidenza non può essere casuale, e chi voglia distinguere tra i due personaggi storici della lettera dedicatoria e le due personae bucoliche dell'ultimo passaggio narrativo dell'Arcadia è destinato a tradire, se non l'intentio auctoris, almeno l'intentio operis del romanzo.
Questa coincidenza è stata rilevata da Marina Riccucci, che, sollevando forti dubbi sulla possibilità che Sannazaro fosse contrario alla pubblicazione dell'Arcadia, nota incidentalmente come Summonte si assuma la completa responsabilità dell'iniziativa «(non senza però chiamare in causa come complice il Cariteo. Forse in quanto entrambi cantori dell'ultima egloga del romanzo?)».56 Il rilievo è stato ripreso e sviluppato da Isabella Becherucci, la quale osserva che non può essere stato
casuale che i due personaggi che Sannazaro d'un tratto scorge alle soglie di Napoli, [...] e che saranno poi i protagonisti assoluti [...] dell'egloga finale, siano poi gli stessi che si associano nella dedica nell'operazione di restituire al grande pubblico un testo completo e sicuro.57
Becherucci si limita tuttavia a ipotizzare che l'apparizione di Summonte e Cariteo alla fine del romanzo istituisca una sorta di implicito incarico ai due letterati amici di Sannazaro a curare la pubblicazione a stampa dell'Arcadia.58 In realtà la coincidenza degli attori determina una continuità narrativa tra il finale del romanzo e le vicende editoriali raccontate nella dedica. In altre parole credo che si possa dire che il vero autore dell'epistola dedicatoria, Jacopo Sannazaro, abbia sagacemente alterato la storia editoriale dell'opera per indurre il lettore accorto a considerare il racconto della dedica come prosecuzione della fabula bucolica. A partire da questa nuova interpretazione lo scheletro narrativo dell'Arcadia può essere così sintetizzato: un gentiluomo napoletano si trasferisce in Arcadia per dimenticare un amore infelice; qui partecipa alla vita agreste dei pastori, assistendo alle gare di canto, ai giochi, ai rituali di purificazione, alle cerimonie di commemorazione dei pastori defunti, ai riti magici. La nostalgia per la patria lontana erompe tuttavia a un certo punto in un sogno premonitore che prefigura la decadenza di Napoli e della monarchia aragonese (pianto della sirena e morte dell'arancio raccontati nella prosa xii); tale presentimento di morte conduce Sannazaro-Sincero a intraprendere un viaggio di ritorno sotto la guida di una ninfa fluviale che lo conduce a Napoli attraverso le viscere della terra. Giunto nel cuore della città natale incontra Summonzio e Cariteo (Barcinio) che intonano un canto elegiaco per la morte di Filli (Adriana Sassone), moglie di Meliseo (Pontano). Ritornato a Napoli Sannazaro-Sincero decide di raccontare l'esperienza vissuta in Arcadia trascrivendo senza artificio le ecloghe ascoltate in quel mondo lontano e selvaggio: di qui la scrittura del romanzo bucolico, interrotta però da un «malvagio accidente», l'esilio in Francia al séguito di re Federico. Proprio Summonzio e Cariteo, rimasti a Napoli, si incaricano contro la volontà dell'autore di curare l'edizione a stampa dell'opera per porre rimedio alla pubblicazione di rapina della prima redazione del prosimetro, uscito incompiuto tre anni prima a Venezia.
A chi obiettasse che è improprio porre sullo stesso piano la finzione romanzesca e il racconto delle vicende storiche ricostruite nella dedica, è facile ribattere che la commistione tra discorso fedele alla verità storica e allegoria bucolica è connaturata all'invenzione dell'Arcadia. La cosa è massimamente evidente nella prosa vii del romanzo, dove il personaggio che dice io, richiesto da Carino di svelare la propria identità, racconta la storia della propria famiglia e della propria vita con stupefacente fedeltà ai fatti storici: Sannazaro-Sincero è nato a Napoli negli ultimi anni di vita del «re Alfonso di Aragona» (vii, 9), discendente del ramo di una famiglia nobile originaria della «cisalpina Gallia» (vii, 5) che il bisnonno, Rosso Sannazaro, ha trasferito a Napoli al tempo della conquista del Regno da parte del «terzo Carlo» (Carlo III di Durazzo). Beneficata da questi e dal «legitimo successore Lanzilao» (Ladislao di Durazzo, vii, 7) la famiglia è caduta in disgrazia presso l'ultimo regnante della famiglia d'Angiò-Durazzo, Giovanna II sorella di Ladislao. Solo a questo punto, dalla rievocazione di eventi realmente accaduti con il ricorso ai nomi storici dei regnanti di Napoli il racconto trapassa all'invenzione di un amore costruito sul modello della Vita nova dantesca («appena avea otto anni forniti che le forze di amore a sentire incominciai», vii, 9) per una «picciola fanciulla», la cui mancata corresponsione spinge il protagonista ad allontanarsi da Napoli per ripare nelle «solitudini di Arcadia» (vii, 18).
Che la finzione dell'Arcadia si nutra costitutivamente di realismo risulta evidente se si considera che il protagonista-narratore della fictio, che mette per iscritto la sua esperienza arcadica una volta ritornato a Napoli, porta proprio il nome reale dell'autore, Sannazaro, accanto all'altro, pure storico, di Sincero, che era il nome accademico assegnato a Sannazaro da Pontano: «Io non mi sento giamai da alcun di voi nominare "Sannazaro" (quantunque cognome a' miei predecessori onorevole stato sia) che, recordandomi da lei essere stato per adietro chiamato "Sincero", non mi sia cagione di sospirare» (vii 27). Da questo passo risulta chiaro che il protagonista è chiamato dai pastori arcadi proprio Sannazaro e non Sincero, a differenza di quanto indicato in quasi tutti i commenti e i saggi sull'Arcadia. Fa eccezione solo Carino, doppio del protagonista e come quest'ultimo ascitizio rispetto alla comunità arcadica, il quale, forse per blandirlo con l'appellativo utilizzato a Napoli dalla donna amata, per due volte si rivolge al protagonista col vocativo «Sincero mio» (vii, 30 e viii, 58).
Sulla scorta di queste evidenze testuali, non fa specie che nell'altro luogo dell'opera che ospita il racconto della vita del protagonista, la lettera dedicatoria, sia adottato un linguaggio referenziale per rendere conto di vicende che corrispondono sostanzialmente alla realtà storica: «Messer Iacobo Sannazaro» (Dedica, 2), tornato dall'Arcadia, è ripartito volontariamente per la Francia per rimanere fedele al «suo re»; lui lontano, «le sue colte e leggiadrissime ecloghe» sono state stampate piratescamente dagli «impressori veneziani»; per mettere riparo agli errori della pubblicazione di un'opera non compiuta (la prima redazione del prosimetro), Summonzio, sollecitato da Cariteo, ha deciso di intraprendere l'edizione a stampa dell'edizione definitiva del prosimetro, trascrivendo il testo dall'autografo che Sannazaro avrebbe lasciato al fratello Marco Antonio.
Presupposto teorico della commistione di fatti immaginari e di eventi storici attuata in maniera esemplare nell'Arcadia di Sannazaro è l'assunto che anche il racconto di vicende reali può essere utilizzato come finzione, in vista cioè di un piacere estetico, indipendente dal grado di realtà. Riconoscere nella dedica dell'Arcadia un testo letterario, fittizio, il cui scopo precipuo è suscitare piacere estetico, comporta la necessità di riconsiderare tutto il testo dell'Arcadia sotto una luce nuova. Come ha intuito per primo Schleiermacher il testo è il risultato di un sistema di relazioni che coinvolge ogni sua minima parte.59 Questa interdipendenza tra parte e tutto dovrebbe sollecitare a questo punto l'attivazione del circolo ermeneutico a partire dalla parte che abbiamo riconosciuto qui come appartenente all'Arcadia, l'epistola dedicatoria. Tuttavia la ridefinizione della struttura del prosimetro di Sannazaro sulla base del cambiamento di paradigma nell'interpretazione della dedica è compito complesso, che mi riservo di svolgere altrove. Basti qui la notazione di tre significative novità testuali. Le prime due riguardano il piano tematico dell'opera, il furto e l'esilio, la terza quello formale della narrazione.
Il motivo del furto ritorna ossessivamente nell'Arcadia. Acerrimi nemici dei pastori d'Arcadia sono i lupi, ladri di armenti.60 Menzionati per la prima volta nelle parole di Selvaggio a Ergasto («E sai ben tu che i lupi (ancor che tacciano) / fan le gran prede», ie, 10-11), sono oggetto nella seconda ecloga di una violentissima invettiva da parte di Montano: «Fuggite il ladro, o pecore e pastori; / ch'egli è di fuori il lupo pien d'inganni» (iie, 19-20, l'invettiva si prolunga fino al v. 56). Il motivo del furto non è affidato tuttavia nell'Arcadia unicamente a questa immagine ricorrente. Nell'ecfrasi delle porte del tempio di Pales figurano anche episodi di abigeato: il furto delle vacche di Ameto guardate da Apollo e il rapimento di Io sorvegliata da Argo, sempre ad opera di Mercurio. Nell'ecloga sesta poi l'esemplificazione del deterioramento irreversibile dei tempi è condotta dal giovane Serrano sulla scorta del racconto di un furto da lui patito per mano di un Cacco, «che vive sol di latrocinïo» (vie, 123). Il componimento bucolico culmina alla fine in un tremendo atto di accusa da parte di Serrano, che denuncia come tanti pastori abitatori delle selve circostanti siano in realtà ladri impenitenti: «Oh quanti intorno a queste selve nomeri / pastori, in vista buon, che tutti furano / rastri, zappe, sampogne, aratri e vomeri!» (vie, 133-35). Questo pur non esaustivo regesto di loci mi pare rappresentativo di quanto cospicuo sia il peso del furto nell'Arcadia.
Nella dedica il motivo del furto viene ulteriormente potenziato, acquistando una dimensione per così dire metatestuale. Oggetto di rapina nel racconto di Summonzio è infatti il testo stesso, che Sannazaro ha composto dopo il ritorno dall'Arcadia, pubblicato piratescamente dagli stampatori veneziani tre anni prima (episodio cui fa riferimento Sannazaro stesso nel congedo: «facendo sì come colui che, offeso da notturni furti nei suoi giardini», Congedo, 3). Ma il furto, oltre a investire direttamente la produzione poetica, si allarga fino ad assumere una dimensione storica. Il Leitmotiv dell'appropriazione indebita arriva infatti a coinvolgere, nella dedica, la stessa città di Napoli, cui gli stampatori veneziani (come implicitamente spiega Summonzio, che dice di considerare "furto di lode" l'eventuale non pubblicazione dell'Arcadia), hanno sottratto la lode che le spettava, pubblicando in un'altra città ciò che era stato concepito e scritto in seno a Partenope: «Il che tanto più volentieri ho fatto, quanto che mi parea cadere quasi in vicio di impietà defraudare Napoli nostra de la sua lode: peroché essendosi nel grembo di essa e conceputa e portata il debito tempo tal genitura, dovea poi ragionevolmente da quella parturirse» (Dedica, 5).
Altro tema dell'Arcadia ripreso nella dedica è l'esilio. A parte il caso di Salvaggio, che compie il tragitto inverso a quello di Sannazaro (Arcadia-Napoli e ritorno), il motivo dell'esilio non lascia molte tracce nel prosimetro. Tuttavia l'allontanamento volontario di Sannazaro dalla patria raccontato nella prosa vii e modellato sulla vicenda di Cornelio Gallo al centro della decima bucolica di Virgilio, costituisce l'asse portante della pur esile traccia narrativa dell'Arcadia. Decisivo dunque, per l'interpretazione dell'intera opera, è apprendere dalla lettera dedicatoria che Sannazaro, dopo il ritorno dall'Arcadia, è stato protagonista di un nuovo «voluntario exilio» (viii, 5), affrontato questa volta non per tentare di medicare il dolore di un amore non corrisposto, ma «per non mancare al vero officio di perfetto et onorato cavaliero in seguitare la adversa fortuna del suo re in quelle parti» (Dedica, 2). La partenza di Sannazaro per la Francia interviene infatti a spezzare il rapporto di simmetria perfetta tra i due poli geografici del romanzo. Essa scardina l'alternativa tra Napoli e l'Arcadia, trasformando la vicenda apparentemente conchiusa di un Bildungsroman fallimentare e luttuoso - il ritorno nella città natale in un clima di morte personale e storica - in un destino aperto, mosso da un'irreprimibile coazione a ripetere, che pare spingere il protagonista lungo una china di esilii e di partenze infiniti.
La terza novità introdotta dal riconoscimento della dedica come parte della struttura dell'Arcadia riguarda la prospettiva narrativa. Se in tutta l'opera, dal prologo al congedo, il racconto è condotto da un narratore omodiegetico (Sannazaro, tornato nella città natale dopo un soggiorno in Arcadia trascrive il resoconto della sua esperienza in prima persona), nella dedica il punto di vista del narratore Summonzio diventa eterodiegetico. Il personaggio-poeta Sannazaro, dopo aver avuto il controllo narrativo sulla storia fino al ritorno in patria e all'annuncio nel congedo dell'interruzione dell'opera, da soggetto della narrazione diventa oggetto del racconto di Summonzio. La pubblicazione a stampa dell'opera, compiuta e liberata dagli errori della stampa veneziana, avviene dunque, nella finzione del romanzo, a detrimento del primato narrativo di Sannazaro. Le tre novità macroscopiche introdotte nel testo dalla dedica sono quindi legate da un filo sottilissimo ma tenace: il sentimento dell'alienazione. Come il furto è alienazione violenta di una proprietà, e l'esilio è estraniazione del soggetto dalla propria patria, alienante è pure lo slittamento di prospettiva narrativa, che priva il protagonista della possibilità di pronunciare la parola definitiva sulla propria esperienza. E proprio nel sentimento di un'estraneazione irreparabile, cui si può contrapporre solo un differimento e una fuga ininterrotti si può rintracciare l'intuizione estetica che unifica il testo dell'Arcadia in un tutto organico. Ma sulla struttura del prosimetro sannazariano mi riservo di precisare il mio discorso in altra sede.
Qui vorrei sfruttare il cambiamento di paradigma introdotto da questa interpretazione della lettera dedicatoria per affrontare da un nuovo punto di vista il problema di un'altra incongruenza cronologica. Nella lettera dedicatoria della summontina (marzo 1504) si legge che la stampa di rapina uscita a Venezia risale a tre anni addietro, cioè all'inizio del 1501: «furono or son tre anni impresse in Italia le sue colte e leggiadrissime ecloghe tutte deformate e guaste» (Dedica, 2). Tuttavia, benché la sua esistenza sia stata ipotizzata dagli studiosi sulla scorta della testimonianza di Summonte, non è stato possibile sinora reperire questa edizione del 1501, risalendo la prima edizione veneziana ad oggi conosciuta al 14 giugno 1502. Alfredo Mauro ritiene che le edizioni veneziane cui si fa riferimento nella dedica siano quelle del 14 giugno e del 22 novembre 1502.61 Egli però, partendo con il Nicolini dal presupposto «che sull'argomento [Summonte] era in grado di conoscerne infinitamente più di noi»,62 argomenta sulla scorta di due passi danteschi − Inf. vi, v. 68 e Purg. xxiii, v. 78 − che l'indicazione «or son tre anni» rinvii al 1502, includendo nel calcolo anche l'anno di partenza, secondo il computo del calendario latino.
Tuttavia, pur ammettendo che «or son tre anni» voglia dire "due anni fa", i conti non tornano. La prima edizione veneziana dell'Arcadia (14 giugno 1502) uscì infatti ventuno e non ventiquattro mesi prima della summontina (marzo 1504). Si potrebbe ribattere facendo valere che gli eventi a cui si fa riferimento nella Commedia, la caduta dei Bianchi (inizio del 1302) e la morte di Forese Donati (luglio 1296), avvengono, rispettivamente, meno di due anni dopo rispetto al momento della profezia e meno di quattro anni prima rispetto al momento della rievocazione. Tuttavia nei passi danteschi le indicazioni cronologiche rinviano a un tempo più ampio e non fanno riferimento, come invece accade nell'Arcadia, a date puntuali: nell'interpretazione di Mauro «infra tre soli» (Inf. vi, 68) significherà "entro, cioè prima, che siano passati due anni" e «cinqu'anni non son volti infino a qui» (Purg. xxiii, 78) vorrà dire "non sono ancora passati quattro anni", con perfetta coerenza rispetto alla cronologia reale di quegli eventi. Invece, anche se interpretiamo «or son tre anni» nel significato di "due anni fa" un'inesattezza, seppur lieve, continua a persistere.
Isabella Becherucci ha creduto di risolvere questa difficoltà riconoscendo qui un indizio della partecipazione di Sannazaro alla stesura della lettera. Sarebbe stato lui, male informato perché lontano dall'Italia, a introdurre questa imprecisione nella dedica:
la nuova discordante testimonianza del Summonte circa la gestione del testo dell'amico si somma al già vecchio problema indicato dalla critica circa l'inesatta indicazione della prima stampa delle egloghe sannazariane «or son tre anni» della lettera dedicatoria dell'Arcadia (nessuna edizione del 1501 è stata finora reperita) che potrebbe essere una spia del fatto che lo scrivente non documentato fosse in verità il Sannazaro.63
Questa pur suggestiva ipotesi non tiene tuttavia conto del fatto che la stampa veneziana dell'Arcadia viene presentata nella dedica come contemporanea al soggiorno francese di Sannazaro: «mentre egli in Francia dimora [...] furono or son tre anni impresse in Italia le sue colte e leggiadrissime ecloghe» (Dedica, 2). Ora Sannazaro salpò per la Francia il 2 ottobre del 1501, quindi nel marzo del 1501 (data a cui bisogna risalire se si assegna a «or son tre anni» il significato di "tre anni fa"), l'autore dell'Arcadia si trovava ancora a Napoli. Se è lecito sospettare che Sannazaro sbagliasse sulla data di pubblicazione della stampa veneziana dell'Arcadia perché male informato, mi pare improponibile l'ipotesi che la memoria fallisse sul momento esatto della sua partenza per l'esilio.
L'aporia cade non appena si consideri che il Summonte firmatario della dedica non è il Summonte storico, bensì un personaggio della penna di Sannazaro; l'incongruenza cronologica non sussiste se si osserva la questione dal punto di vista della natura estetica anziché storica dell'epistola dedicatoria dell'Arcadia. Sannazaro soggiaceva, nella stesura della dedica, all'influenza di esempi letterari illustri piuttosto che alla volontà di ricostruire fedelmente i fatti accaduti. E ciò risulta ancora più plausibile nella misura in cui è dato riconoscere ancora nella Vita Virgilii di Elio Donato il modello che ha indotto questa minima mistificazione cronologica nella dedica dell'Arcadia. Proprio qui si trova infatti l'informazione che Virgilio completò la stesura delle bucoliche in tre anni: «bucolica triennio, georgica vii, Aeneida xi perfecit annis».64 Ma ancora più importante, perché si intreccia con le vicende dell'edizione dell'Eneide, paradigma decisivo, come si è visto, per il racconto della dedica dell'Arcadia, è il fatto che nella Vita di Donato si indichi in un triennio il periodo che Virgilio avrebbe voluto trascorrere in Grecia per attendere alla correzione e al compimento del suo poema: «anno aetatis quinquagesimo secundo impositurus Aeneidi summam manum statuit in Graeciam et in Asiam secedere triennoque continuo nihil amplius quam emendare ut reliqua vita tantum philosophiae vacaret».65 È chiaro a questo punto che la finzione dei tre anni di distanza tra l'uscita della stampa veneziana e la pubblicazione della summontina serviva a Sannazaro per presentare il lavoro di correzione profuso da Summonzio sull'autografo dell'Arcadia come il corrispettivo dell'attività correttoria dell'Eneide, che Virgilio si era proposto di svolgere partendo per la Grecia, in un viaggio dal quale sarebbe tornato solo per morire a Brindisi.
Con lo stesso argomento è possibile sciogliere un ultimo nodo della lettera dedicatoria firmata da Summonte, dove si manca di menzionare, nella ricostruzione della storia editoriale dell'opera, l'edizione dell'Arcadia uscita a Napoli il 26 gennaio 1503, presso Sigismondo Mayr, lo stesso stampatore presso il quale avrebbe visto la luce proprio l'edizione summontina del 1504.66 È merito di Alfredo Mauro aver reperito nella Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena un esemplare di questa edizione, che è una «riproduzione materiale, con appena qualche correzione e qualche variante grafica e, viceversa, con parecchi nuovi errori aggiunti, della i del Vercellese, della quale conserva fedelmente anche gli errori più grossolani».67 Una ricostruzione scrupolosa della vicenda editoriale dell'Arcadia avrebbe dovuto prevedere un accenno allo «sgorbio dell'ediz. napoletana del gennaio 1503»,68 che Summonte non poteva non conoscere. Il silenzio su questa edizione è un fatto singolare, che si spiega meglio con la vocazione fittizia, letteraria del testo della dedica, piuttosto che supponendo che «il Summonte si fosse distratto, tutto vibrante com'era dello sdegno concepito contro gli impressori veneziani».69
Il riferimento a quella edizione avrebbe infatti incrinato la fabula editoriale messa in piedi da Sannazaro, rendendo poco plausibile la versione di un Summonte spinto al lavoro filologico e editoriale sull'Arcadia dall'indignazione per il torto subìto dall'amico: sarebbe apparso straniante a quel punto apprendere che Summonte non avesse trovato di meglio, per risarcire Sannazaro della pubblicazione di frodo della sua opera, che pubblicare il testo corretto e compiuto presso lo stesso stampatore che poco più di un anno prima aveva reiterato in patria lo sfregio editoriale perpetrato per la prima volta a Venezia.70 Menzionare l'edizione uscita a Napoli nel 1503 avrebbe compromesso irrimediabilmente la possibilità di presentare l'Arcadio veneziano del 1502 non solo come come atto piratesco ai danni di Sannazaro, ma anche come «vicio di impietà» nei confronti della città di Napoli, perché il primato nell'opera di riparazione del torto contro la cara patria defraudata della «sua lode» (Dedica, 5), evocando l'edizione napoletana del 1503, difficilmente sarebbe potuto essere avocato a sé da Summonte. Che l'epistola dedicatoria dell'Arcadia sia un testo fittizio, opera di Sannazaro e non di Summonte, mi pare così confermato anche perché tale ipotesi di lettura contribuisce a superare una serie di leggere contraddizioni che non si spiegano se si parte dal presupposto dell'attendibilità storica della dedica.
Riconosciuta la natura letteraria di questo testo, è ancora possibile applicare alla dedica dell'Arcadia l'etichetta, pur così in voga, di paratesto? In effetti l'analisi che ci ha consentito di riconoscere alla dedicatoria firmata da Summonte lo stigma della letterarietà parrebbe equivalere alla concessione dello statuto di "testo" a un scritto annoverato fino a un certo punto nella categoria minore di "paratesto", definito da Genette come ciò che corrisponde allo scopo di presentare (rendre présent) il testo vero e proprio, cioé di renderlo presente nel mondo, garantendone la consumazione in forma di libro.71 Tanto più che Genette indica nell'essere performativo la qualità specifica di un tipo particolare di paratesto, la dedica.72 Riconoscere la finzione come vocazione primaria di un testo significa negare proprio che la sua finalità precipua sia un'azione diversa dalla semplice rappresentazione del mondo attraverso la lingua. Pertanto la funzione primaria di una dedica che si scopre fittizia non può consistere né nella "presentazione" del testo (perché essa stessa è testo), né nel compimento del dono simbolico e pubblico di un oggetto ideale come l'opera dedicata, poiché la finzione di un dono non è un dono.
L'apparentemente ovvio principio di non porre nella stessa categoria concettuale una cosa reale e la copia fittizia di questa cosa (una cosa è costruire un letto, altro è dipingerne uno, distinguerei con Platone),73 non pare tuttavia osservato da Genette, che cataloga tra i paratesti, quindi tra i testi eminentemente presentativi, anche le dediche i cui dedicanti o dedicatari siano palesemente fittizi: «En tête d'un récit de fiction à la première personne, qu'est-ce qui interdirait au héros-narrateur d'endosser une dédicace?».74 E ancora: «Certaines œvres de fiction sont dédiées, par métalepse, à l'un de leurs personnages».75 Il critico francese pare sospettare l'incompatibilità tra la sua definizione di paratesto e il carattere di finzione letteraria solo al momento di considerare la distinzione tra prefazioni autentiche e prefazioni fittizie:
Tout d'abord, la présence de destinateurs qualifiés de «fictifs» ou d'«apocryphes» peut sembler contraire au principe général, qui veut que l'on prenne le paratexte au mot et à la lettre, toute incrédulité, voire toute aptitude herméneutique suspendues, et qu'on le tienne pour tel qu'il se donne: selon cette règle, «Laurence Templeton» donné pour auteur-dédicateur-préfacier d'Ivanhoe devrait être tenu pour tel, sans réserve ni guillemets, et toute question sur ce point serait aussi déplacée qu'une enquête sur la véritable identité, disons, du rédacteur de la préface de Cromwell.76
Ma il dubbio ha tempo di vivere lo spazio appunto di un tout d'abord. Il critico infatti salva la sua classificazione delle prefazioni in autentiche, fittizie e apocrife, ammetendo che in alcuni casi lo statuto di paratesto è presente come una «fiction officielle», come un tacito patto tra autore e lettore a dissimulare una verità che tutti conoscono ma che nessuno ha interesse a svelare.77 Ma questa "finzione ufficiale" non è forse il fondamento stessa della finzione letteraria? Questo tacito patto tra autore e lettore non è proprio ciò che costituisce essenzialmente il testo letterario, il "testo" che può essere presentato o donato da un "paratesto"? Parlare di un paratesto nei termini di "finzione ufficiale" mi pare dunque una contraddizione in termini, equivalendo a dire che in alcuni casi il paratesto si presenta come testo; assunto che, una volta ammesso, è destinato a destituire di scientificità qualsivoglia distinzione concettuale tra i due domini. Affinché la categoria di "paratesto" possa essere ammessa in una teoria della letteratura che aspiri a essere genuinamente scientifica, essa dovrà limitarsi unicamente a quei casi che Genette definisce authentique,78 dove il paratesto si presenta esplicitamente come opera di una persona reale, del tutto estranea al gioco della finzione. E da questa categoria pure dovranno essere esclusi i paratesti che Genette definisce actorial,79 cioè i paratesti il cui autore preteso è un personaggio dell'azione fittizia. L'etichetta di "paratesto" mi pare applicata legittimamente solo nei casi che Genette definisce auctorial authentique e allographe authentique, dove cioè l'autore preteso del paratesto è una persona reale, coincida essa o no con l'autore.80 Tutto il resto, comprese le dediche fittizie, dovrà essere considerato "testo" a tutti gli effetti.
L'aporia teorica di includere nella categoria di paratesto anche i testi fittizi è stata propiziata a mio avviso dalla mancata presa di coscienza da parte del critico francese del fatto che nella questione della distinzione tra testo e paratesto entra in gioco la nozione stessa di "letterarietà". La definizione minimalista di testo fornita da Genette in apertura di Seuils («une suite plus ou moins longue d'énoncés verbaux plus ou moins pourvus de signification»),81 è troppo generica per fondare la distinzione tra testo e paratesto. Anche quest'ultimo infatti può essere legittimamente definito come una sequenza più o meno lunga di enunciati più o meno significativi. Che dal punto di vista linguistico anche il paratesto rappresenti un testo è fatto riconosciuto d'altronde da Genette stesso: «titres, préfaces, interviews, autant d'énoncés, d'étendues fort diverses [...] partagent le statut linguistique du texte».82 Non si tratta quindi qui di definire il testo dal punto di vista linguistico, bensì di indicare il quid, la differenza specifica che fonda la distinzione del testo letterario dagli altri tipi di testo, e in particolare da un tipo particolare di testo, il paratesto.
Questa differenza specifica va ricercata in quella finalità che si trova in cima alla scala gerarchica dei fini sottesa a ogni espressione linguistica. Ora, la finalità ultima di un testo letterario consiste nel suscitare piacere estetico; e piacere estetico non si dà senza finzione, cioè senza sospensione della pretensione di realtà che si esercita normalmente di fronte a qualsivoglia uso della lingua. La finzione, pur non coincidendo tout court con la letterarietà è tuttavia tratto consustanziale, distintivo, mi verrebbe da dire "trascendentale" dell'opera letteraria. Viceversa un paratesto è un'espressione linguistica che ha come finalità principale la "presentazione" di un altro testo, sia quest'ultimo un testo letterario, storiografico, scientifico o filosofico.
Alla luce di queste premesse una dedica fittizia non può non essere considerata "testo" a pieno titolo. Riconosciuto il suo carattere fittizio, possiamo dunque sostenere senza remore che la dedica dell'Arcadia è a tutti gli effetti testo e non paratesto? No, anche questo sarebbe riduttivo. Il romanzo di Sannazaro è congegnato infatti in maniera che anche il lettore più avveduto non possa accorgersi della natura fittizia, letteraria della dedica se non a lettura ultimata. Solo dopo aver appreso dalla prosa vii che il personaggio principale dell'opera si chiama Sannazaro come il «Messer Iacobo Sannazaro» della dedica e che il realismo storico alimenta in maniera sostanziale la finzione del romanzo, ma soprattutto solo dopo aver constatato la coincidenza tra i due protagonisti dell'ecloga xii (Summonzio e Barcinio) e coloro che nell'epistola dedicatoria compaiono come editori dell'Arcadia (Summonzio e Cariteo) il lettore non può fare a meno, anche se in modo irriflesso, di considerare le vicende raccontate nella dedica come prosecuzione dell'azione romanzesca. Delibata prima di iniziare la lettura del romanzo la dedica dell'Arcadia è destinata invece a essere recepita come una prefazione all'opera scritta da Summonte, la cui versione dei fatti non è a prima vista implausibile, nonostante l'attendibilità della sua ricostruzione sia incrinata da qualche approssimazione che probabilmente non sarà sfuggita neppure ai lettori di primo Cinquecento. La lettera dedicatoria dell'Arcadia è dunque sia testo che paratesto: paratesto come testo che segna la soglia iniziale del libro, testo come ultimo atto della fabula, in cui il romanzo trova la sua conclusione.83
Se, come mi pare, nella dedica e non nel congedo va cercato il finale dell'Arcadia di Sannazaro, le parole conclusive della dedicatoria assumono un rilievo altissimo, suggellando il romanzo con un adattamento del trittico metaforico − il naufragio, i frammenti, il porto − ricavato dalla dedica della Raccolta aragonese e dal proemio delle Genealogiae deorum gentilium di Boccaccio. All'inizio abbiamo riconosciuto in questa metafora il segno di una eccezionale consapevolezza intellettuale: applicare alla propria opera, l'Arcadia, l'immagine del naufragio, che nell'epistola della Raccolta aragonese è riferita alle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio e degli altri grandi della letteratura italiana fino a Lorenzo, significava riconoscere a se stesso dignità letteraria altissima. Tuttavia, ora che l'indagine ha fatto assurgere queste parole a una condizione di rilevanza privilegiata come è quella delle ultime parole di un'opera, vorrei evitare l'impressione che Sannazaro affidasse il finale della sua Arcadia a un gesto plateale di mero orgoglio intellettuale.
Di vivissimo orgoglio intellettuale è testimonianza il passo del congedo in cui il personaggio-poeta ribadisce contro i suoi detrattori il merito di aver reinventato il genere bucolico dopo Virgilio, dopo che nella poesia bucolica si erano cimentati in latino Dante, Petrarca e Boccaccio, e in volgare Boiardo, De Jennaro, i bucolici senesi: «a te non picciola scusa fia lo essere in questo secolo stata prima a risvegliare le adormentate selve, et a mostrare a' pastori di cantare le già dimenticate canzoni» (Congedo, 15). Ma l'allusione finale alla Raccolta aragonese aveva una portata storica oltre a essere un atto di orgogliosa storiografia letteraria. In essa Sannazaro profondeva il sentimento di nostalgia per l'intesa tra Firenze e Napoli, che aveva rappresentato negli ultimi decenni del Quattrocento il baluardo più forte a difesa dell'equilibrio italiano contro le mire espansionistiche di Francia e Spagna.
Esule in Francia, al séguito di Federico d'Aragona, destinatario della lettera prefatoria della Raccolta aragonese e ultimo esponente di una famiglia reale ormai sradicata dal Regno di Napoli, dopo la discesa di Carlo VIII e la definitiva vittoria degli spagnoli, Sannazaro doveva rimpiangere malinconicamente la sagacia politica di Lorenzo il Magnifico, la «virtù che Italia tutta onora»,84 come aveva scritto nel sonetto vii delle sue Rime. E forse proprio con la citazione allusiva dalla dedicatoria della Raccolta aragonese, scritta da Poliziano ma firmata da Lorenzo, Sannazaro intendeva dare séguito nel finale dell'Arcadia alla promessa formulata nelle terzine del sonetto dedicato qualche anno prima al signore di Firenze:
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E se destin mi alzasse in quella parte
ove Ippocrene versa il sacro fiume,
per cui grazia si acquista, ingegno et arte,
farei, di te cantando, tal volume,
che fusse il nome tuo per mille carte
memoria al mondo sempiterno e lume.85
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Quello dell'Arcadia era un tributo apparentemente dissimulato e dimesso, ma in realtà altissimo, conveniente al fine palato di Lorenzo poeta più che alle orecchie, assuefatte alle lodi, dell'uomo di stato.
V. V.
Note
1 Contributi decisivi alla ricostruzione della storia compositiva, filologica ed editoriale dell'Arcadia hanno dato Alfredo Mauro, Maria Corti e Gianni Villani. Cfr. M. Corti, Le tre redazioni della 'Pastorale' di P. J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell''Arcadia', in «GSLI», lxxi, 1954, 395, pp. 305-51; A. Mauro, Le prime edizioni dell''Arcadia' del Sannazaro, in «Giornale italiano di filologia», ii, 1949, pp. 341-51; G. Villani, Per l'edizione dell''Arcadia' del Sannazaro, Roma, Salerno, 1989. L'epigrafe è tratta da G. Gorni, Il canzoniere, in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 113-34; la cit. è a p. 131, nota 22. .
2 Cito da I. Sannazaro, Arcadia, Introduzione e commento di C. Vecce, Roma, Carocci, 2013, che privilegia la cosiddetta "summontina corretta" (SI), uscita a Napoli dopo il 1504 (probabilmente nel 1507) senza data e indicazioni bibliografiche: cfr. C. Vecce, Nota al testo, in Sannazaro, Arcadia cit., pp. 43-53. L'individuazione e la descrizione di SI si devono a Villani, che colloca la data di uscita di questa edizione tra il 1504 e il 1509: cfr. Villani, Per l'edizione dell'Arcadia cit., pp. 15-18. Indico in numeri arabi i paragrafi della dedica e del congedo; indico le prose in numero romano, seguito da numero arabo per il paragrafo; numero romano seguito da e per le ecloghe, con numero arabo per i versi.
3 Cfr. Mauro, Le prime edizioni dell''Arcadia' cit., pp. 341-47.
4 Marina Riccucci ha avanzato l'ipotesi persuasiva che il Libro pastorale nominato Arcadio sia stato pubblicato in forma manoscritta all'inizio del 1486, sotto la spinta degli eventi della fine del 1485 (alleanza tra il pontefice Innocenzo VIII e i baroni ribelli e conseguente dichiarazione di guerra a Ferrante), con la volontà di rendere pubblica la sua posizione di fedeltà alla corona aragonese prima che i destini della congiura fossero decisi. Cfr. M. Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio': un'ipotesi di datazione, in Ead., Il 'neghittoso' e il 'fier connubio'. Storia e filologia nell''Arcadia' di Jacopo Sannazaro, Napoli, Liguori, 2001, pp. 161-204, in particolare pp. 190-95.
5 Cfr. Villani, Per l'edizione dell''Arcadia' cit., p. 30. L'indicazione che il manoscritto Vat. Barb. Lat. 3964 (Vb) è sicuramente anteriore al 20 agosto 1488, data di morte di Ippolita Maria Sforza, è in G. Velli, Sannazaro e le 'Partheniae Myricae': forma e significato dell''Arcadia', in Id., Tra lettura e creazione. Sannazaro. Alfieri. Foscolo, Padova, Antenore, 1983, pp. 1-56; in particolare p. 15, nota 9.
6 Cfr. Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio' cit., p. 190.
7 Cfr. A. Luzio-R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, a cura di S. Albonico, Introduzione di G. Agosti, Indici e apparati a cura di A. Della Casa, M. Finazzi, S. Signorini, R. Vetrugno, Milano, Sylvestre Bonnard, 2005, p. 253: «Rasonassimo anchora de le opere d'esso Sanazario, et perché io gli haveva decto che l'Archadio suo molto incorrecto era stampato, el Re p.to et lui ne presero gran dispiacere, maxime che non era compito né emendato, facendome instantia ch'io gli ne facesse havere uno così come se ritrovava adfinché se potesse corregere et provedere ad tanto errore».
8 Cfr. C. Vecce, Cronologia dei viaggi di Sannazaro e Federico d'Aragona in Francia, appendice a Id., Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all'inizio del XVI secolo, Padova, Antenore, 1988, pp. 178-86; in particolare p. 179.
9 Mio il corsivo, così nel séguito salvo indicazione contraria.
10 Funzione di archetipo di tutta la tradizione dedicatoria fino alle dediche di Monti a Napoleone (con speciale riferimento al topos di Alessandro che piange sul sepolcro di Achille cantato da Omero), è riconosciuta alla lettera proemiale della Raccolta aragonese da Maria Antonietta Terzoli, in Ead., I margini dell'opera nei libri di poesia: Strategie e convenzioni dedicatorie nel Petrarchismo italiano, in «Neohelicon», LX, 2010, pp. 155-80, in particolare pp. 163-64, http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs11059-010-0060-y.
11 Lorenzo de' Medici il Magnifico, Opere, a cura di A. Simioni, vol. i, Bari, Laterza, 19392, p. 5.
12 Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio' cit., p. 203.
13 G. Boccaccio, Genealogie deorum gentilium libri, a cura di V. Romano, vol. i, Bari, Laterza, 1951, p. 7.
14 Ivi, vol. ii, p. 680.
15 Ivi, vol. i, p. 10.
16 M. Corti, Sannazaro, Iacobo (1457-1530), in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Redattori A. Balduino, M. Pastore Stocchi, M. Pecoraro, vol. iii, Torino, Utet, 1973, pp. 299-305; la cit. è a p. 299.
17 I. Becherucci, L'importanza della summontina, in Ead., L'alterno canto del Sannazaro. Primi studi sull''Arcadia', Lecce, Pensa MultiMedia, 2012, pp. 11-46 (già in «Medioevo e Rinascimento», xxv, n. s. xxii, 2011, pp. 249-77, col titolo Intorno alla prima edizione integrale dell''Arcadia' del Sannazaro), la cit. è a p. 40. Cfr. ancora ivi, p. 38: «quella bellissima lettera di dedica, a cui forse non fu del tutto estraneo il Sannazaro»; a p. 38 si parla di «intervento nella composizione della dedica» e a p. 39: «quella lontana (nel tempo) prima dedica, in cui sempre di più non mi sembra estranea la mano dell'autore dell'opera». Di «possibile paternità sannazariana» si parla invece in I. Becherucci, 'Teatralità' dell'Arcadia: prima ed ultima scena, in La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena, Atti del xvi Congresso Nazionale ADI, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, ADI editore, 2014, p. 8, nota 24.
18 Cfr. Becherucci, L'importanza della summontina cit., pp. 37-38. L'affermazione che si legge nella Prefazione al De Fortuna di Giovanni Pontano, secondo la quale Summonte avrebbe lavorato all'edizione dell'Arcadia prima della stampa pirata del 1502, è infatti in contraddizione con la versione dei fatti che l'umanista napoletano fornisce nell'epistola dedicatoria del 1504, dove afferma di aver approntato l'edizione a stampa dell'opera dell'amico per ovviare alla operazione piratesca degli «impressori veneziani» (Dedica, 2) e di aver agito senza «ordinazione» (ivi, 4) dell'autore. Da questa incongruenza si può dedurre secondo Becherucci l'esistenza «di un accordo già preso con l'autore per pubblicare l'opera giovanile, probabilmente prima della partenza del Sannazaro per la Francia» (ivi, p. 38).
19 Cfr. ivi, p. 38: «se già l'estrema eleganza del dettato - indubbiamente un capolavoro di scrittura in volgare che meriterebbe un'approfondita analisi stilistica in riservata sede - porterebbe a richiedere la partecipazione di un grande scrittore alla sua stesura».
20 Ibid.
21 J. Sannazaro, Elegie, in Id., Egloghe-Elegie-Odi-Epigrammi, Testo con traduzione a fronte, introduzione e note a cura di G. Castello, pp. 59-147; la cit. è a p. 90 (cfr. anche la traduzione in Becherucci, La meditazione sulla croce (con postilla poetica), in ead., L'alterno canto cit., pp. 133-53; la trad. è a p. 153). Si noti qui la ripresa quasi letterale della iunctura boccaccesca «reliquias colligam» (cfr. supra, p. 4). Becherucci fissa il 1480 come termine ante quem per la composizione della prima redazione dell'elegia (cfr. ivi, pp. 34-35, note 59 e 61). Tuttavia se il riferimento alla madre viva («vel saltem matre vidente mori», Eleg. i, 10, v. 2) è utilizzato per collocare la stesura della prima redazione dell'elegia prima della morte di Masella (probabilmente 1480), anche la lontananza dalla patria cui si fa allusione nell'elegia dovrebbe essere considerata un avvenimento reale. Ma quale viaggio lontano da Napoli e dalla madre Sannazaro avrebbe intrapreso prima del 1480?
22 I. Sannazaro, Sonetti e canzoni, in Id., Opere volgari, a cura di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, pp. 133-220; la cit. è a p. 135.
23 Cfr. Becherucci, L'importanza della summontina cit., p. 39.
24 L'implicito rinvio al Canzoniere di Petrarca del termine frammenti è già rilevato da Gorni, che per naufragio rimanda al canzoniere di Giovanni Aloisio, intitolato appunto Naufragio: «qui il libro di poesia, e il suo stesso nome, periclitano proprio tra Fragmenta e Naufragio» (Gorni, Il canzoniere cit., p. 131, nota 22). Dalla presenza del termine frammenti e di altre spie petrarchesche nella dedica delle Rime di Sannazaro Maria Antonietta Terzoli ha dedotto la funzione proemiale di questo testo: «Gli echi dal primo sonetto del Canzoniere di Petrarca ("vane", "giovenili", "pietosa venia"), in un testo in cui si menzionano tra l'altro i "fragmenti", indicano chiaramente ancha la funzione proemiale di questa prosa elaboratissima e sapiente» (Terzoli, I margini dell'opera cit., p. 165).
25 T. Tasso, Gerusalemme liberata, Prefazione e note di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1971, iv, vv. 1-6, p. 14.
26 Ivi, i, v. 3, p. 13. La ripresa è indicata in G. Contini, Letteratura italiana del Quattrocento, Firenze, Sansoni, 1976, p. 130, nota 6.
27 Lorenzo de' Medici il Magnifico, Opere cit., pp. 3-4. Oltre alla dedica delle Rime di Sannazaro e alla dedicatoria della Raccolta aragonese sul testo della Liberata agisce anche il proemio del canto xvi dell'Orlando furioso, come segnalato in S. Zatti, L'ultimo esordio del "Furioso" e la dedica della "Liberata", in Strategie del testo. Preliminari Partizioni Pause, Atti del XVI e del XVII Convegno Interuniversitario (Bressanone, 1988 e 1989), a cura di G. Peron, Premessa di G. Folena, Padova, Esedra, 1995, pp. 159-67.
28 J. W. Goethe, Torquato Tasso, in Id., Goethes Werke, Hamburger Ausgabe in 14 Bänden hrsg. von E. Trunz, Bd. v, Dramatische Dichtungen iii, Textkritisch durchgesehen von L. Blumenthal und E. Haufe, Kommentiert von S. Atkins, D. Lohmeier, W. Loos und M. Robert, München, Beck, 1998, pp. 75-167, la cit. è a p. 167, v, 5, vv. 3448-53.
29 Cfr. Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio' cit., pp. 199-200.
30 Nella «consapevolezza dell'impossibilità di documentare oggettivamente l'effettiva partecipazione dell'autore alla stesura della lettera di dedica dell'Arcadia», la studiosa pare in effetti ripiegare alla fine del suo saggio sulla più cauta tesi secondo la quale l'autocitazione della dedica dell'Arcadia nella lettera dedicatoria delle Rime corrisponde alla volontà da parte di Sannazaro di testimoniare, a distanza di anni, consentimento e soddisfazione pieni per le fatiche editoriali di Summonte, intraprese a suo tempo senza l'autorizzazione dell'autore (cfr. Becherucci, L'importanza della summontina cit., p. 40).
31 M. Corti, Il codice bucolico e l''Arcadia' di Jacobo Sannazaro, in Ead., Nuovi metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 281-304; la cit. è a p. 294; (già in «Strumenti critici», vi, 1968, pp. 141-67).
32 Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio' cit., p. 204.
33 Vecce, Nota al testo cit., pp. 44-45.
34 F. Erspamer, Nota al testo, in I. Sannazaro, Arcadia, A cura di F. Erspamer, Milano, Mursia, 1990, pp. 40-45, la cit. è a p. 45.
35 Completamente d'accordo con Erspamer mi trova invece la scelta di redintegrare nella posizione originaria, in testa al libro, la dedica dell'Arcadia, espunta dagli altri editori moderni (Scherillo, Carrara, Mauro) ed emarginata in appendice ancora da Vecce. Sulla necessità di conservare il testo della dedica in apertura del libro, cfr. anche Becherucci, 'Teatralità' dell'Arcadia cit., p. 8, nota 24.
36 Cfr. Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio' cit., p. 200.
37 Cfr. J. Sannazaro, Arcadia, Introduzione e note di E. Carrara, Con tre tavole, Torino, Utet, 1926, commento ad locum, p. 150: «Forse la stampa dell'Arcadia incompiuta; forse l'esilio volontario».
38 Proprio alla luce della «forte connessione» tra questo passo del congedo e l'elegia a Giovanni di Sangro sottolineata in Becherucci, L'importanza della summontina cit., p. 36, si può forse interpretare il «malvagio accidente» del congedo come un riferimento all'esilio in Francia, conseguente alla crisi del 1501. Nell'elegia in questione il poeta si rammarica infatti di non poter correggere alcuni testi perché lontano dalla patria a causa di un amore infelice. Anche la citazione dalle Georgiche di Virgilio («quos durus arator / observans nido inplumis detraxit», Georg. iv, vv. 512-13), che costituisce l'elemento di connessione più forte tra i due testi (cfr. Becherucci, ivi, p. 36), induce a interpretare in questo senso. I versi sono tratti da un luogo virgiliano in cui è svolta per similitudine la descrizione dell'inconsolabile sofferenza di Orfeo: il mitico cantore è paragonato a un usignolo che lamenta col canto la perdita dei figli, rapiti da un contadino crudele ancora implumi. La situazione di Orfeo non è dissimile da quella di un esiliato d'amore, giacché egli si trova in un mondo diverso (quello dei vivi) da quello in cui è trattenuta l'amata Euridice (il regno dei morti). Un rinvio diretto alla lontananza dalla patria non sembra d'altronde in contraddizione col riferimento nel paragrafo successivo del congedo all'episodio della stampa di rapina del 1502. L'ipotesi che il «malvagio accidente» sia da individuare nell'esilio volontario è già accennata dubitativamente da Carrara (cfr. nota precedente).
39 Vergilii vita donatiana, in Vitae vergilianae, recensuit I. Brummer, Lipsiae, in aedibus Teubneri, mcmxxxiii, pp. 1-19, la cit. è a p. 9.
40 viiie, vv. 100-102: il rinvio è segnalato già nel commento di Vecce (p. 193).
41 Cfr. Corti, Il codice bucolico cit., p. 303: «Al Virgilio delle Bucoliche subentra con funzione dominante quello delle Georgiche e dell'Eneide: i giochi funebri, che occupano quasi per intero la prosa xi, sono uno stupefacente calco dei giochi funebri del libro v dell'Eneide».
42 Il sintagma è nella lettera lii di Sannazaro ad Antonio Seripando datata 13 aprile 1521, per cui cfr. Sannazaro, Lettere, in Id., Opere volgari cit., pp. 307-94; la cit. è a p. 372. Proprio dalle lettere all'ex-segretario di Luigi d'Aragona (in cui lo scrittore si difende, adducendo luoghi delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide dagli appunti, sia estetici sia teologici, mossigli dal cenacolo umanistico romano al quale aveva affidato il compito di emendare il De partu Virginis), si ricava la misura altissima del ruolo che l'opera di Virgilio svolse nella formazione della sensibilità estetica di Sannazaro.
43 Vergilii vita donatiana cit., pp. 2-3. Forse non casuale è il ricorso da parte di Contini all'aggettivo «valetudinario» (Contini, Letteratura italiana cit., p. 314) per descrivere l'indole splenetica e ipocondriaca di Sannazaro.
44 Lett. ix, in Sannazaro, Lettere cit., p. 316; lett. x, ibid.
45 Lett. xviii, ivi, p. 324.
46 Lett. xlvii,ivi, p. 365.
47 Lett. xlix, ivi, p. 367.
48 Lett. li, ivi, p. 368.
49 Lett. liii, ivi, p. 384
50 Lett. liv, ivi, p. 389.
51 Luzio-Renier, La coltura e le relazioni cit., p. 254.
52 Cfr. ivi, p. 257: «Per obedire la Ill.ma S. V. ho furato ad mes. Jacobo Sannazaro alcune cose, quale mando ad V. S. Ill.ma, et per lo poco tempo che ho havuto non possuto robare più opere; appresso me forczarò robare de le altre et le manderò ad V. S. Ill.ma».
53 Terzoli, I margini dell'opera cit., p. 165.
54 Ibid.
55 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, A 213.
56 Riccucci, Il 'libro intitulato Archadio' cit., p. 199.
57 Becherucci, L'importanza della summontina cit., p. 31.
58 Ibid.: «la coincidenza suggerisce alle spalle un'opportuna regia con tanto di mandato a chi non avrebbe potuto non assumere un tale onere».
59 Cfr. F. D. E. Schleiermacher, Hermeneutik und Kritik, Mit einem Anhang sprachphilosophischer Texte Schleiermachers, Herausgegeben und eingeleitet von M. Frank, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 19904 (1a ed. 1977), in particolare pp. 97-99.
60Per l'ascendenza letteraria e il significato di questa immagine cfr. M. Riccucci, Il tema dei 'lupi'. Lettura della seconda egloga dell''Arcadia', in Ead., Il neghittoso e il fier connubio cit., pp. 103-60. Per le radici storico-sociali di questa immagine, cfr. M. Santagata, Realtà storica e aporie narrative nell''Arcadia', in «GSLI», cli, 1974, 473, pp. 39-71, in particolare pp. 47-54.
61 Cfr. Mauro, Le prime edizioni dell''Arcadia' cit., p. 350.
62 Ibid.
63 Becherucci, L'importanza della summontina cit., p. 38.
64 Vergilii vita donatiana cit., p. 6.
65 Ivi, pp. 7-8.
66 Cfr. Mauro, Le prime edizioni dell''Arcadia' cit., pp. 347-48.
67 Ivi, p. 347.
68 Ivi, p. 350.
69 Ivi, p. 351.
70 Considerazione già accennata da Mauro; cfr. ivi, p. 350: «egli [Summonte] tacque, non dico dell'ediz. milanese del gennaio 1504, che, troppo recente, poteva non essergli nota, ma dello sgorbio dell'ediz. napoletana del gennaio 1503, che non poteva non conoscere, e che non poteva ricordare senza bollare quello stesso e medesimo editore Sigismondo Mayr che stampava allora la sua nuova e che avrebbe poi stampato, anche a sua cura, e le rime del Cariteo e le opere tutte del Pontano».
71 Cfr. G. Genette, Seuils, Paris, Éditions du Seuil, 1987, p. 7.
72 Ivi, p. 17.
73 Cfr. Platone, Repubblica, x 596 D-598 D.
74 Genette, Seuils cit., p. 133.
75 Ivi, p. 136.
76 Ivi, p. 184.
77 Ivi, p. 185, corsivo dell'autore.
78 Ivi, p. 182.
79 Ivi, pp. 181-82.
80 Ivi, p. 185.
81 Ivi, p. 7.
82 Ivi, p. 13.
83 Di "paratesti fittizi" o "pseudo-paratesti" si parla per operazioni analoghe attuate nei romanzi epistolari in M. A. Terzoli, Strategie narrative e finzione di verità nel romanzo epistolare, in Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, a cura di S. Costa, M. Venturini, Pisa, Edizioni ETS, 2010, vol. i, pp. 23-44, in particolare pp. 27-34.
84 Sannazaro, Sonetti e canzoni cit., vii, v. 4, p. 140. Il riconoscimento di Lorenzo il Magnifico dietro il «signore […] buono» (vii, v. 3) che Sannazaro dichiara di amare non per la ricchezza ammirata dal volgo, ma per la virtù politica è merito di Dionisotti. Cfr. C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «GSLI», lxxx, 1963, 430, pp. 161-211, in particolare pp. 171-72: «A differenza del testo a stampa, la tradizione manoscritta del sonetto ci accerta che il magnifico signore si chiamava Lorenzo. È chiaro che fino a contraria prova bisogna riconoscere nel sonetto l'entusiastico omaggio, di cui è superfluo sottolineare l'importanza storico-letteraria nel quadro dei rapporti fra Napoli e Firenze, reso dal giovane Sannazaro al Magnifico Lorenzo de' Medici».
85 Sannazaro, Sonetti e canzoni cit., vii, vv. 9-14, p. 140.