Marianna Villa
Ai margini del Cortegiano: la dedicatoria d’autore al Da Silva
L’epistola al Da Silva, dedicatoria d’autore, compare nell’edizione princeps del 1528 (Venezia, «nelle case d’Aldo Romano & d’Andrea d’Asola suo suocero») e si presenta come testo autonomo, materialmente separato dal Cortegiano1 e precedente ad esso, finendo per sovrapporsi ai quattro proemi in forma di dedica ad Alfonso Ariosto, già composti in precedenza e incorporati nel testo all’inizio di ogni libro senza marcature formali. Quella del primo Cinquecento è una fase in cui la dedica è oramai già autonoma dall’opera, ma presenta ancora una struttura fluida, “liquida,” rispetto a quello che accadrà dalla metà del secolo, con la codifica dei topoi e la sclerotizzazione delle strutture.2 Nel caso in esame la separazione materiale della dedicatoria denuncia anche la differente genesi della stessa e di conseguenza la volontà di adeguare l’opera ai mutamenti nel frattempo intercorsi, prima di tutto la morte di Alfonso Ariosto, del 29 giugno 1525, che costringeva Castiglione alla ricerca di un nuovo dedicatario, essendo ritenuto sconveniente pubblicare un testo dedicato ad un morto, come messo ampiamente in luce dagli studiosi.3 Se l’impianto delle dediche ad Alfonso Ariosto viene continuamente rimaneggiato lungo tutto il processo elaborativo del Cortegiano a partire dal 1513-14, e trova il suo assetto definitivo solo nell’ultima redazione (il manoscritto Laurenziano Ashburnhamiano 409 (L), esemplato da un copista nel 1524 ed inviato in tipografia a Venezia, dalla Spagna, nel 1527), l’epistola dedicatoria al Da Silva viene scritta di getto e inviata autonomamente da L tra l’aprile 1527 e la primavera dell’anno successivo, dato che la stampa dell’opera si conclude nell’aprile 1528, in corrispondenza quindi della revisione del Valier e della preparazione della stampa.4 Si tratta insomma di un’inserzione tardiva che più di ogni altra porzione testuale testimonia la volontà, i dubbi e le perplessità di un autore lontano dalla sede tipografica, fornendo, insieme alle numerose lettere autografe, una preziosa testimonianza dei rapporti tra autori, stampatori ed intermediari nella storia editoriale del Cinquecento. Note sono infatti le resistenze degli eredi di Aldo Manunzio di fronte alle continue sollecitazioni degli amici di Castiglione,5 personaggi autorevoli e influenti come Ludovico di Canossa e Giovan Battista Ramusio, che aveva portato L a Venezia, ma anche letterati quali Sadoleto e Bembo,6 fino all’accordo finale che prevedeva l’esborso, da parte dell’autore, del denaro necessario per l’acquisto di metà della carta.
Le circostanze di composizione dell’epistola dedicatoria sono significative anche in riferimento all’assetto fonomorfologico del testo. Mentre L era a Venezia, infatti, venne sottoposto alla revisione di Giovan Francesco Valerio, il famoso ‘ultimo revisore’, non un correttore di professione né un vero e proprio filologo, ma un personaggio scelto entro l’ambiente veneziano dal gruppo di intellettuali e amici di Castiglione sopra menzionati, a causa della sua competenza linguistica e della sua formazione classicistica. Il Valier, che probabilmente accettò l’incarico per amicizia e stima verso Castiglione,7 è intervenuto a livello fonomorfologico uniformando il testo agli usi del mercato librario, cercando invece di rispettare le osservazioni di Castiglione sulla lingua, quindi con minore fedeltà al dettato bembiano in relazione alla sintassi e al lessico. Castiglione, che non potè controllare gli interventi del Valier, probabilmente li accettò come male minore in vista della pubblicazione,8 allo stesso modo in cui aveva accettato, a livello fonomorfologico, le soluzioni adottate dai vari copisti che erano intervenuti durante l’arco di elaborazione dell’opera.9 Gli interventi dell’‘ultimo revisore’ sono andati a formare un corpo unico con il testo mandato da Castiglione dalla Spagna, uniti ad alcune modifiche a livello contenutistico, e sono stati individuati e isolati da Ghinassi10 sul Laur. Ashb. 409, il manoscritto usato in tipografia.11 Per quanto riguarda invece la dedicatoria, l’inesistenza di varianti, per quanto ci è dato di sapere, unita al fatto che è stata aggiunta tardivamente in un’edizione ne varietur con privilegio, fa pensare che gli interventi correttori del Valier (ben identificabili in L) siano invece stati minimi o del tutto assenti nell’epistola, che per altro, a livello contenutistico, riafferma la superiorità della lingua d’uso rispetto al modello bembiano, riprendendo (e quindi di fatto anticipando) la questione linguistica presente nel primo libro del Cortegiano. Castiglione dunque, nel momento di licenziare l'opera sottoposta alla revisione di altri, considera l’epistola dedicatoria come un’occasione per esprimere la propria opinione in materia linguistica, conferendo ad essa la funzione di ultimo congedo.
Nel suo studio pionieristico sul paratesto, già Genette ne aveva messo in luce il ruolo funzionale rispetto all’opera, in quanto «discorso formalmente eteronomo, ausiliare, al servizio di qualcos’altro, che costituisce la sua ragion d’essere, e che è il testo».12 Eppure gli studiosi, nel caso in esame, hanno generalmente rilevato la difficoltà di Castiglione di integrare i due sistemi di dediche, ovvero l’epistola al Da Silva aggiunta tardivamente nella princeps del 1528 e i proemi in forma di dedica che rimangono intitolati ad Alfonso Ariosto, già presenti nel 1524.13 Tuttavia un’analisi di tali porzioni testuali dal punto di vista dei luoghi tipici della dedica e degli elementi retorici generalmente ricorrenti mostra piuttosto un rapporto di complementarietà intenzionale: esiste una disseminazione di molti dei topoi convenzionali, per cui quelli ravvisabili nei proemi dei quattro libri dell’opera generalmente non sono più reduplicati nella dedicatoria al Da Silva o subiscono significative variazioni, proprio per non creare inutili sovrapposizioni o peggio incoerenze imbarazzanti, come l’elogio di due diversi patroni. Si spiegherebbe così la peculiarità della dedicatoria al Da Silva, che sembra contraddire «lo statuto proprio del genere della dedica»14 (e in effetti lo fa), dal momento che non viene celebrato l’intestatario né sono evidenti il motivo della dedica o la relazione con il dedicante, la cosiddetta convenientia: si tratta di aspetti che si ritrovano appunto nei proemi dei libri e in altre parti del Cortegiano, e dunque non replicati. Di conseguenza il ripiegamento «narcisistico» della dedicatoria su se stessa, la sua funzione «prefativa» e di «primo intervento critico»15 sul Cortegiano sarebbero ascrivibili alla precisa volontà di Castiglione di non sovrapporsi ad altre porzioni testuali precedentemente composte, e nel contempo rispondere a bisogni immediati, concreti, del 1527, ovvero giustificare e promuovere la pubblicazione della propria opera, non più la sua composizione, conferendo all’epistola una funzione autopromozionale e non più certamente encomiastica, dato che oramai il libro era entrato nei meccanismi editoriali connessi all’ars artificialiter scribendi, slegandosi dalla corte urbinate.
Come consuetudine, è nei capitoli esordiali che si ritrovano i topoi della lode verso l’ambiente cortigiano. A differenza di quanto accade nel 1527 con il Da Silva, definito un vescovo «reverendo» ed «illustre»,16 l’intestazione ad Alfonso Ariosto, replicata identica all’inizio di ciascuno dei quattro libri, risulta neutra, priva di superlativi e appellativi, sostituiti dalla semplice qualificazione di «messere»: «IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTI/GLIONE A’ MESSER ALPHON-/SO ARIOSTO». Tocca allora al proemio in forma di dedica del primo libro giustificare la convenientia di tale dedicatario attraverso i topoi dell’amicizia e affetto di matrice ciceroniana: compaiono pertanto i superlativi e i consueti dispositivi retorici, come il chiasmo: «a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato».17 Grande amico di Castiglione, Ariosto è direttamente chiamato in causa come corresponsabile dell’opera, in quanto ne ha proposto il tema18 («la forma di cortegiania piú conveniente a gentilomo che viva in corte de’ príncipi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia e dagli altri laude», Cort. I, 1) e sollecitato la stesura: la topica escusatione dell’autore per l’inadeguatezza verso il compito assegnatogli, dovuta anche alla difficoltà della materia, finisce per mettere sullo stesso piano dedicatario e dedicante, lontano dagli abusati topoi laudativi che invece sottolineavano la distanza tra i due:
Per il che, conoscendo io questa e molte altre difficultà nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione e render testimonio che questo errore, se pur si po dir errore, a me è commune con voi, acciò che, se biasmo a venir me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perché non minor colpa si dee estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze disequale, che a me averlo accettato (Cort. I, 1.)
Ariosto non può dunque essere considerato un patrono in senso stretto, è legato alla genesi dell’opera e non alla sua effettiva realizzazione, è poi estraneo alle dinamiche di carattere economico che sottintendono la pubblicazione: Castiglione afferma esplicitamente di aver intrapreso la stesura per «affezione» nei suoi confronti e «desiderio intenso di compiacere», preferendo essere reputato «poco prudente» da tutti piuttosto che «poco amorevole» dal dedicatario. In un discorso “cortigiano” come quello che Castiglione vuole offrire, d’altronde, non vi può essere un unico patrono, in quanto è la corte urbinate nel suo insieme a rendere possibile l’opera, a fornire spunti e materia per il «ritratto di pittura», come l’autore stesso, a posteriori, definirà la sua opera nella lettera al Da Silva.19 I consueti topoi di lode e celebrativi sono allora inseriti a testo, entro la cornice del dialogo successiva al proemio, che presenta l’occasione delle discussioni e l’ambiente della corte urbinate, e sono articolati intorno a tre figure chiave, tre ‘patroni’ in senso lato. Federico di Montefeltro, già morto negli anni di ambientazione del dialogo ma fondamentale in quanto fondatore di quella «città in forma de palazzo» (Cort. I, 1) che funge da cornice dell’opera, è il prototipo di principe ideale per l’unione di abilità nelle armi e di cultura: l’apparato laudativo, ampio e articolato, sfrutta infatti la topica consueta. Dal catalogo delle virtù, ratificate da testimoni a sigillo di verità, si passa alla celebrazione iperbolica delle gesta militari, che lo uguagliano agli antichi, e degli interessi culturali e artistici, nel nome della rarità e dell’eccellenza:
né mancano veri ed amplissimì testimonii, che ancor vivono, della sua prudenzia, della umanità, della giustizia, della liberalità, dell’animo invitto e della disciplina militare; della quale precipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni de lochi inespugnabili, la súbita prestezza nelle espedizioni, l’aver molte volte con pochissime genti fuggato numerosi e validissimi eserciti, né mai esser stato perditore in battaglia alcuna; di modo che possiamo non senza ragione a molti famosi antichi agguagliarlo […] Appresso con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d’oro e d’argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo (Cort. I, 2, corsivi miei).
La laudatio del figlio Guidubaldo, il Duca assente e malato, ruota tutta intorno al motivo topico della contrapposizione tra fortuna avversa, che sin da piccolo lo privò della madre e poi infierì con malattie che gli impedirono di seguire le orme paterne in ambito militare, e la virtù, che lo riscatta sul piano culturale rendendolo di «consiglio sapientissimo», d’«animo invittissimo», ottimo cortigiano, liberale e grande affabulatore. Oltre a giustificare l’assenza del Duca in tutto il resto dell’opera, dato che, dopo cena, egli si ritirava nelle sue stanze lasciando presiedere gli intrattenimenti cortigiani alla moglie Elisabetta, la topica della fortuna avversa è significativa in quanto ritornerà in altre sezioni del Cortegiano, e in particolare verrà ripresa nella dedicatoria al Da Silva, collocando Castiglione stesso sulla scia dei protagonisti della sua opera e motivando nel contempo la sua genesi lunga e travagliata: «Ma la fortuna già molt’anni m’ha sempre tenuto oppresso in così continui travagli, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine» (Cort. Ded., I).20 La Duchessa Elisabetta Gonzaga, il solo ‘patrono’ presente sulla scena, diventa allora il vero centro del dialogo, il modello della perfezione a cui tutti si conformano: l’elogio è svolto mediante preterizione, associata alla modestia di chi scrive, denunciando ancora la volontà di creare varietas entro l’ampia gamma possibile dei topoi encomiastici:
le ottime condizioni della quale io per ora non intendo narrare, non essendo mio proposito, e per esser assai note al mondo e molto piú ch’io non potrei né con lingua né con penna esprimere; e quelle che forse sariano state alquanto nascoste, la fortuna, come ammiratrice di cosí rare virtú, ha voluto con molte avversità e stimuli di disgrazie scoprire, per far testimonio che nel tenero petto d’una donna in compagnia di singular bellezza possono stare la prudenzia e la fortezza d’animo, e tutte quelle virtú che ancor ne’ severi omini sono rarissime (Cort. I, 4, corsivi miei).
Allo schema consueto degli elogi femminili, ovvero l’unione tra bellezza fisica e doti intellettuali, si sovrappongono motivi già presentati nei ‘patroni’ precedenti. Il breve catalogo di virtù richiama evidentemente il Duca Federico, che ha ampiamente mostrato la sua prudenza e fortezza nelle vittorie militari,21 al punto che Elisabetta, proprio in riferimento alle virtù possedute, viene uguagliata ad un uomo. Invece il motivo della contrapposizione tra virtù e fortuna, precedentemente associato a Guidubaldo, ora si risolve tutto a favore della Duchessa, poiché i colpi inferti dalla sorte avversa finiscono per svelare chiaramente le qualità straordinarie della donna. E Castiglione, ancor più negli anni di composizione della dedicatoria al Da Silva, data la morte recente di Elisabetta (gennaio del 1526) ha ben chiaro il ruolo storico fondamentale della donna, che ha dovuto reggere le sorti del ducato affrontando prima un matrimonio privo di eredi a causa delle malattie del Duca, quindi la vedovanza precoce in mezzo a tanti infortuni politici dello stato urbinate e a continue minacce esterne. Sul punto di stampare l’opera, dunque, Castiglione replica la topica della modestia in una sorta di elogio funebre. Anche in questo caso Elisabetta mantiene il suo ruolo centripeto, poiché verso di lei converge il breve elogio dei cortigiani ormai defunti, con cui si apre la dedicatoria:
Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria è che la signora Duchessa essa ancor è morta; e se l’animo mio si turba per la perdita de tanti amici e signori mei, che m’hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d’affanni, ragion è che molto piú acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perché essa molto piú che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto piú che a tutti gli altri era tenuto […] E come ch’io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le proprietà e condicioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma né anco accennato le virtú della signora Duchessa; perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l’intelletto ad imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità (Cort. Ded., I, corsivi miei).
La verità della rappresentazione, che costituisce la garanzia da ogni sospetto di adulazione, è unita alla volontà di testimoniare, vincendo l’oblio del tempo, soprattutto per tutti coloro che, come il Da Silva, non hanno conosciuto personalmente i personaggi di cui Castiglione ha tracciato il ritratto:
Per non tardare adunque a pagar quello, che io debbo alla memoria de cosí eccellente Signora e degli altri che piú non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m’è stato concesso. E perché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca Iuliano e del Cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l’abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d’Urbino (Cort. Ded., I).
Emerge così uno dei motivi che segnano la convenientia, pur non esplicita, di Da Silva nell’epistola dedicatoria: rappresenterebbe infatti il lettore ideale,22 come si vedrà, lontano nello spazio e nel tempo dalla scena urbinate, che deve considerare il ritratto fornito come autentico.
Di nuovo emerge la complementarietà con Ariosto, il quale, vissuto «presenzialmente» ai tempi di Guidubaldo ed Elisabetta, può essere invece un testimone credibile della verità, ed è chiamato a compiere questo ruolo nel proemio del terzo libro, mediante l’exemplum di Pitagora.23 Come questi aveva dedotto la grandezza del corpo di Ercole dalla misura del piede, così l’Ariosto deve mostrare la grandezza del circolo dei cortigiani urbinati e la superiorità di tale corte sull’Italia intera:
Voi adunque, messer Alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto ’l corpo potete chiaramente conoscer quanto la corte d’Urbino fosse a tutte l’altre della Italia superiore, considerando quanto i giochi, li quali son ritrovati per recrear gli animi affaticati dalle facende piú ardue, fossero a quelli che s’usano nell’altre corti della Italia superiori. E se queste eran tali, imaginate quali eran poi l’altre operazion virtuose, ov’eran gli animi intenti e totalmente dediti; e di questo io confidentemente ardisco di parlare con speranza d’esser creduto, non laudando cose tanto antiche che mi sia licito fingere, e possendo approvar quant’io ragiono col testimonio de molti omini degni di fede che vivono ancora, e presenzialmente hanno veduto e conosciuto la vita e i costumi che in quella casa fiorirono un tempo; ed io mi tengo obligato, per quanto posso, di sforzarmi con ogni studio vendicar dalla mortal oblivione questa chiara memoria e scrivendo farla vivere negli animi dei posteri (Cort. III, 1, corsivi miei).
La necessità della testimonianza di uomini «degni di fede» è sapientemente collegata al topos della modestia, nuovamente replicato in sede proemiale (terzo libro), dal momento che deve colmare le mancanze e i difetti dello scrittore.24 Ma il passare del tempo ha mutato la condizione storica del ducato: Castiglione è quindi costretto a ritornare sul tema della memoria e della testimonianza nel proemio del quarto libro, indicando, con la topica della laudatio funebris modellata anche sul terzo libro del ciceroniano De oratore, tutti quei personaggi che nel frattempo sono morti25 e non potranno più essere dei testimoni, e in contemporanea aggiornando al secondo decennio del Cinquecento le carriere di coloro che, nel 1507, avevano partecipato alle discussioni cortigiane, al fine proprio di ribadire «quanti di questa casa usciti sono omini per virtú singulari e da ognuno sommamente pregiati» (Cort. IV, 2). Si tratta di un catalogo di sei cortigiani,26 concluso da Francesco Maria della Rovere e Eleonora Gonzaga. Castiglione, costretto ad affrontare lo spinoso passaggio di Urbino ai Della Rovere,27 riesce ad evitare ogni sconvenientia presentando la nuova coppia ducale come occasione per rinnovare la testimonianza e i fasti del passato:
Seguitiamo adunque i ragionamenti del nostro cortegiano, con speranza che dopo noi non debbano mancare di quelli che piglino chiari ed onorati esempi di virtú dalla corte presente d’Urbino, cosí come or noi facciamo dalla passata (Cort. IV, 2).
Difatti i topoi celebrativi che ricorrono in riferimento ai nuovi duchi replicano in tono minore quelli della coppia Guidubaldo ed Elisabetta. Francesco Maria viene presentato come «riuscito cosí raro ed eccellente signore in ogni qualità di virtú» per la sua educazione urbinate, la cui impronta fu data da Federico, come già Guidubaldo aveva mostrato, e in analogia a quest’ultimo viene associato all’abilità nel conversare. Invece la consueta unione di doti fisiche e capacità intellettuali per la figura di Eleonora è unita all’immagine della catena di virtù già impiegata per Elisabetta.28
Come dunque non aggiornare ulteriormente la situazione, al momento della stampa, quando è ancora più difficile, alla fine del terzo decennio, trarre testimonianza dai vivi? Ecco allora che l’epistola al Da Silva ripresenta il motivo della lode post mortem,29 richiamando proprio tre dei sei cortigiani presenti nell’esordio del quarto libro (nell’ordine: Giuliano de’ Medici, Bernardo Bibbiena, Ottaviano Fregoso), in un nuovo catalogo che è aperto e chiuso proprio dalle due figure d’eccezione con cui si era inaugurata l’opera nel proemio del primo libro, e nel frattempo defunte, ovvero Alfonso Ariosto ed Elisabetta. Il criterio è ancora la complementarietà, proprio perché Castiglione «ammunito dal titulo», quindi dall’intestazione dei quattro libri, finalmente fornisce di Ariosto un ritratto che risulta assente nel resto dell’opera: «morto è il medesimo messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indrizzato, giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte» (Cort. Ded., I).30 Emblema del cortigiano perfetto, ma oramai impossibilitato a testimoniare la verità del testo, Ariosto entra definitivamente tra i personaggi della narrazione, a cui è legato da un comune destino: solo così, tramite la laudatio funebris, Castiglione può segnare il passaggio all’altro dedicatario vivo, ovvero il Da Silva. Quale funzione e ruolo ricopre questo nuovo personaggio? Si tratta di un quesito fondamentale dal momento che nell’epistola dedicatoria manca il luogo della convenientia, non è esplicitato il motivo della scelta né vi è esibizione di un accordo tra i due o dell’accettazione della dedica. Se, come afferma Genette, ogni dedicatario è in qualche modo «responsabile dell’opera che gli viene dedicata, e alla quale conferisce, volens nolens, un po’ del suo sostegno, e dunque della sua partecipazione»,31 è sforzo del lettore, e ancora più del lettore moderno, cogliere i meccanismi che presiedono all’atto dedicatorio.
Risulta pertanto ancora significativo procedere per opposizioni in relazione a quanto precedentemente scritto da Castiglione: ad un Ariosto sempre presente nell’opera, che addirittura nella dedicatoria finisce per essere inglobato tra i personaggi della stessa, si sovrappone un Da Silva connotato per il suo essere estraneo ai luoghi e ai personaggi narrati. Proprio la lontananza è da stimolo per la pubblicazione: Castiglione si rende conto della difficoltà di recezione per un pubblico che non ha conosciuto né Urbino né i personaggi del dialogo, così formula la sua istanza modellizzante sotto il segno della verità:
E perché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca Iuliano e del Cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l’abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d’Urbino. (Cort. Ded., I)
Il Da Silva viene presentato come dedicatario pubblico, slegato da ogni rapporto di natura affettiva, ma soprattutto economica, con l’autore e pertanto estraneo ai moduli dell’offerta del dono e all’istanza di gradimento. In antitesi con quanto accadeva per Alfonso Ariosto, l’unico elogio può forse essere letto nei moduli dell’intestazione, in quei termini «reverendo» ed «illustre», che sembrerebbero alludere alla tipologia della dedica venale, a uno scambio di favori, in realtà assente. Significativa, nell’intestazione, è però la precisazione della sua condizione di prelato portoghese: «Vescovo di Viseo». Come ampiamente sottolineato dagli studiosi,32 nel momento successivo al Sacco di Roma, quando è in Spagna come Nunzio apostolico, Castiglione si vorrebbe collegare agli ambienti romani dei pontificati di Leone X e Clemente VII mediante un esponente di spicco, il Da Silva, evidentemente molto noto,33 il cui patrocinio letterario rimane un dato implicito, ma fondamentale, per tutelare indirettamente l’opera in un momento decisivo come quello della pubblicazione, proprio perché sono venuti a mancare gli altri personaggi che avevano sollecitato e ‘presieduto’ al travaglio compositivo. Il patrocinio intellettuale di Da Silva finisce così per influenzare la struttura della dedicatoria: raffinato umanista formatosi a Roma nel decennio 1515-1525, una volta tornato in Portogallo si era impegnato nella promozione dei gusti romani in ambito letterario e soprattutto artistico, in una sorta di ‘Rinascenza portoghese’.34 Sotto la sua 'tutela' si svolge allora la lunga difesa del parlare «secondo consuetudine», contro il modello bembiano (Cort. Ded., II) e soprattutto in riferimento ai suoi gusti si possono spiegare le immagini tratte dal mondo dell’arte che costellano la dedicatoria. Così il Da Silva, altro modello vivente di cortigiano ideale,35 assumerebbe anche la funzione di orientare la ricezione dell’opera, rappresentando quel pubblico di lettori contemporanei completamente slegato dalle vicende di un ducato urbinate che non esiste più.
Esclusi i moduli dell’elogio, già sfruttati nei proemi in forma di dedica e quindi eliminati nell’epistola, nonché i riferimenti alla relazione dedicatario-dedicante, non rimane a Castiglione che ripiegare su di sè, sul proprio lavoro, fornendo nel contempo delle istruzioni per la lettura e la corretta interpretazione del testo. L’epistola al Da Silva costituisce allora una dedica intimistica, con valenza autobiografica, un luogo dell’io e della memoria, una tipologia che fa la sua comparsa per la prima volta con Petrarca.36 Castiglione, che programmaticamente si dichiara assente dalla cornice dell’opera e dalle vicende narrate,37 ora entra prepotentemente nel testo. Mediante l’insistenza sulla prima persona, viene riepilogata la situazione umana ed esistenziale dello scrivente esclusivamente in relazione alla corte urbinate (niente viene detto della sua situazione attuale di Nunzio pontificio e dei legami con Roma), chiarendo i motivi che hanno presieduto alla composizione dell’opera: la necessità di «pagare» un «debito», non più verso Ariosto (l’espressione è la medesima di Cort. I, 1), ma nei confronti dell’intera corte; sottraendola all’oblio del tempo. Contrariamente a quello che è avvenuto in realtà,38 viene presentata una stesura di getto, in pochi giorni, sull’onda del ricordo e sull’urgenza di esprimere la propria riconoscenza per i momenti piacevoli vissuti ad Urbino, con il proposito di una successiva revisione:
Quando il signor Guid’Ubaldo di Montefeltro, duca d’Urbino, passò di questa vita, io insieme con alcun’altri cavalieri che l’aveano servito restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere, erede e successor di quello nel stato; e come nell’animo mio era recente l’odor delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati (Cort. Ded., I, corsivi miei).
Si introduce, in questo modo, il motivo della fortuna avversa che ha ritardato la revisione (si badi, non la stesura): strategicamente il Cortegiano viene posto sotto il sigillo della verità per l’immediatezza della ‘registrazione’ della esperienza di vita dell’autore, a garanzia di un «ritratto di pittura» fedele, e nel contempo la topica della fortuna avversa giustifica il lungo tempo trascorso tra la stesura e la pubblicazione. La lontananza di Castiglione dalla sede tipografica, oltre a creare una voluta duplicazione del tema della distanza già del proemio del primo libro,39 è occasione per immettere nella dedica il complesso meccanismo editoriale e sottolineare gli «inconvenienti» connessi alla nuove pratiche della stampa. Castiglione, che in occasione della seconda redazione dell’opera aveva più volte diffuso copie manoscritte ad amici ed intellettuali per averne un parere, si trova ora di fronte ad un grave «periculo», quello di una diffusione non autorizzata del testo: «In ultimo seppi che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere» (Cort. Ded., I). Alla base c’è l’inaffidabilità di Vittoria Colonna, che aveva ricevuto una copia manoscritta probabilmente della seconda redazione40 e, nonostante le promesse, l’aveva fatta trascrivere. Il tono stizzito e contrariato di Castiglione è in parte addolcito dai moduli dell’elogio, per l’evidente funzione di equilibrare i modi del discorso:
Ritrovandomi adunque in Ispagna ed essendo di Italia avvisato che la Signora Vittoria dalla Colonna, marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia del libro, contra la promessa sua ne avea fatto transcrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti inconvenienti, che in simili casi possono occorrere; nientedimeno mi confidai che l’ingegno e prudenzia di quella Signora, la virtú della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina, bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall’aver obedito a’ suoi comandamenti (Cort. Ded., I).
La questione del pericolo corso dal libro diventa una voluta strategia retorica per cautelarsi da critiche relative alla imperfezione della correzione, anch’essa frettolosa, come la stesura, ma per motivi diversi: «Ond’io, spaventato da questo periculo, diterminaimi di riveder súbito nel libro quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lacerato per man d’altri». E quindi, oltre: «indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m’è stato concesso» (Cort. Ded., I, corsivi miei). Si ottempera inoltre ad un’altra importante funzione della prefazione autoriale:41 quella autopromozionale di valorizzazione del testo. La stampa, infatti, non risulta necessaria solo per tutelare l’autore e la sua fatica, ma è presentata come inevitabile conseguenza di un successo di pubblico determinato dal passaparola. Viene quindi elogiata la novità dell’opera, che è alla base della sua diffusione clandestina, creando un’aspettativa nel lettore, a cui è indirizzata l’epistola dedicatoria dietro la ‘maschera’ del Da Silva: «e, come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere».
Nel suo complesso, l’epistola dedicatoria si presenta allora come una prefatoria «ulteriore», nei termini stabiliti da Genette,42 poiché va a completare quanto già scritto, con una efficace mescolanza delle istanze di valorizzazione del testo (i genettiani «temi del perché») e della volontà, sicuramente ‘moderna’, di fornirne una guida alla lettura (i «temi del come»).43 Sulla genesi dell’opera e le difficoltà nella sua realizzazione, legata ai travagli della fortuna, si innesta, infatti, la polemica contro la diffusione non autorizzata e le pratiche connesse alla pubblicazione. Anche il mesto elogio funebre, che sostituisce il topico ringraziamento verso coloro che hanno favorito e contribuito alla realizzazione dell’opera, oltre a replicare ed aggiornare quelli presenti nel proemio del quarto libro, contribuisce alla valorizzazione del trattamento dei contenuti, confermando la veridicità della materia narrata e il metodo adottato, ovvero quello del «ritratto di pittura». Viene presupposta la pratica classicistica dell’imitazione, partendo dall’esemplarità dei modelli, e nel contempo è presentata la topica dell’inadeguatezza del trattamento dell’autore, il quale si definisce «pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non è». L’inadeguatezza della scrittura è però sbilanciata a favore dell’autopromozione del Cortegiano, mostrando il valore della materia, autentica e veritiera: «perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l’intelletto ad imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità» (Cort. Ded., I).
Diverso è invece l’atteggiamento di Castiglione in riferimento alle scelte linguistiche, proprio mentre la revisione era nelle mani di un editor: contro la soluzione bembiana, egli rivendica infatti il primato dell’uso. Si tratta di una autodifesa accorata e polemica, in cui emerge il pensiero autentico di Castiglione in analogia con quanto sarà presente nel I libro.44 Strategicamente il lettore è attirato nell’opera ed è portato a condividere le sofferenze e le perplessità di un autore prima travagliato dalla fortuna, quindi quasi defraudato dei frutti della propria fatica per la circolazione di copie non autorizzate, infine costretto a difendersi dalle critiche di detrattori. Nel caso del Cortegiano sorge però il sospetto che quello della difesa preventiva non sia solo un espediente retorico, ma che derivi dalla effettiva circolazione delle copie precedenti alla stampa, circolazione inizialmente autorizzata, poi fuori controllo, come si è visto nell’incipit dell’epistola. Solo quindi una ricostruzione del contesto, oggi possibile con l’analisi dell’epitesto, in particolare il nutrito corpus di lettere di Castiglione e degli altri intellettuali continuamente interpellati e coinvolti nel lungo processo redazionale, potrà chiarire in che termini le argomentazioni si inscrivano nella topica ricorrente o siano piuttosto il risultato di sollecitazioni reali. Va però ricordato come anche la fictio dei riprensori rientri nelle finalità di autopromozione e di orientamento alla lettura, prevalenti nell’epistola al Da Silva, rispondendo a quella logica della complementarietà già altrove riscontrata (in aggiunta alle sollecitazioni ed esigenze peculiari del momento di composizione, il 1527): se nel proemio del primo libro Castiglione aveva accennato alla peculiarità strutturale dell’opera, rifiutando un ordine prestabilito delle discussioni con la volontà di simulare l’andamento di conversazioni reali,45 ora conduce una disamina articolata sul versante linguistico e fonomorfologico. Se la critica ai detrattori lì era solo accennata,46 ora viene più ampiamente sviluppata. Mediante l’ampia difensoria, infine, è possibile inserire altre importanti informazioni connesse alla finalità autopromozionale del testo:47 l’esplicitazione di possibili fonti (e si tratta dei classici Platone, Senofonte e Cicerone), assente nel resto dell’opera, e dell’utilità del trattato, ovvero la praticabilità della virtù come approssimazione possibile alla perfezione. La metafora aristotelica dell’arciere consente quindi di inserire l’opera entro la tradizione dei libri di institutio, confermando la validità del progetto di Castiglione mediante il riferimento alle auctoritates:
Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un omo cosí perfetto come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo perché vana cosa è insegnare quello che imparare non si po. A questi rispondo che mi contentarò aver errato con Platone, Senofonte e Marco Tullio, lassando il disputare del mondo intelligibile e delle idee; tra le quali, sí come, secondo quella opinione, è la idea della perfetta republica e del perfetto re e del perfetto oratore, cosí è ancora quella del perfetto cortegiano; alla imagine della quale s’io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani d’approssimarsi con l’opere al termine e mèta, ch’io col scrivere ho loro proposto; e se con tutto questo non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch’io mi son sforzato d’esprimere, colui che piú se le avvicinarà sarà il piú perfetto, come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca, quello che piú se le accosta senza dubbio è miglior degli altri (Cort. Ded., III).
Sulle soglie del testo, nel momento del congedo per la stampa, dopo la discussione su pregi e difetti dell’opera, si può ravvisare il topos del gradimento, convenzionalmente a chiusura della dedica. Non al patrono, né al Da Silva, il grande assente dell’epistola: l’istanza è invece rivolta al lettore ideale, la «moltitudine», esplicitamente chiamata in causa nel giudicare per «istinto» quanto teorizzato, al di là di tutte le discussioni affrontate. Dei termini canonici che dalla metà del secolo ricorreranno a marcare il topos (come «gratia», «aggradir», «gradir»), è presente solo «giudice», ancora slegato dall’immediatezza di un rapporto di patronage, ma connesso al tempo, unico responsabile, insieme alla moltitudine dei lettori, della vita dell’opera e unico giudice imparziale, al di là delle critiche. Il monito di Aulo Gellio, Veritas filia Temporis, sigilla dunque la conclusione mostrando la straordinaria modernità di un autore che ha ben presente il meccanismo della ricezione:
La diffesa adunque di queste accusazioni e, forse, di molt’altre rimetto io per ora al parere della commune opinione; perché il piú delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per instinto di natura un certo odore del bene e del male e, senza saperne rendere altra ragione, l’uno gusta ed ama e l’altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente il libro piacerà, terrollo per bono e pensarò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo e tosto crederò che se n’abbia da perdere la memoria. E se pur i mei accusatori di questo commun giudicio non restano satisfatti, contentinsi almeno di quello del tempo; il quale d’ogni cosa al fin scuopre gli occulti diffetti e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenzia (Cort. Ded., III).
Un ultimo aspetto non meno significativo è quello delle relazioni della dedicatoria con l’epitesto,48 vale a dire, in questo caso, il corpus epistolare di Castiglione. La stesura di getto della dedicatoria e le sue motivazioni contingenti la rendono significativamente connessa alle circostanze esterne all’opera, a partire dalla distanza ‘spaziale’ che separa il Cortegiano dal suo autore. In che termini dunque l’epitesto ha potuto influire sul peritesto, modellandolo prima della pubblicazione? La scelta della forma epistolare per la dedicatoria risulta di per sé significativa, in quanto attribuisce un carattere di verità ai dati e alle informazioni su composizione e pubblicazione. E si è visto come l’esigenza di verità abbia determinato lo spostamento dell’attenzione da un Ariosto testimone “diretto” al Da Silva ‘patrono ideale’, che non ha mai visto né conosciuto esponenti della corte urbinate. La forma epistolare, inoltre, si lega alle consuetudini di Castiglione che è stato prima di tutto un abile diplomatico, tra l’altro particolarmente impegnato negli anni 1525-27, e che, proprio dopo aver licenziato il manoscritto, si serve di lettere, indirizzate al fedele Tirabosco e alla madre, per seguire da lontano il procedere della stampa.
Da un primo e parziale spoglio della raccolta di lettere49 di Castiglione emergono elementi significativi in ordine alla dedicatoria, che sicuramente richiedono un’indagine specifica e più approfondita, da estendersi poi all’intero Cortegiano.50 Il motivo del pericolo corso dal libro e della conseguente pubblicazione forzata ha un suo fondamento nella realtà, e di fatto trova riscontro nelle lettere ‘reali’, in particolare l’epistola da Burgos del 21 settembre dello stesso 1527 indirizzata a Vittoria Colonna. La consonanza linguistica e di motivi confermerebbero quindi l’ipotesi iniziale di una dedicatoria che a differenza del resto dell’opera sfugge a controlli redazionali, esprimendo più fedelmente la volontà dell’autore:
In ultimo seppi da un gentiluomo napolitano, che ancor si trova in Spagna, che alcuni fragmenti del povero Cortegiano erano in Napoli, er esso gli havea veduti in mano a diverse persone, delle quali chi lo havea così publicato diceva haverlo avuto da Vostra Signoria. Dolsemi un poco, come padre che vede il figliuolo mal trattato, pur, dando poi luogo alla ragione, conobbi che li meriti suoi non erano degni che d’esso si tenesse maggior cura, ma come abortivo fosse lassato nella strada a beneficio di natura (Colonna, Carteggio cit., pp. 51-53, corsivi miei).
Più sintetico il dettato della dedicatoria, in cui viene meno l’immagine paterna: «In ultimo seppi che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere» (Cort. Ded., I, corsivi miei). La considerazione che la novità è un valore da preservare è presente ancora nella medesima epistola alla Colonna, che tuttavia sembra anteriore alla dedicatoria, dal momento che lì Castiglione è demotivato, parrebbe intenzionato a lasciar stare l’impresa della pubblicazione.51 Il contenuto oramai già diffuso clandestinamente e la forma «incomposita» sarebbero alla base dell’atteggiamento rinunciatario:
E così veramente mi deliberai di fare [«ma come abortivo fosse lassato nella strada a beneficio di natura»], parendomi che se qualche cosa nel libro era non mala, dovesse, per essersi veduta così in compositamente, haver acquistato molta disgrazia nella opinione delle persone, e non bastare più diligenza alcuna per dargli ornamento, poich’era stato privo di quello che forse solo havea da principio, che è la novità (Colonna, Carteggio cit., pp. 51-53, corsivi miei).
Significativo è poi il riferimento all’«opinione delle persone», che sarà ampliato nel Cortegiano con l’appello finale, in sede di gradimento, alla «commune opinione» della moltitudine (Cort. Ded., III). Ancora una filiazione: la difficile decisione di pubblicare l’opera, in quanto non rifinita, che nella dedicatoria è frutto di uno scatto d’orgoglio dovuto alla paura,52 è ora invece ascritto alla sollecitazione di altri: «In ultimo, altri inclinati più a pietà che non era io, mi hanno sforzato a farlo trascrivere tale quale dalla brevità del tempo mi è stato concesso, e mandarlo a Venezia perché si stampi, e così è fatto» (Colonna, Carteggio cit., pp. 51-53). L’accusa esplicita di furto con cui si apre la lettera da Burgos53 viene poi sfruttata nel prosieguo della stessa come giustificazione per le imperfezioni dei testo, riportando l’epistola entro i toni della convenienza e decoro:
Ma se vostra Signoria pensasse che questo avesse havuto forza de intepidire punto il desiderio che io tengo di servirla, errarebbe di giudicio, cosa che forse in sua vita mai più non ha fatta. Anzi restole io con maggior obligo, perché la necessità del farlo tosto imprimere mi ha levato fatica di aggiungervi molte cose che io avevo già ordinate nell’animo, le quali non potevano essere se non di poco momento come le altre, e così sarà diminuito fatica al lettore e all’autore biasimo (ibid.).
Sicuramente più amaro rimane l’atteggiamento nel Cortegiano, pur mediato dai topoi consueti dell’elogio. Infatti la Marchesa viene accusata di difetto nell’«ingegno» e «prudenzia», in opposizione alla fedeltà e «obedienza» dell’autore: «nientedimeno mi confidai che l’ingegno e prudenzia di quella Signora, la virtú della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina, bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall’aver obedito a’ suoi comandamenti» (Cort. Ded., I); il riferimento può essere rintracciato nella lettera del 21 marzo 1525 scritta da Castiglione da Madrid, in cui egli sembra accettare per «obbedienza» il fatto che il testo fosse stato fatto trascrivere, ma avvisa la Marchesa di tutelarlo, proprio utilizzando l’opposizione «obbedienza» - «ingegno»:
Che se avendo Vostra Signoria avuto desiderio che qualcuno scrivesse il Cortegiano, senza ch’ella me lo dicesse, o pur accennasse, l’animo mio, come presago e proporzionato in qualche parte a servirla, così come essa stessa a comandarmi, lo intese e conobbe e fu obedientissimo a questo suo tacito comandamento, non si può se non pensare che l’animo suo medesimamente debba intendere quello ch’io penso e non dico, e tanto più chiaramente quanto che quelli sublimi spiriti dell’ingegno suo divino penetrano più che alcun altro intendimento humano alla cognizione d’ogni cosa, ancor alli altri incognita (Colonna, Carteggio cit., pp. 26-27, corsivi miei).
Evidentemente l’«ingegno divino» della Colonna non è poi bastato a impedire una diffusione incontrollata, definita nella dedicatoria con l’elusivo termine «inconvenienti»: di qui è derivato il «fastidio» apertamente dichiarato dall’autore in apertura.
Altri termini della dedicatoria possono trovare riscontro nell’epistolario, legati evidentemente alla consuetudine scrittoria di Castiglione. Ne è un esempio il verbo «stimulare», significativamente associato a una composizione dettata dall’urgenza e da un bisogno intimo: «fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano, il che io feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati» (Cort. Ded., I). Già nella lettera ad Andrea Piperario del 6 aprile 1525, in cui emerge per la prima volta la volontà di pubblicare il testo, si trova uso del termine, associato questa volta alla stampa, rispetto a quanto accade nella prefatoria: «Pregovi scrivati a m. Mar. Antonio Flamineo ch’io me raccomando a lui, e che lo prego ad raccordarsi del Corteggiano, perché più che mai sono stimulato a lassarlo andare».54 Analogo discorso può essere fatto per alcuni topoi, ricorrenti nelle lettere scritte negli stessi anni della Nunziatura in Spagna, come il riferimento alla fortuna avversa, presente nella lettera da Toledo alla Contessa della Somaglia, Bianca Landriani, del 16 giugno 1525, e poi riutilizzato da Castiglione per giustificare i travagli della lunga revisione:
Perché in vero la fortuna in questo, come in molte altre cose, m’è stata assai avversa, non mi offrendo mai occasione di servirla: che se in mia conscienza mi conoscessi meritare tanta benevolenza, quanta ella m’offerisce, pareriami haver minor carico sopra le spalle: pur io son contento di questa mia obligatione, confidandomi che s’io non potrò pagar tanto debito, Vostra Signoria mi rimetterà quella parte che la mia povertà si scusa.55
Da ultimo è verosimile che la pratica di Castiglione di diffondere copie manoscritte, facendole circolare prima della stampa, abbia sollecitato osservazioni critiche di cui l’autore ha tenuto poi conto. Ricostruire l’ampio dibattito e l’interesse suscitato intorno al Cortegiano è oggi possibile solo per lacerti, da quanto emerge dalle lettere. Significativo è però il fatto che molti intellettuali contemporanei richiedessero avidamente delle copie della princeps.56 E però ancora Vittoria Colonna a testimoniare l’importanza dell’epitesto, mostrando come la defensoria di Castiglione nella epistola al Da Silva sia frutto anche di sollecitazioni reali. Le osservazioni lì presenti di carattere linguistico non solo anticipano quelle del primo libro, come già accennato, ma risponderebbero a quelle che dovevano essere le impressioni del lettore, presenti nella lettera di Vittoria Colonna del 20 settembre 1524, collegata alla lettura della seconda redazione, un testo quindi non normalizzato secondo le consuetudini bembiane:
Ma che dirò io de la proprietà de le parole, che veramente dimostrano questa chiareza di possere usare altro che’l toscano? E’ stata ventura sia venuta sì tardi, perché la fama di chi la ha sì strettamente observata sia fin qui vissa, et quel che più ho notato è che dove usa altra parola, sono così da lassar le toscane, che par più per seguir queste meglio che per fugire quelle, l’abbi fatto (Colonna, Carteggio cit., pp. 23-26).
Sempre nella stessa lettera viene formulata l’accusa secondo cui Castiglione, in realtà, sembra aver «formato sé stesso»:
Che abbia ben formato un perfetto cortegiano non me ne meraviglio, ché con solo tenere uno specchio denanzi e considerare le interne et externe parti sue, posseva descriverlo qual lo ha descritto; ma essendo la maggior difficultà che habbiamo conoscer noi stessi, dico che più difficile li è stato formar sé che un altro, sì che o per l’uno o per l’altro che sia, merita tanta laude che me ne rimetto al signor Datario, il qual solo giudico bastevole che per me si sia (ibid., corsivi miei).
Su questo punto l’autore prontamente si sofferma a conclusione della dedicatoria, rivendicando la necessità della conoscenza teorica unita all’esperienza pratica, lontano da ogni idealizzazione:
Alcuni ancor dicono ch’io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni, ch’io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già negar di non aver tentato tutto quello ch’io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal avrebbe potuto scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare (Cort. Ded., III).
L’epistola al Da Silva assolve allora in pieno la funzione paratestuale che le compete, ovvero presentare l’opera, dare informazioni sull’itinerario creativo, assicurare la sua ricezione, difendendola dalle critiche, e quindi garantire il suo consumo. Il Cortegiano, così, diventa finalmente un «libro» (e su questo termine Castiglione insiste nello spazio della dedica), entra a pieno nel circolo comunicativo e proprio da quel momento, nonostante le intenzioni dell’autore che aveva pensato a lettori selezionati, umanisti,57 prende strade autonome, non prevedibili, diffondendosi entro un pubblico molto più ampio e variegato, proprio per il prevalere del formato tascabile in ottavo della giuntina del 1528, rispetto all’elegante in folio della princeps. Sono quindi gli elementi paratestuali, più che l’attività autopromozionale di Castiglione, morto troppo presto per assaporare il successo della sua opera, a garantirne la fortuna. Ma quello del Cortegiano è anche un caso in cui il paratesto diventa ingombrante, fino a ribaltare i ruoli tra testo e paratesto. L’epistola al Da Silva nelle edizioni cinquecentesche rimane come parte integrante dell’opera, con la funzione di una testimonianza autoriale, senza che i lettori contemporanei avvertano frizione e incoerenza con il resto. A questa dedicatoria si sovrappone poi una mole impressionante di dediche editoriali, volte a giustificare le nuovi edizioni dell’opera, continuamente ristampata lungo tutto il secolo, ma anche a presentare edizioni indirizzate a un pubblico specialistico, come quello femminile,59 oppure rivolte a destinatari lontani, in tutta l’Europa, che leggono un testo tradotto nelle lingue nazionali. Si tratta di produzioni d’occasione, di impronta prettamente laudatoria, facilmente sostituibili e di volta in volta intercambiabili, che finiscono però per snaturare l’opera stessa, trasformandola in un manuale precettistico di comportamento, dove trovare risposte ad esigenze di tipo pratico. Difficilmente un paratesto editoriale è stato dunque più incisivo per un’opera fino a modificare la lettura della stessa: persino oggi la mancanza di un’edizione critica di riferimento pone differenti possibilità di lettura, a seconda che si utilizzi il testo secondo L o la princeps, comportando ‘confezioni’ variegate dell’opera e differenti apparati paratestuali,60 segno della grande vitalità del Cortegiano e del suo paratesto.
M. V.
Note
1 Cfr. le definizioni e l’analisi delle componenti paratestuali nel fondamentale: G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, a cura di C.M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989.
2 Per una bibliografia completa sulla dedica e la banca dati AIDI si consulti il sito http://www.margini.unibas.ch; qui si ricordano almeno i convegni: I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno di Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004, e I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 15-17 novembre 2004 - Bologna, 18-19 novembre 2004, a cura di M. Santoro, M. G. Tavoni, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005. Per un profilo generale sulla dedica: M. Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale (Italia, secoli XVI-XIX), Prefazione di L. Bolzoni, Lucca, Pacini Fazzi, 2009; mentre per una descrizione tipologica delle dediche di Antico Regime, cfr. M. A. Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des lumières et invention romantique, Actes du colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, Réunis par G. Bardazzi et A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 161-92.
3 A. Quondam, “Questo povero Cortegiano”. Castiglione, il Libro, la Storia, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 501-25.
4 Per Cian (B. Castiglione, Il libro del ‘Cortegiano’, a cura di V. Cian, Firenze, Sansoni, 1947, p. 1) la composizione della nuova dedica sarebbe invece da ricondurre alla primavera del 1527, dal momento che Castiglione esplicitamente scrive nella dedicatoria: «hollo fatto imprimere e publicare». Quondam, poi, fa notare che la foliazione della princeps testimonia come la dedica sia stata aggiunta in extremis dopo che l’impostazione dei fogli di stampa era già ultimata, trattandosi di un duerno, a differenza di tutti gli altri fascicoli (quaderni), cfr. Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., p. 502. Cfr. soprattutto G. Ghinassi, L’ultimo revisore del ‘Cortegiano’, in «Studi di filologia italiana», XXI, 1963, pp. 217-64, p. 226, per i riferimenti all’explicit di L, cancellato per incompatibilità con la nuova dedica al Da Silva; U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sulla elaborazione del ‘Cortegiano’, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 297-99 per le diverse soluzioni paratestuali in ciascuna redazione, sino all’assetto definitivo, ed infine, per la novità della dedica, J. Guidi, Une artificieuse présentation: le jeu des dédicaces et des prologues du ‘Courtisan’ in L’écrivains face à son public, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1989, pp. 127-44.
5 Resistenze testimoniate dalla lettera dell’ambasciatore dei Gonzaga a Venezia, Giovanni Battista Malatesta, ripubblicata da Bertolo, il quale propone la data del 22 agosto 1528, a stampa già conclusa. In essa si legge: «Io me affaticai insieme con Monsignor di Baiusa et un secrettario de questi signori per far stampare el libro del conte Baldesar, et fu forza pagar la charta de cinquecento volumi al stampatore per fargli pigliar tale impresa, et esso ne diede poi al Conte 150». Nonostante il privilegio del Senato veneto, a cui si aggiungerà quello di Papa Clemente VII, nell’ottobre dello stesso anno i Giunti ristamperanno senza autorizzazione il testo a Firenze, ma in ottavo, rispetto al severo formato in folio dell’aldina, determinando la fortuna dell’opera: «la forma stessa del libro pareva introdurre una nuova tipologia libraria: il libro volgare di lusso, pensato per sostituire il codice manoscritto nell’eleganza della forma e nella funzione di omaggio cortese. Ma il successo dell’opera fu tale che quel formato venne subito soppiantato dal pratico ottavo, e il best seller invase l’Europa e l’Italia». In riferimento alle scelte dei due formati editoriali e alle loro implicazioni, oltre che per il testo della lettera, con nuove correzioni, cfr. M. Bertolo, Nuovi documenti sull’edizione principe del ‘Cortegiano’, in «Schifanoia», 13-14, 1992, pp. 133-44, citazione a p. 142.
6 Il ruolo di Bembo in relazione alla princeps è stato recentemente puntualizzato da Antonio Sorella, secondo il quale Bembo non può essere stato un correttore di bozze, trovandosi lontano da Venezia, ma deve piuttosto aver ricevuto da Castiglione l’incarico di controllare «che la stampa procedesse senza intoppi», A. Sorella, La vulgata nella tipofilologia: due casi esemplari, in «Filologia italiana», 2006, pp. 155-72, pp. 158-59.
7 Sul rapporto personale tra i due cfr. l’ampia disamina di Motta, Castiglione e il mito di Urbino cit., pp. 250-96. In generale su Giovan Francesco Valerio, anche in relazione al II libro del Cortegiano, in cui, fino alla seconda redazione, veniva citato dal Bibbiena, cfr. almeno V. Cian, Un illustre nunzio pontificio del Rinascimento. Baldassar Castiglione, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1951, p. 152; N. Ordine, Giovan Francesco Valier, homme de lettres et espion au service de François I, in La circulation des hommes et des oeuvres entre la France et l’Italie à l’époque de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1992, pp. 225-45, pp. 230-31; Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., pp. 83 sgg.
8 Cfr. Ghinassi, L’ultimo revisore cit., p. 256.
9 Il disinteresse di Castiglione per le questioni fonomorfologiche è desumibile analizzando anche la componente epitestuale, come la lettera del 21 settembre 1518 che accompagna la copia manoscritta indirizzata all’allora segretario di Leone X, nonché amico, Pietro Bembo: «Vostra Signoria non guardi alla scrittura: perché quella sarà poi fatica di un altro, et se a lei non piace quello che ch’io gli faccio dire, o di quel modo, muterò, levarò, giongerò, come le piacerà» (B. Castiglione, Le lettere, a cura di G. La Rocca, vol. I: 1497-marzo 1521, Milano, Mondadori, 1978, pp. 383-84). Così precisa Trovato: «Disperando forse, le “grammatiche” del Bembo e del Trissino, di giungere da solo a una soddisfacente padronanza della norma, il Castiglione giunse ad affidare la revisione linguistica della redazione definitiva del Cortegiano a un amico veneziano di criteri fiorentinisti, Giovan Francesco Valier», P. Trovato, Con ogni diligenza corretto, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 173.
10 Ghinassi, L’ultimo revisore cit., pp. 224-25 sg. La mano del Valier sarebbe la sesta, posteriore a tutte le altre.
11 L potrebbe però essere stata anche una seconda copia di controllo, cfr. Sorella, La vulgata nella tipofilologia cit., p. 157.
12 Genette, Soglie cit., p. 13.
13 Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., p. 503: «Il raddoppio dei proemi con la dedica non fa sistema, insomma: istituisce, anzi, una comunicazione parallela, senza rapporti, una partita doppia autonoma nelle sue distinte parti».
14 Per le citazioni cfr. ibidem.
15 G. Mazzacurati, Baldasar Castiglione e l’apologia del presente, in Id. Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, 1967, pp. 7-131.
16 L’intestazione sembrerebbe alludere a una dedica venale, mentre nell’epistola si tace ogni collegamento tra il Cortegiano e il dedicatario.
17 «Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose piú difficil mi fusse; o il negarvi quel che con tanta instanzia piú volte m’avete richiesto, o il farlo: perché da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall’altro ancor pigliar impresa, la quale io non conoscessi poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano» (Cort. I, 1, corsivi miei). L’edizione di riferimento per le citazioni è quella di Maier, che segue il testo di L, cfr. B. Castiglione, Il libro del ‘Cortegiano’ con una scelta delle Opere minori, a cura di B. Maier, Torino, UTET, 19733.
18 Nella prima redazione dell’opera (dagli «Abbozzi di casa Castiglioni», indicato da Ghinassi con A, autografo, del 1513-14 fino al ms. Vat. Lat. 8205 (C), del 1515-16), invece, in una parte poi soppressa riservata all’elogio del «Re Cristianissimo», probabilmente Luigi XII, Castiglione affermava di aver composto l’opera per obbedienza verso le «vertuose voglie» del sovrano, il quale veniva dunque a sovrapporsi all’Ariosto come promotore dell’opera. Per l’analisi del passo in questione e dei motivi della soppressione cfr. Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., pp. 490-500, mentre per le fasi redazionali si veda il fondamentale Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del ‘Cortegiano’, in «Studi di filologia italiana», 25, 1967, pp. 155-96, ora in Id., Dal Belcalzer al Castiglione. Studi sull’antico volgare di Mantova e sul ‘Cortegiano’, Firenze, Olschki, 2006, pp. 207-58.
19 Precisa Saccone: «Chi parla dunque nel libro è, si può ben dire, la corte: la corte che, in prima persona, riflettendo su di sé, disegna la propria immagine, offre di sé, più che un ritratto ideale, il ritratto delle proprie idealità, e al tempo stesso il trattato della propria giustificazione» (E. Saccone, Galateo e generi letterari. Dialogo, trattato, ritratto, in Id., Le buone le cattive maniere. Letteratura e galateo nel Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 9-34, p. 14). Oltre alla definizione metaforica del «ritratto di pittura», nell’istituto della dedica Castiglione si rivolge alla propria opera sempre con il termine «libro», per marcarne lo statuto di prodotto editoriale, non più manoscritto.
20 Per la presenza della topica nell’opera si veda Motta, Castiglione e il mito di Urbino cit., pp. 107-22.
21 Cfr. supra, Cort. I, 2.
22 Saccone, Galateo e generi letterari cit., p. 18.
23 Motta, Castiglione e il mito di Urbino cit., pp. 229-35; W. A. Rebhorn, Courtly performances. Masking and festivity in Castiglione’s ‘Book of the Courtier’, Detroit, Wayne State Univ. Press, 1978, pp. 95-96.
24 «Cosí noi desideramo che tutti quelli, nelle cui mani verrà questa nostra fatica, se pur mai sarà di tanto favor degna che da nobili cavalieri e valorose donne meriti esser veduta, presumano e per fermo tengano la corte d’Urbino esser stata molto piú eccellente ed ornata d’omini singulari, che noi non potemo scrivendo esprimere; e se in noi fosse tanta eloquenzia, quanto in essi era valore, non aremmo bisogno d’altro testimonio per far che alle parole nostre fosse da quelli che non l’hanno veduto dato piena fede» (Cort. III, 1).
25 Si tratta di Gaspare Pallavicino, Cesare Gonzaga e Roberto da Bari, morti tra il 1511 e il 1513.
26 «Ché, come sapete, messer Federico Fregoso fu fatto arcivescovo di Salerno; il conte Ludovico, vescovo di Baious; il signor Ottaviano, duce di Genova; messer Bernardo Bibiena, cardinale di Santa Maria in Portico; messer Pietro Bembo, secretario di papa Leone; il signor Magnifico al ducato di Nemours ed a quella grandezza ascese dove or si trova; il signor Francesco Maria Ruvere, prefetto di Roma, fu esso ancora fatto duca d’Urbino» (Cort. IV, 2).
27 Sul trattamento riservato da Castiglione all’ultimo duca feltresco, cfr. almeno i differenti punti di vista in: Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., pp. 346-49, Motta, Castiglione e il mito di Urbino cit., pp. 248-52.
28 «Però parmi che quella causa, o sia per ventura o per favore delle stelle, che ha cosí lungamente concesso ottimi signori ad Urbino, pur ancora duri e produca i medesimi effetti; e però sperar si po che ancor la bona fortuna debba secondar tanto queste opere virtuose, che la felicità della casa e dello stato non solamente non sia per mancare, ma piú presto di giorno in giorno per accrescersi; e già se ne conoscono molti chiari segni, tra i quali estimo il precipuo l’esserci stata concessa dal cielo una tal signora, com’è la signora Eleonora Gonzaga, Duchessa nova; ché se mai furono in un corpo solo congiunti sapere, grazia, bellezza, ingegno, manere accorte, umanità ed ogni altro gentil costume, in questa tanto sono uniti, che ne risulta una catena, che ogni suo movimento di tutte queste condizioni insieme compone ed adorna» (Cort. IV, 2). Per Elisabetta: «a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era» (Cort. I, 4, corsivi miei).
29 Saccone, Galateo e generi letterari cit., pp. 25-29.
30 Da notare il termine «indirizzato», unica forma usata da Castiglione per indicare l’atto di dedica; significativa anche la qualifica di «giovane», dovuta, per Quondam, all’effetto della «lunga durata di un’amicizia che risale agli anni della gioventù, un effetto della sua sempre verde memoria», benché Ariosto sia morto all’età di cinquant’anni, cfr. Quondam, Il Cortigiano, vol. II. Guida alla lettura, Milano, Mondadori, 2002, p. 7.
31 Genette, Soglie cit., p. 133.
32 In particolare si veda la prospettiva critica di Quondam, che lega ogni fase redazionale del Cortegiano alle circostanze storiche e biografiche di Castiglione: già presente a Madrid dal 1525 come Nunzio Apostolico, egli è costretto nel 1527, in parallelo alle fasi redazionali della princeps (L è inviato a Venezia il 9 aprile) ad affrontare la gravissima crisi politica e diplomatica conseguente al Sacco di Roma, Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., pp. 322-30.
33 Afferma il Cian: «De Silva, acquistata un’autorità e una notorietà non comune nei circoli romani, esercitava una specie di mecenatismo, che era alla sua volta una prova di cultura illuminata; che e per questa e per l’indole sua nobile e dolce, s’era accattivate molte amicizie, specialmente tra i cultori di letteratura e d’arte; onde è naturale che il Castiglione, durante le sue dimore in Roma, sotto Leone X e Clemente VII, avesse avuto frequenti occasioni di avvicinare il Vescovo di Viseu e di stringere con lui una salda amicizia, e che di questa abbia poi voluto lasciare un’attestazione solenne e insieme affettuosa nella sua Dedicatoria del Cortegiano» (V. Cian, Un illustre nunzio pontificio del Rinascimento cit., p. 244). Per informazioni complete e approfondite sul Da Silva cfr. S. Deswarte, Il “perfetto cortegiano”. D. Miguel da Silva, Roma, Bulzoni, 1989; in relazione alla sua posizione a Roma e al catalogo delle altre opere a lui dedicate, ben cinque negli anni 1515-25, cfr. Motta, Castiglione e il mito di Urbino cit., pp. 330-83.
34 Cfr. Motta, Castiglione e il mito di Urbino cit., pp. 445-46 e relativa bibliografia.
35 Così Saccone: «se qualcuno aveva le carte in regola per essere istituito nella figura del lettore che il Castiglione poteva augurare all’ultima redazione della sua opera, questo era il vescovo portoghese. […] Doveva, più che poteva, ben apparire dunque a Castiglione la risposta e la conferma, dalla realtà, al modello del cortigiano elaborato, “formato con parole” nella sua opera, la cui perfezione era stata rinvenuta nell’institutio principis. Si potrebbe dire anche altrimenti: se Alfonso Ariosto costituiva con Castiglione all’inizio e durante la scrittura la realtà da cui il testo partiva, Michel poteva ben indicare il termine del viaggio, il momento conclusivo della vicenda», Saccone, Galateo e generi letterari cit., pp. 17-18.
36 F. Brugnolo, R. Benedetti, La dedica tra Medioevo e primo Rinascimento: testo e immagine, in I margini del libro cit., pp. 13-54.
37 «[...] rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra omini singularissimi a tale proposito; e benché io non v'intervenissi presenzialmente per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco appresso il mio ritorno intesi da persona che fidelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia omini degni di somma laude ed al cui giudicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede» (Cort. I, 1). La forma dialogica che struttura il testo comporta un processo di deresponsabilizzazione, rendendo la formazione del cortigiano un prodotto collettivo (Saccone, Galateo e generi letterari cit., p. 12). Al contrario, secondo il meccanismo oppositivo già rilevato, la responsabilità dell’enunciazione della dedicatoria è tutta di Castiglione.
38 La prima stesura dell’opera inizia nel 1513-1514 (testimoniata dagli ‘Abbozzi di casa Castiglioni’, indicati da Ghinassi con A).
39 Sulla «doppia distanza» di Castiglione, ovvero quella «storica» da Venezia e quella «retorica» dai luoghi della conversazione cfr. C. Ossola, Dal cortigiano all’uomo di mondo. Storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987, pp. 28-29: «per un elegante chiasmo di funzioni, la cornice retorica del prologo (I, 1) istitutiva del trattato, invera testualmente, fissando ab origine la necessità dell’assenza, e legittima come propria reduplicazione la cornice ‘postuma’, ‘esterna’, della dedica; ma nello stesso tempo quest’ultima trasforma la ‘distanza retorica’ stabilita dal prologo al testo (I, 1) in distanza storica, in irreparabile divaricazione che la ‘chiusura’ del libro apre tra autore e testo. Prenderà così più profondo significato la metafora che accompagna il congedo dal testo e l’invio del libro come ‘ritratto di pittura’». Il trattato si trasforma così in ritratto, rimanendo a posteriori, dopo la morte, e preservando «quasi una imagine o più presto vita delle parole». Per la strategia della doppia articolazione del prologo cfr. anche Saccone, Galateo e generi letterari cit., pp. 1-21.
40 È la tesi di Quondam, dal momento che difficilmente prima di partire per la Spagna nell’autunno del 1524 Castiglione avrebbe potuto inviare già la terza redazione, completata nel maggio dello stesso anno. Il pericolo è dunque reale, dal momento che si tratta di una versione precedente e diversa del testo che intendeva pubblicare nel 1528, cfr. Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., pp. 505-7. In relazione all’epitesto, è significativa la lettera di Vittoria Colonna del 20 settembre 1524, in cui la Marchesa dichiara di non volere restituire la copia manoscritta a Castiglione, con un lungo elogio del Cortegiano, una sorta di intervento critico, cfr. V. Colonna, Carteggio, a cura di E. Ferrero e G. Muller, Torino, 1889, pp. 23-26. Proprio negli anni seguenti Castiglione intensifica le richieste di restituzione: si vedano la lettera spedita da Madrid il 21 marzo 1525 (B. Castiglione, Lettere del Conte Baldessar Castiglione, ora per la prima volta date in luce, dall’abate Pierantonio Serassi, voll. 2, Padova, Comino, 1769-71, cit. vol. I, pp. 167-68) e quella da Burgos il 21 settembre 1527 (Colonna, Carteggio cit., pp. 51-53), che contiene molti motivi presenti nella dedicatoria, come si vedrà.
41 Genette, Soglie cit., pp. 193 sgg.
42 Ibid.
43 Ivi, pp. 195-218.
44 Senza entrare nel merito dei contenuti della polemica, si rimanda per lo meno a Mazzacurati, Misure cit., pp. 88-90; Motta, La “Questione della lingua” nel primo libro del ‘Cortegiano’ dalla seconda alla terza edizione, in «Aevum», 72, 1998, pp. 693-732 e, per la discussione linguistica nel primo libro in un’ottica intertestuale, al mio Moderni e antichi nel primo libro del ‘Cortegiano’, Milano, Led, 2007, pp. 79-135.
45 «Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti distinti, che ’l piú delle volte nell’insegnare qualsivoglia cosa usar si sòle; ma alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti i quali già passarono tra omini singularissimi a tale proposito» (Cort. I, 1).
46 «pigliar impresa, la quale io non conoscessi poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano [...] che, se a me stesso non paresse maggior biasimo l’esser da voi reputato poco amorevole che da tutti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica» (Cort. I, 1).
47 Genette, Soglie cit., pp. 193 sgg.
48 Nel senso genettiano di quegli elementi paratestuali che circolano fuori dal libro, cfr. Genette, Soglie cit., pp. 337 sgg.
49 Le lettere sono state raccolte a partire dal Settecento; siamo infatti in una fase anteriore alla nascita degli epistolari d’autore, il cui primo esempio, quello dell’Aretino, è del 1538. Mi limito qui a segnalare: A. J. M. Cartwright, Baldassare Castiglione, the perfect courtier: his life and letters, 1478-1529, New York, Dutton, 1908 (rist. New York, AMS Press, 1973) e la possibilità di reperire in rete le lettere dal 1497 al 1521 entro il progetto AITER dell’ Università di Pavia, sotto la cura di R. Vetrugno, al sito: http://aiter.unipv.it.
50 Si vedano le preziose indicazioni di Vetrugno sulla necessità di comparare lettere e Cortegiano: il corpus di lettere rappresenta infatti una preziosa testimonianza della scrittura dell’autore legata all’uso e alla consuetudine, fondamentale in riferimento alla polemica linguistica anche della dedicatoria al Da Silva. E’ una scrittura colta ma non letteraria, cortigiana, di area lombarda, cfr. R. Vetrugno, Sulle lettere autografe di Baldassar Castiglione (1497-1524), I, in «Lingua Nostra», 66, 2005, pp. 65-81.
51 Cfr. invece la lettura di Quondam, per cui si tratterebbe di una strategia retorica, dal momento che il libro è già in tipografia, cfr. Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., p. 71.
52 La decisione è personale: «Ond’io, spaventato da questo periculo, diterminaimi di riveder súbito nel libro quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lacerato per man d’altri» (Cort. Ded., I, corsivi miei).
53 «A chi prima mi fece accorgere che ne tenevo causa fu i mio signor Marchese del Vasto, il quale mi mostrò una lettera di Vostra Signoria, dove essa medesima confessava il furto del Cortegiano, la qual cosa io per allor tenni per sommo favore, pensandomi che l’havesse da restare in sua mano e ben custodito, finché da me gli fosse aperta così honorata prigione» (Colonna, Carteggio cit., pp. 51-53).
54 Amico di Castiglione, il Flaminio (1498-1550) aveva forse preso accordi sul Cortegiano con Castiglione prima della sua partenza per la Spagna, risulta quindi implicato nella pubblicazione dell’opera, anche se non si possono precisare ulteriormente i suoi apporti. Per la lettera riportata cfr. B. Castiglione, Lettere inedite e rare, a cura di G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, p. 96.
55 Ripubblicata in Bertolo, Nuovi documenti cit., p. 134, corsivi miei. Il motivo della fortuna avversa è unito a quello del «debito», così nella dedicatoria in riferimento alla revisione travagliata: «il che io feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati. Ma la fortuna già molt’anni m’ha sempre tenuto oppresso in così continui travagli, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine» (Cort. Ded., I).
56 E’ il caso di Bembo, come dimostrano le lettere al Ramusio del 12, 13 marzo e 6 maggio 1528, cfr. ivi, p. 140.
57 La ricostruzione degli accordi di stampa, mediante le lettere, consente di fare luce sull’idea di pubblico che l’autore aveva in mente. La trattativa iniziale, lunga e complessa, prevedeva 500 copie per Castiglione in carta normale, da rivendere per recuperare le spese per la carta, e 30 copie in carta reale, per un pubblico selezionato; in seguito la tiratura complessiva fu fissata a 2000 copie, di cui 130 all’autore, che avrebbe dovuto anche acquistare la carta delle proprie e contribuire alle spese di stampa (lettera al Tirabosco del 9 aprile 1527). In una lettera dell’aprile 1528 al Tirabosco, il fedele fattore, vengono date precise diposizioni su quelle che avrebbero dovuto essere esemplari di dedica: essendo la legatura ancora personalizzabile, Castiglione richiede trenta copie sul totale (che è sceso a 100 unità) in carta reale, di cui quindici da inviare in Spagna. Analoga è la divisione delle copie rimanenti, meno pregiate perché in carta comune, ripartite esattamente a metà tra quelle da destinare all’Italia e alla Spagna. Seguono indicazioni precise sui destinatari, a testimonianza di come Castiglione si faccia promotore di sé stesso entro un pubblico selezionato verso l’alto, di umanisti, prodigandosi nella diffusione di un’opera di cui non farà in tempo a godere del successo, per la morte improvvisa che lo colse l’8 febbraio del 1529. Va infine ricordato come, ad oggi, manchi una ricerca sistematica volta a rintracciare e studiare tali esemplari di dedica, andati in parte perduti. Per le lettere al Tirabosco, a cui occorre aggiungere quella del 10 settembre alla madre, cfr. Bertolo, Nuovi documenti cit., pp. 140-43, mentre per la ricostruzione delle trattative di stampa cfr. Sorella, La vulgata nella tipofilologia cit., pp. 161-62.
58 La lettura ‘discrepante’ del testo, quindi, è stata resa possibile dal proliferare di apparati paratestuali, oltre che dalla natura complessa e multisemica dell’opera (per il concetto di lettura discrepante cfr. K. Hempfer, Letture discrepanti. La ricezione dell’‘Orlando Furioso’ nel Cinquecento, Modena, Panini, 2004). Significativi sono allora gli studi sugli apparati paratestuali prodotti in sede redazionale delle edizioni a stampa lungo tutto il Cinquecento, tra cui si ricorda P. Burke, Le fortune del Cortegiano. Baldassarre Castiglione e i percorsi del Rinascimento europeo, Roma, Donzelli, 1998; Quondam, “Questo povero Cortegiano” cit., pp. 35-52. Si inizia semplicemente con le pagine numerate (Giunti, 1529) e si arriva alla «tavola» degli argomenti presenti nel libro (Giolito, 1541), replicata nell’indice delle «voci degne di nota» in ordine alfabetico dell’Aldina (1547) che aggiunge una seconda tavola delle «condizioni e qualità» del cortigiano, quindi al margine apostillato (Giolito 1556) e alle biografie varie di Castiglione, premesse al testo (le più diffuse, quelle di Giovio e Marliani). L’edizione sicuramente più significativa per gli apparati paratestuali, che contribuisce a rendere il Cortegiano un classico e ne fissa la forma poi prevalente nelle stampe, è senz’altro quella di Dolce e Giolito del 1552, poi ristampata nel 1559, la cui analisi puntuale è presente in Quondam (ivi, pp. 42-52), ma si veda anche Ossola, Dal cortigiano all’uomo di mondo cit., pp. 57-59. Un discorso simile va svolto sugli apparati paratestuali delle edizioni straniere: anche in questo caso si assiste alla proliferazione di tavole, indici e note, volti a trasformare (e snaturare) l’opera in un manuale di regole e precetti. In qualche caso si verifica anche l’eliminazione dell’epistola prefatoria, come nell’edizione inglese di Clerke, in latino, in italico, che aggiunge sei prefazioni ex novo eliminando però quella autoriale, segno ancora di gusti e strategie di lettura del testo differenti rispetto alla volontà di Castiglione, come dimostra lo stravolgimento del titolo: Balthasaris Castilionis comitis de Curiali, sive Aulico, libri quatuor, ex Italico sermone in Latinum Conversi, London, 1571, in ottavo, con successive ristampe, cfr. Burke, Le fortune cit., pp. 71-73 e Dictionary of National Biography, 1885-1900, London, Smith, Elder & Co., sub voce Bartholomew Clerke.
59 Cfr. la prefatoria in Il libro del ‘Cortegiano’ del conte Baldassarre Castiglione (Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1556) dedicata a una gentildonna vicentina, Nicolosa Losca, celebrata per la sua bellezza fuori dal comune mediante modalità che la collegano presumibilmente ad Elisabetta Gonzaga.
60 La relativa mobilità negli apparati paratestuali è riscontrabile per esempio nel caso della divisione in paragrafi: quella convenzionalmente, entrata nell’uso a partire dall’edizione di Cian, qui utilizzata e riprodotta da tutte le principali edizioni novecentesche, è stata messa in discussione una decina di anni fa dall’edizione di Quondam (B. Castiglione, Il cortigiano, a cura di A. Quondam, Milano, Mondadori, 2002), che, oltre ad attualizzare il titolo e riprodurre il testo dell’Aldina del 1528, propone una paragrafatura completamente differente, di ordine tematico, con l’aggiunta di un secondo volume, che costituisce un ricco commento/spiegazione del testo, pensato per renderlo fruibile ad un lettore non esperto: cfr. il dibattito sulla rivista «Ecdotica» e le perplessità emerse in alcuni studiosi, anche per quanto riguarda la nuova paragrafatura: Forme e sostanze: ‘Il Cortigiano’ di Amedeo Quondam, con i contributi di P. Trovato, A. Sorella, E. Pasquini, F. Rico, A. Stussi, A. Quondam, in «Ecdotica», 2004, pp. 157 sgg.