2, 2008
 
Saggi    
 
Abstract


Paola Allegretti

Dante e Brunetto sui «duri margini» (Inf. xv 1): strategie di risarcimento postumo


1. Nel cap. 76 della Rettorica Brunetto Latini si pone il problema della funzione e del ruolo della salutazione perché lo statuto autonomo di questa prima parte dell'epistola, cioè una tipologia testuale che Brunetto assimila qui alla diceria ciceroniana,1 è incrinato da una serie triplice di obiezioni. La prima è la mancata trattazione della salutazione da parte di Cicerone: per quelli che invocano questo argomento, cioè l'assenza di una auctoritas, Brunetto ricorda che Cicerone formalizza i discorsi attuati nell'oralità e che quindi non tratta, di necessità, di un dispositivo che appartiene invece al discorso trasposto in una lettera: Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio intralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo. Certa cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare il nome del parlieri né dell'uditore (cap. 76 par. 26, p. 153).2 La rimozione dell'ostacolo è al modo della questione translativa (cfr. cap. 60, p. 118), ovvero una dichiarazione di non pertinenza dell'appunto. Questa stessa non opportunità di ricorrere a Cicerone «perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in controversia tencionando» (cap. 76 par. 26, p. 154), è invocata per la seconda obiezione che, facendo rientrare la salutazione nell'exordio, non la ritrova neanche in questa veste nel trattato di Cicerone: Appresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio; ché sanza fallo chi saluta altrui per lettera già pare che cominci il suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio compiutamente, non curò di divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le saluti (cap. 76 par. 26, p. 154).3 Da questa posizione, e cioè la collocazione e lo statuto della salutazione-margine, nasce l'ultima obiezione che è invece di tipo strutturale: o la salutazione appartiene al corpo della lettera o invece è un apparato esterno: Et in perciò furo alcuni che diceano che lla salutazione non era parte della pistola, ma un titolo fuor del fatto. Et io dico che la salutazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chiarisce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione del mandante. [...] Adunque pare manifestamente che lla salutazione è così parte della pistola come l'occhio dell'uomo. Et se l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione è nobile parte della pistola, c'altressì allumina tutta la lettera come l'occhio allumina l'uomo. Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione è altrettale come la casa che non à porta né entrata e come 'l corpo vivo che non à occhi (cap. 76 parr. 27-28, pp. 154-55).4 Porta, luogo deputato al transito tra l'esterno e l'intimo, come è l'occhio per l'uomo, sono i termini metaforici adoperati da Brunetto per rilevare la funzione nobile e l'autonomia di questa posizione liminare, se vogliamo ambigua (prima del contenuto della lettera e prima dell'esordio, ma non «titolo fuor del fatto»), che però un buon dittatore non potrebbe tralasciare o sottovalutare: Adunque provedere dee il buono dittatore che, similemente come saluta l'uno uomo l'autro trovandolo in persona, così il dee salutare in lettera mettendo et adornando parole secondo che la condizione del ricevente richiede. Ché quando uomo va davante a messer lo papa o davante ad imperadore o a altro segnore ecclesiastico o seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la testa, et alla fiata si mette in terra ginocchioni per basciare il piede al papa o allo 'mperadore (cap. 76 par. 30, p. 156).5 Gli esempi degli ossequi risalgono la scala gerarchica delle autorità nominate a stretto contatto, in una specie di corrispondenza chiastica: ed ecco che nei confronti di «segnore ecclesiastico o seculare», come chi si trovi in mezzo a «cherci / e litterati grandi e di gran fama» (Inf. xv 106-7), il dittatore dice che si «va con molta reverenzia et inchina la testa», proprio come Dante sul margine duro del quindicesimo dell'Inferno, il quale «'l capo chino / tenea com' uom che reverente vada» (Inf. xv 44-45).6 E sembra proprio che Dante sia sensibile alla lezione che Brunetto tiene lungamente nel cap. 76 della sua Rettorica dove non solo gli preme asserire che prima dell'esordio c'è un margine, un confine in cui vengono espressi i ruoli di chi invia e di chi riceve, ma anche si avverte l'eco di una discussione polemica capitale nei confronti di quello che «penserebbe per aventura un grosso intenditore». Le due prime obiezioni surricordate mettono infatti in campo proprio Tullio contro Brunetto, e lo sponitore qui invece rivendica a sé un'autonomia e una autorità normativa importante nei confronti dell'auctoritas volgarizzata e spiegata. La possibilità cioè di innovare, derivando dal testo cicerionano, per costituire una retorica «sopra l'altre vicende», cioè gli altri generi tralasciati in antico. E questa funzione suppletiva era stata già la posizione dichiarata all'inizio: L'autore di questa opera è doppio: uno che di tutti i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicero, il più sapientissimo de' Romani. Il secondo è Brunetto Latino cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio avea detto; et esso è quella persona cui questo libro appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo proprio detto e de' filosofi e maestri che sono passati, il libro di Tulio, e tanto più quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel libro di Tulio, sì come il buono intenditore potràe intendere avanti (cap. 1 par. 7, p. 6).7 E questo capitolo che si apre sulla salutazione sembra proprio il punto dell'opera in cui «il buono intenditore» è invitato a misurare il contributo particolare e innovativo dello sponitore. Non è cioè un caso che il cap. 76 della Rettorica sia anche il più corposo di tutto il trattato: lo sponitore si dilunga in un testo «in lettera sottile», cioè nel formato della glossa, ripartito in ben trentatré paragrafi; dei 105 capitoli attuali nessun altro ha una chiosa di pari estensione.8 In questa lunga glossa c'è anche il rintocco affettuoso di un motivo privato, cioè la figura del dedicatario, già messo in rilievo nell'esordio a tutto il trattato, e che è ribadito nell'attacco del brano, a fianco della dichiarata novità teorica: Et sopra questo punto, anzi che 'l conto vada più innanzi, piace allo sponitore di pregare il suo porto, per cui amore è composto il presente libro non sanza grande afanno di spirito, che 'l suo intendimento sia chiaro e lo 'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente a intendere le parole che son dette inn adietro e quelle che seguitano per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto e nobile parladore, della quale scienzia questo libro č lumiera e fontana. Et avegna che 'l libro tratti pur sopra controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in tencione, et insegna cognoscere le cause e lle questioni, e per mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell'accusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore che Tullio parlasse delle piatora che sono in corte, e non d'altro. Ma ben conosce lo sponitore che 'l suo amico è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la propria intenzione del libro, e che lle piatora s'apartengono a trattare ai segnori legisti; e che rettorica insegna dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora né pur tra accusato et accusatore, ma è sopra l'altre vicende, sì come di sapere dire inn ambasciarie et in consigli de' signori e delle comunanze et in sapere componere una lettera bene dittata (cap. 76 parr. 2-4, pp. 142-43).9 Dunque porto è il senhal che Brunetto adopera nella Rettorica per l'innominato destinatario: «uno suo amico della sua cittade e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che lli fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'appellava suo porto, sì come in molte parti di questo libro pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto disiderava di sapere ciò che' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per suo amore questo Brunetto Latino, lo quale era buono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di rettorica, si mise a ffare questa opera, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienza e dell'altrui quello che fa mistieri» (cap. 1 par. 10, p. 7).10 E difatti ecco, con le due ricordate ai cap. 1 e 76, le altre volte che si parla di lui: «E questo puote così intendere il porto dello sponitore» (cap. 28 par. 2, p. 74), «e sì come lo sponitore le puote fare meglio intendere al suo porto» (cap. 32 par. 6, p. 79), «Lo sponitore parla all'amico suo. Perciò lo sponitore priega 'l suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di sì dare l'animo a cciò ch'è detto davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo e 'l deliberativo e 'l iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue per innanzi, ch'elli intenda tutto 'l libro di tal guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell'arte, il libro e lo sponitore ne riceveranno perpetua laude» (cap. 33 par. 3, p. 81).11 Tale giovane persona è dotata di tanto conoscimento, parlatore molto buono naturalmente, e molto desiderava di sapere che cosa insegnassero le arti retoriche degli antichi, e per i frutti futuri che deriverà dall'insegnamento che Brunetto gli rivolge, per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell'arte, farà in modo che perpetua laude ricevano sia il libro, cioè Insegnamento di Rettorica, sia lo sponitore, ser Burnetto Latino da Firenze. Si lascino per ora queste dichiarazioni esordiali, che andranno però tenute presenti per quel famoso verso che l'anima dannata di Brunetto rivolge a Dante: «non puoi fallire a glorļoso porto» (Inf. xv 56), i cui termini sono carichi, come già si vede, di un senso complesso, non semplicemente augurale. Si considerino invece, globalmente, le questioni nodali del volgarizzamento.
2. Il volgarizzamento commentato di Brunetto Latini si chiude, in tutti i codici, ex abrupto al cap. 105, rubricato Della laidezza della causa, cioè a proposito della difesa in cause che vertano su accuse infamanti. Sorprendente è la dicitura di explicit che il gruppo dei Magliabechiani scrive in questo punto: «Explicit iste liber. Scriptor sit crimine liber» e quindi il crimen si attribuisca tutto all'autore-sponitore, mentre nell'elegante M1 (Magliabechiano II. iv. 127), di metà del XIV secolo, si legge: «Nonn è finito il libro, ma non sine truova più volgarizzato; ma, a seguire l'ordine cominciato, dovrebbe seguire ancora chiosa nella quale dichiarasse come si mette la cosa per l'uomo e l'uomo per la cosa». La formula dell'esametro leonino pare attagliarsi al caso specifico con una qualche pertinenza: il contenuto del cap. 105 è infatti conturbante: Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché l'animo dell'uditore si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama; et infingerti di non difendere quello che pensano che tu voglie difendere, e così, poi che ll'uditore fie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali indegnano l'aversarii, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non pertiene a tte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell'aversarii, né questo né quello, sì ch'apertamente tu non danneggi coloro che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore o minore (cap. 105, p. 196).12 E così precisa la glossa dello sponitore, quando un colpevole esordisce mettendo avanti una sua virtù riconosciuta al posto della sua colpa innominata: Et quando la causa è laida per cagione di mala cosa, sì dovemo noi recare nel nostro parlamento un'altra cosa buona e piacevole; sì come fece Catellina scusandosi della congiurazione che facea in Roma, che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo: «Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause» (cap. 105 par. 3, p. 198).13 Dunque abbiamo qui, e sotto veste didattica, lo scandalo o peccato originario della sofistica: la relativizzazione dialettica del male, con la ricetta del rovesciamento dei valori. Chi è accusato di qualcosa di infamante adotterà la strategia di non difendere né sé né la colpa, ma si schiererà anch'egli contro la colpa infamante e poi, parlando dei meriti propri o di quelli dei suoi parenti, occultamente guadagnerà la benevolenza dell'uditorio. La tappa successiva, cioè minimizzare la propria posizione, citando interpretazioni e pareri autorevoli e collocando il proprio caso in tale quadro generale («e proferere la sentenzia d'altri in somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore o minore»), non è glossata da Brunetto trattatista (come ci ricorda l'annotazione finale di M1). Ma resta la dichiarazione di questa argomentazione dialettica di rovesciamento (che farà però a lungo le sue migliori prove solo nella finzione teatrale, e per di più nel teatro di argomento antico, tale in Shakespeare l'orazione di Antonio sul corpo di Cesare), e, cosa ancor più repellente per il costume giuridico dell'inquisizione e dell'auto da fé, la presa in conto della difesa del colpevole di infamia, indicata con il termine causa laida. Eppure proprio questo punto scabroso del testo, dopo il quale è stata operata una censura variamente testimoniata dalla tradizione, è pertinente con il problema costituito da Brunetto personaggio infernale. Ancor più con il modello di discorso dei dannati illustri, cioè quelle ragioni retoriche che fanno sì che la loro bruttura morale non li annienti del tutto nell'esperienza di Dante personaggio, non li privi di parola in virtù di una di quelle formule celebri e perentorie: «non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Inf. iii 51), «ché voler ciò udire è bassa voglia» (Inf. xxx 148), «e cortesia fu lui esser villano» (Inf. xxxiii 150). Alcuni dannati hanno infatti uno statuto contraddittorio: sono anime prave, dannati che debbono dichiarare il proprio peccato al pellegrino Dante, ma sono anche personaggi ammirati. Sintomatico il motivo dei fiorentini «ch'a ben far puoser li 'ngegni» (Inf. vi 81) di cui Dante chiede notizia a Ciacco e il cui nome rintoccherà da un capo all'altro dell'Inferno «Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni / Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca» (Inf. vi 79-80), disposti a ghirlanda nei canti 10, 16 e 28 «Ricordera'ti anche del Mosca» (Inf. xxviii 106). Ora proprio nella Rettorica Brunetto esemplifica e chiarisce gli espedienti e le regole di discorso per chi, riconoscendosi colpevole (situazione ineludibile per i dannati), vuole però ottenere ascolto benevolo. Ripercorrendo il trattello nella prospettiva dell'Inferno dantesco, non si potrà non sottolinearne una serie di passi importanti. A partire dal primo capitolo, in cui Brunetto elogia in Pier delle Vigne, ministro di Federico II, l'incarnazione del buon oratore, cioè parlatore e dittatore: «Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì ll'usa in dire e in dittare sopra le quistioni apposte, sì come sono li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo secondo imperadore di Roma e tutto sire di lui e dello 'mperio» (cap. 1 par. 5, p. 5).14 Anche Dante sottolinea l'ascendente esclusivo su Federico del dittatore vicario, ampliando quel termine agozetto 'ministro' con un rebus sul nome del più celebre Petrus-Vicario di Cristo: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo [...] / che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi» (Inf. xiii 58-61). Ma anche gli elementi dell'apologia di Farinata:
  «A ciò non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
(Inf. x 89-93)
 
si trovano proprio tra gli argomenti che Brunetto insegna ad adoperare per intercedere, quando l'accusa non è negata e viene ammessa sperando nel perdono, con quella procedura che in arte retorica è chiamata preghiera «La preghiera ascosa è in questo modo: "Io confesso ch'io feci questo fatto e non domando che voi mi perdoniate; ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato"» (cap. 56 par. 2, p. 112).15 Per Farinata, che rivendica davanti a Dante il bene e l'onore recato al comune fiorentino, vale la casistica della preghiera ascosa che è però circostanza processuale rarissima già nei termini succinti di Cicerone (Brunetto parla di «picciola parte del testo», cap. 56 par. 1, p. 112): «Preghiera è quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso quel peccato e confessa che ll'àe fatto pensatamente, ma sì domanda che lli sia perdonato, la qual cosa molte rade fiate puote advenire» (cap. 56, p. 111).16 Se questo è il tipo processuale più improbabile per il romano, e invece il più caratteristico della procedura inquisitoriale ecclesiastica, Brunetto, in una sorta di continuità col mondo romano (si pensi infatti all'ambiguità storica di nomi istituzionali come imperatore, senato e anziani del popolo di Firenze - che ripropongono quasi una sigla acronimica spqf -), restringe ancor più l'efficacia d'azione della «preghiera in questa arte»: «Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono advenire rade volte, spezialmente davante a' giudici che sono giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben puote alcuna fiata lo 'mperadore e 'l sanato avere provedenza in perdonare gravi misfatti, sì come poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare e di disgravare secondo lo loro parimento» (cap. 56 par. 3, 112).17 Anche se si tratta di considerazioni restrittive, il richiamo alle persone depositarie del potere di perdonare secondo il loro imperscrutabile parere (imperatore, senato e «li anziani del popolo di Firenze»), risulta oltremodo interessante come prospettiva tutta laica, e quindi congrua per l'eretico Farinata, ma incongrua nella prospettiva cristiana in cui Dante colloca preghiera e perdono. Anche se Farinata adotta la figura retorica della preghiera ascosa, né Dante né il reggitore dell'universo lo perdoneranno mai. Si noti però che la continuità col mondo romano, e gli anacronismi che ne conseguono, collimano con le cordinate storico-sociali che Brunetto personaggio rievoca nel quindicesimo: «quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico» (Inf. xv 61-62), e ancora «Faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme, e non tocchin la pianta, / [...] / in cui riviva la sementa santa / di que' Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta» (Inf. xv 73-78). Si ricorderà che con queste parole il dannato allude allo schieramento in favore di Catilina della Firenze romana, alla sua conseguente distruzione e ripopolazione con gente del «macigno» (Inf. xv 63). E qui bisognerà registrare la circostanza seguente. Si riprenda infatti il discorso apologetico di Catilina dell'ultimo capitolo superstite del trattato, il quale, secondo Brunetto, esordì dicendo «Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause», e si confronti con la stessa argomentazione di Brunetto, in cui è proprio l'aiuto il merito, non realizzato a causa di una morte prematura («e s'io non fossi sì per tempo morto» Inf. xv 58), nei confronti di Dante: «dato t'avrei a l'opera conforto» (Inf. xv 60). Con questi esempi si tocca il punto nodale del ruolo del trattatello retorico nella macchina della Commedia. È la Rettorica infatti il testo che Dante tiene presente, e la menzione del Tresor è fuorviante e fuggitiva («Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora, e più non cheggio» Inf. xv 119-20). Come non avvicinare questo distico all'analoga richiesta che Brunetto rivolgeva al Suo-Porto a proposito del trattatello: «Perciò lo sponitore priega 'l suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di sì dare l'animo a cciò ch'è detto davanti, [...], ch'elli intenda tutto 'l libro di tal guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell'arte, il libro e lo sponitore ne riceveranno perpetua laude» (cap. 33 par. 3, p. 81)? Dante infatti assicurava già che «e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo / convien che ne la mia lingua si scerna» (Inf. xv 86-87). E ci si soffermi anche sul distico immediatamente contiguo a questo, dove Dante afferma e specifica: «Ciò che narrate di mio corso scrivo / e serbolo a chiosar con altro testo» (Inf. xv 88-89), riservando a sé (e quindi testimoniando già subito con la propria lingua un debito discepolare), proprio le due funzioni distinte che caratterizzano l'autore-sponitore Brunetto Latini nel prologo surricordato. Che la Rettorica sia il testo di Brunetto che più conta per Dante, potrebbe ben risultare chiaro non foss'altro per le due auctoritates lì costantemente menzionate da Brunetto, cioè Tullio e Boezio. Se vogliamo stringere più davvicino l'insegnamento di Brunetto troviamo infatti l'elogio della Filosofia («Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende sotto sé tutte le scienze; [...] per la qual cosa neuno puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto ch'elli intralasci tutte le altre cose e dia ogne studio et opera ad avere intera sapienzia» cap. 17 par. 6, p. 41),18 e una prospettiva collimante con gli interessi dell'autore del Convivio, per lo meno in quel periodo di transizione e di studio nelle scuole di filosofia. Ma il fatto decisivo, a mio parere, è che Brunetto tratti ex professo delle regole opportune per provocare la buona disposizione nell'uditorio, anche quando si sia accusati di turpitudini. Al di là delle singole coincidenze argomentative, l'elemento macroscopico è infatti la regola enunciata a proposito dell'esordio:19 parte superflua quando l'argomentazione si muova sul piano dell'onesto (cap. 80, p. 162), e invece importantissima e decisiva quando si tratti di causa mirabile (cap. 81, p. 162) o di causa laida (cap. 105, p. 196): Quando il conveniente sopra 'l quale ne conviene dire è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò quando noi venimo a dire noi potemo bene intralasciare lo principio e non fare neuno exordio né prolago di parole, e cominciare la nostra diceria alla narrazione, cioè pur dire lo fatto (cap. 91 par. 1, p. 172).20
3. Torniamo sui «duri margini» di Inf. xv21 dove avviene l'incontro tra il personaggio Dante pellegrino e il personaggio anima dannata di Brunetto Latini. Il quale, prima di dare inizio a una complessa procedura di preliminari ossequiosi e cerimoniali, richiama l'attenzione del pellegrino gridando il proprio sbigottimento: «Qual maraviglia!» (Inf. xv 24). Ora, la portata esatta di questo termine «maraviglia» non è semplicemente riducibile a 'stupore' o 'novità'. Nel prosieguo Brunetto dichiara una consapevolezza già antica del valore di Dante, «se ben m'accorsi ne la vita bella» (Inf. xv 57), rafforzata da quello che, in quanto dannato, può profetizzargli del futuro «La tua fortuna tanto onor ti serba» (Inf. xv 70). Sembrerebbe quindi non fuori luogo ampliare il campo semantico del termine al significato retorico di esso, quando è impiegato per qualificare un tipo particolare di causa, la causa mirabile, tra i cinque tipi possibili: «Le qualitadi delle cause sono cinque: onesto, mirabile, vile, dubitoso et oscuro» (cap. 79, p. 161). Secondo Cicerone, nel cap. 81 del trattato, l'aggettivo mirabile sta ad indicare che l'uditore, giudice o astante, non è in grado di condividere o di simpatizzare con la questione o il caso che si esamina: «Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui che de' audire» (cap. 81, p. 162). E lo sponitore, nonostante la formula perentoria «e di questo uno exemplo si puote intendere tutti i somiglianti», fatica a trovare un solo esempio appropriato, tant'è che la tradizione manoscritta nel gruppo dei Magliabechiani (M-m) omette l'intero sintagma «nella causa di colui c'avesse morto» nel primo paragrafo del brano sottostante, per ridurre l'esempio a quello, più volte ricordato da Brunetto, di Oreste che uccide la propria madre per vendicare il padre, mettendosi così in una situazione difficilmente valutabile di colpevolezza, in cui l'orrore del matricidio si complica con il dovere onesto della vendetta. Quali che restino le incongruenze nel testo critico del Maggini tra i due paragrafi della glossa, l'importante è che una situazione mirabile per chi la esamini, cioè difficilmente comprensibile, può benissimo essere onesta, cioè priva di riprensione e anzi onorevole, per chi ne è l'attore: Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale convenente che dispiace all'uditore, perciò ch'è di sozza e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è contra noi et è straniato dalla nostra parte; et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre o fatto furto o incendio. Dunque potemo intendere che una medesima causa puote essere onesta e mirabile: onesta dall'una parte, cioè di colui che difende il suo padre, mirabile dall'altra parte, cioè di colui medesimo che è contra la sua madre propia. E di questo uno exemplo si puote intendere tutti i somiglianti (cap. 81 parr. 1-2, p. 163).22 L'ambivalenza è difficilmente tollerabile, e più avanti nel trattatello causa mirabile verrà definita semplicemente «di rea operazione», che quindi, con ogni evidenza «dispiaccia all'uditore»,23 e perciò ha bisogno di un esordio ben congegnato: Inn adietro è bene detto che quella causa è appellata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare che dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio che quando la nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che ll'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel modo de exordio ch'è appellato principio, cioè dicendo un breve prologo in parole aperte e poche (cap. 88 par. 1, p. 169).24 Piace però supporre che Dante adotti, davanti a Brunetto, un postura retoricamente valida: è causa mirabile anche la sua presenza in Inferno, questa è la reazione testimoniata da Brunetto («Qual maraviglia!»), perché, nonostante le dichiarazioni di affetto e stima reciproche e i gesti complessi che le manifestano (Brunetto è come l'emorroissa che tocca il manto di Cristo, Dante avvicina la mano alla guancia di lui), tra i due non c'è possibilità di andare di pari («Io non osava scender de la strada / per andar par di lui» Inf. xv 43-44). Si sarebbe potuto Dante pellegrino sedere con Brunetto (Inf. xv 35), o avrebbe potuto camminare vicino a lui, facendo così in qualche modo parte della schiera dei «litterati grandi e di gran fama» (Inf. xv 107)? Rimpiange qui Dante qualcosa, visto che non prova nessun ribrezzo? In realtà i due debbono procedere paralleli, nessuna delle cortesi manifestazioni di solidarietà protestate passa all'atto, e niente neanche è successo «ne la vita bella» (Inf. xv 57), nonostante (e cioè proprio come dimostra) tutto quello che Dante si fa risarcire nelle parole di Brunetto. I due colloquiano nel tipo ipotetico dell'irrealtà più chiuso, perché riguarda un passato mai agito («e s'io non fossi sì per tempo morto» 58, «Se fosse tutto pieno il mio dimando» 79). Si resti comunque alle parole. Dante non risponde pertinentemente alla domanda di Brunetto («Qual fortuna o destino / anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? / e chi è questi che ti mostra 'l cammino?» Inf. xv 46-48). C'è chi ha supposto che Dante non risponda a tono come per una sorta di cortesia o rispetto per la suscettibilità di un antico maestro: non fa il nome di Virgilio per non surclassarlo con la guida nuova. Ma a me sembra che Dante non risponda neanche alla prima domanda:
  «Là su di sopra, in la vita serena»,
rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' ļo in quella,
e reducemi a ca per questo calle»
(Inf. xv 49-54)
 
Né dice chi lo muove,25 né chi è Virgilio, ma sunteggia invece, e si direbbe in tono minore, il contenuto del primo canto. Adotta cioè l'espediente retorico di accattivarsi l'uditore con un esordio: riscrive qui, davanti a Brunetto, il suo prologo con «parole aperte e poche» (cap. 88 par. 1, p. 169). A questa replica del margine inferiore del poema, Brunetto risponde con le ben note espressioni:
  Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
(Inf. xv 55-57)
 
che stanno ad indicare l'approdo ultimo del viaggio. Ma non si potrebbe dire che tale traiettoria per aspera ad astra, da un confine all'altro del pellegrinaggio, nella sua genericità, risolva il significato delle parole. Come mai nelle parole di Brunetto risuona proprio quell'espressione in rima «glorioso porto»? Basterà pensare che il richiamo indubitabile al senhal cui dedica la sua operetta rimandi, di risposta, al piano paratestuale di prologhi e dediche? Anche la comparsa del suo nome («se Brunetto Latino un poco teco» Inf. xv 32) è un elemento indubitabilmente protocollare. Nome dell'autore (Inf. xv 30 e 32), senhal del dedicatario (Inf. xv 56), titolo dell'opera nelle ultime battute (Inf. xv 119). E forte, a questo punto, è la tentazione di caricare di senso paratestuale anche la famosa affermazione di Virgilio («bene ascolta chi la nota», Inf. xv 99) quasi una manicula parlante con il lettore. E anche la surricordata dichiarazione di Dante «Ciò che narrate di mio corso scrivo / e serbolo a chiosar con altro testo» (Inf. xv 88-89), sembra muoversi in questo secondo grado di elementi caratteristici di quel paratesto complesso che è il prologo.
4. Nella Commedia il termine «porto» ricorre altre quattro volte: ci sono i passaggi al mondo dei morti «per altra via, per altri porti» (Inf. iii 91), i differenti luoghi di attrazione dei moti naturali «onde si muovono a diversi porti» (Par. i 112) e poi il senso referenziale e concreto delle due occorrenze «qual temon gira per venire a porto» (Purg. xxx 6) e «che fé del sangue suo già caldo il porto» (Par. ix 93). Nell'Inferno solo Caronte e Brunetto adoperano il termine: Caronte per alludere al passaggio futuro di Dante nella morte ma su nave più leggera, forse come il vascello che conduce le anime al Purgatorio, e Brunetto in quel sintagma in rima che viene chiosato 'approdo della gloria' (Pasquini-Quaglio) o 'giungere alla gloria' (Chiavacci Leonardi). L'aggettivo «glorioso» registra nel poema sedici occorrenze, che si distinguono in due accezioni, una laica e latina riservata ai comandanti («glorioso offizio» quello della vicaria imperiale di Pier dalle Vigne in Inf. xiii 62; «Que' gloriosi che passaro al Colco», i compagni di Giasone Par. ii 16; Purg. xi 133) o ai poeti (Par. xviii 83; Par. xxii 112), e una invece cristiana e paradisiaca che designa i beati (Purg. xxii 153; Par. xvi 151; Par. xxv 23), anche in una serie di perifrasi («glorioso essercito» Purg. xxxii 17; «glorioso scanno» Par. xxxii 28; «gloriosa rota» Par. x 145; «gloriosa vita» Par. xiv 6; «carne gloriosa e santa» Par. xiv 43; «anima gloriosa» Par. xx 112; «genti gloriose» Par. xxxi 60). Come si vede, nonostante le parafrasi correnti lascino l'espressione impregiudicata, c'è la possibilità di proporre tre accezioni. La prima indicherebbe l'approdo beatifico alla gloria divina, e «glorioso porto» si collocherebbe sul piano delle formule famose del primo canto della terza cantica, dove si celebra «La gloria di colui che tutto move» (Par. i 1), la quale permea differentemente l'universo secondo un ordine di bellezza nel quale tutte le nature create «si muovono a diversi porti / per lo gran mare dell'essere» (Par. i 112-13). Pur attraverso tale perifrasi, la menzione della gloria paradisiaca costituirebbe un'inedita novità nell'Inferno, e probabilmente anche un'impossibilità ontologica per un dannato. La seconda accezione riguarda una 'gloria' di àmbito politico imperiale, analogamente alla funzione che ancora onora Pier dalle Vigne, e questo senso collimerebbe con quanto insegnato da Brunetto trattatista. Nel primo capitolo della Rettorica «li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo secondo» possono appunto conseguire il successo di un impiego ministeriale al servizio dell'imperatore: «La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l'una parte e l'altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l'erba» (Inf. xv 70-72). Ancora nella Epistula vii, indirizzata all'imperatore Arrigo, risuonano contro Firenze le immagini vegetali e romane dell'invettiva pronunciata da Brunetto nel quindicesimo («et radice tanti erroris avulsa, cum trunco rami pungitivi arescant» Ep. vii 6 ['strappata la radice di così grave errore, i rami pungenti insieme col tronco inaridiscono'], «Vere matrem viperea feritate dilaniare contendit, dum contra Romam cornua rebellionis exacuit, que ad ymaginem suam atque similitudinem fecit illam» Ep. vii 7 ['invero cerca di dilaniare la madre sua con viperina ferocia quando aguzza le corna della ribellione contro Roma, che la fece a immagine e somiglianza sua']). C'è poi la terza possibile gloria, quella poetica, e qui l'ostilità fiorentina di contorno («quello ingrato popolo maligno / [...] ti si farà, per tuo ben far, nimico» Inf. xv 61-64), e l'insistenza sui traslati vegetali («tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico» Inf. xv 65-66; «la pianta / [...] in cui riviva la sementa santa / di que' Roman» Inf. xv 74-77) si potrebbero porre in relazione al problema del riconoscimento comunale di tale gloria, chiamato più tardi «cappello» trionfale. Si ricordi che Hollander propone per questa aspirazione un terminus post costituito dall'incoronazione poetica del Mussato. Ogni profezia è statutariamente polisemica, ma piace accantonare, tra le suesposte chiose, quelle che si puntellano su sintagmi e argomenti successivi, e restare a quanto, nel discorso dei due personaggi, non è posteriore agli eventi rappresentati. C'è infatti un approdo intravisto, con qualche reticenza, nelle stesse parole del pellegrino («a donna che saprà, s'a lei arrivo» Inf. xv 90), che declina, in chiave privata, un'accezione di «glorioso porto» come metafora di «Beatrice», e questa sembra una possibilità da non sottovalutare. Anche perché consentirebbe di restare, abbandonando il piano delle letture profetiche, nel sistema letterario cortese che prevede l'uso di senhal. Se Brunetto espone, in rima, il senhal del suo amico fiorentino, forse bisognerà recuperare anche, dalla stratigrafia semantica di glorioso, il significato primigenio, fiorentino, di questo aggettivo nella storia linguistica di Dante, che appunto a Beatrice lo riserva. Nella Vita Nova «gloriosa donna» è sempre Beatrice morta, che diventerà «gloriosa Beatrice» nel Convivio. In questo trattato però l'ultima occorrenza del sintagma «gloriosa donna» (Cv III xv 1) designa la Sapienza. Quello che preme rilevare è che in realtà il sintagma «glorioso porto» non è anodino, ma coniuga i due termini particolarmente affettuosi e rilevati del dedicatario del trattato di Brunetto (Suo-Porto) e di Beatrice (gloriosa), che dedicataria non è mai, ma è quel nodo per la cui complessità basti rileggere l'ultimo paragrafo della Vita Nova, dove si ritrovano le immagini dell'approdo e la menzione della gloria: Apresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei. E di venire a.cciò io studio quanto posso, sì com'ella sae, veracemente. Sì che, se piacere sarà di Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d'alcuna. E poi piaccia a colui che è sire della cortesia che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedecta Beatrice, la quale gloriosamente mira nella faccia di Colui «qui est per omnia secula benedictus». (Vita Nova [xlii] 31) C'è una qualche ritorsione nei confronti del peccato specifico del quindicesimo se veramente Brunetto allude a Beatrice con il sostantivo a lui caro ed esclusivo di porto più l'aggettivo elettivo di Dante per lei. Ma l'impiego indubitabile (a prescindere cioè dal suo scioglimento) del senhal della Rettorica, e cioè di un termine che, in quanto dedica, emerge dal mondo affettivo per ricevere notorietà pubblica, andrà anche letto come un'attenzione risarcitoria che Dante qui esige da Brunetto. Sembra cioè che le parole affettuose risarciscano un incontro mancato. Quale che sia stato il magistero di Brunetto nei confronti di Dante, le parole che i due si scambiano in Inferno recriminano e promettono un postumo «conforto» «all'opera» (Inf. xv 60), che la morte aveva evidentemente impedito. Un magistero, un conforto all'opera - che, come si vede nella Rettorica, significa una trattazione specifica, basata sull'insegnamento degli antichi per fortificare le disposizioni naturali all'attività letteraria -, addirittura una dedica, 'quella' dedica, che non si sono mai dati nella realtà mondana. Scampoli di vita avrebbe perciò Dante augurato a ser Brunetto («Se fosse tutto pieno il mio dimando / [...] voi non sareste ancora / de l'umana natura posto in bando» Inf. xv 79-81).
5. Bisogna in qualche modo tener conto che i due personaggi parlano secondo modalità retoriche. Non c'è solo la figura della preterizione, in generale, talché resta dubbia la natura del peccato del canto, e iterata apertis verbis: «Saper d'alcuno è buono; / de li altri fia laudabile tacerci» (Inf. xv 103-04), «Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone / più lungo esser non può» (Inf. xv 115-16). Questa è una pratica ovvia, con un esempio che ha qualche congruità ideologica anche nella Rettorica: «Noi potemo i nostri adversarii mettere inn odio dell'uditore se noi dicemo ch'elli anno alcuna cosa fatta isnaturatamente, contra l'ordine di natura, sì come mangiare carne umana et altre simili cose delle quali lo sponitore si tace presentemente.» (cap. 97 par. 1, p. 181).26 Ma ci sono le tecniche coscienti e reciproche della «insinuazione», del tornare in grazia dell'uditore, dello spostare la sua attenzione dalla cosa disonesta, impreteribile ma taciuta, alla cosa gradita: cioè la stima e l'affetto. Resta il dubbio, tra tante affettuosità postume, di quale sia la parte da lasciare all'inganno, e quale a un doloroso, pungente, e impossibile, risarcimento.

P. A.





Note

1 «Queste sono le sei parti che dice Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di ciascuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma in questo che è detto puote uomo bene intendere che queste sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal materia puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola colla diceria, cioè nello exordio, narrazione e nella conclusione» (B. Latini, La Rettorica, testo critico di F. Maggini, prefazione di C. Segre, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 152, cap. 76, par. 25). Faccio seguire una parafrasi ad ogni pericope brunettiana: "Queste sono le sei parti che secondo Cicerone debbono trovarsi nel discorso retorico, e di ciascuna il libro tratterà compiutamente più avanti. Ma in quanto è già stato esposto si può capire che queste sei medesime parti vanno bene anche nella lettera, che potrebbe essere di argomento affine. Comunque, qualsiasi sia l'argomento di una lettera, c'è concordanza tra discorso e lettera almeno in tre delle suddette sei parti, cioè nell'esordio, nella narrazione e nella conclusione".torna su
2 "E se qualcuno chiedesse per quale motivo Cicerone omise la salutazione e non ne trattò nel suo libro, il commentatore ne renderà ragione così: Cicerone, in verità, tratta nel suo libro delle orazioni che si debbono poi pronunciare e nelle quali non è perciò necessario mettere il nome di chi parla e di chi ascolta".torna su
3 "In secondo luogo sembra che la salutazione faccia parte dell'esordio; perché senza dubbio chi saluti altri in una lettera sembra già che inizi la parte dell'esordio. Ebbene Cicerone trattò accuratamente dell'esordio, ma non si preoccupò di esporre la salutazione né di soffermarsi nel trattato sui modi di salutare".torna su
4 "E per questo motivo alcuni dissero che la salutazione non faceva parte di una lettera, ma era un'intitolazione estranea alla questione. Mentre io dico che la salutazione è la porta di una lettera di cui rende espliciti ordinatamente nomi e titoli delle persone e la disposizione del mittente. Quindi è evidente che la salutazione è parte di una lettera tanto quanto l'occhio lo è di un corpo umano. E se l'occhio è un membro nobile del corpo umano, anche la salutazione è una parte nobile di una lettera, che dà luce a tutta la lettera come l'occhio dà luce all'uomo. Veramente la lettera che non ha una salutazione è come una casa priva di porta o di ingresso e come un corpo umano privo di occhi".torna su
5 "Dunque il buon dittatore deve far sì che, come ci si saluta incontrandosi, così ci si saluti per lettera mettendo e ornando le parole appropriate alla dignità del destinatario. Perché quando si va davanti al papa o all'imperatore o a qualche potente ecclesiastico o secolare, ci si presenta assai reverentemente con il capo chino, e talora ci si inginocchia a terra per baciare il piede del papa e dell'imperatore".torna su
6 La testa inchinata è evocata anche nella chiosa al cap. 32 «Dice Tullio della pronunziagione», dove a proposito dell'importanza capitale dell'actio («Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare parole et avere memoria chi non sae proffere e dicere le sue parole con avenimento» cap. 32 par. 1 ["In verità poco vale l'inventio, l'ordo e l'ornato retorico e la memoria a chi non sa poi pronunciare e esporre il suo discorso con accortezza"]), si suggerisce un atteggiamento che consuoni con le parole e muova gli affetti dell'uditore «Ma parlando in dolore sia la testa inchinata, il viso triste e li occhi pieni di lagrime e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo dell'uditore a piangere et a dolore» (cap. 32 par. 5, p. 79 ["Ma quando l'argomento è doloroso si tenga la testa piegata, il volto triste, gli occhi pieni di lacrime e ogni parola e atteggiamento sia doloroso, in modo che ogni singolo comportamento e ogni singola parola stimoli l'animo di chi ascolta a piangere e condolersi"]).torna su
7 "Due sono gli autori di questo libro: il primo è colui che dalle affermazioni dei filosofi che lo precedettero e dalla viva fonte del suo ingegno compose il libro di retorica, cioè Marco Tullio Cicerone, il più sapiente dei romani. Il secondo è Brunetto Latini, fiorentino, il quale pose ogni cura e intelligenza nell'esporre e chiarire ciò che Tullio aveva scritto; egli è colui che nel libro è chiamato sponitore commentatore, perché commenta e spiega il libro di Cicerone con affermazioni sue e di filosofi e autori antichi, soprattutto in quei punti dell'arte retorica che sono omessi nel libro di Cicerone, come chi ha buona capacità di capire capirà più avanti".torna su
8 Ha 23 paragrafi il cap. 17; 20 paragrafi il cap. 34; 18 paragrafi il cap. 1; 15 paragrafi il cap. 4; 12 i capp. 10-13 che vanno insieme; 10 paragrafi il cap. 102; 9 paragrafi i capitoli 20, 38, 95; 8 paragrafi i capitoli 2, 25, 40. Hanno un solo paragrafo venti capitoli (16, 48, 51, 61, 62, 63, 64, 66, 68, 69, 77, 80, 82, 84, 86, 89, 92, 93, 94, 96), due paragrafi ventisei capitoli (6, 15, 35, 39, 43-47 che vanno insieme, 52, 53, 54, 58, 65, 75, 79, 81, 83, 85, 87, 88, 90, 91, 99, 101, 103), tre paragrafi 16 capitoli (7-8, 24, 33, 36, 41, 49, 59, 60, 70, 71, 72, 74, 97, 98, 105), quattro paragrafi 11 capitoli (9, 14, 27, 28, 29, 30, 31, 37, 50, 56, 57), cinque paragrafi 6 capitoli (5, 18, 22, 26, 55, 73); sei paragrafi 5 capitoli (3, 19, 32, 42, 104); sette paragrafi 4 capitoli (21, 67, 78, 100).torna su
9 "E a questo proposito, prima che la trattazione proceda più oltre, piace al commentatore di pregare il Suo-Porto, per amore del quale, non senza grande fatica, è stato composto questo libro, che la sua capacità di intendere sia lucida, l'ingegno disposto a apprendere e la memoria capace di ricordare e capire i discorsi fatti sin qui e quelli che seguiteranno in modo che possa divenire, come desidera, un dittatore perfetto e un nobile oratore: questo libro è come una luce e una fontana dell'arte retorica. E sebbene il libro parli di cause giudiziarie e insegni a parlare su argomenti oggetto di lite e insegna la classificazione delle cause e delle questioni e negli esempi adotti i ruoli di accusato e accusatore, un ascoltatore rozzo potrebbe pensare che Cicerone tratti solamente delle cause giudiziarie. Ma il commentatore sa bene che il suo amico è tanto intelligente da capire la particolare caratteristica del libro, e che le liti sono appannaggio dei legisti e che la retorica insegna a parlare appropriatamente sull'argomento proposto, che non si limita a litigi e a discorsi solo tra accusato e accusatore, ma riguarda anche altri ambiti, come pronunciare discorsi nelle ambascerie, nei consigli di signori o di comuni e saper comporre una lettera secondo le regole dell'arte".torna su
10 "Un suo amico della sua città e della sua fazione, molto ricco, di buoni costumi e saggio, che molto l'onorò e l'aiutò, e per questo lo chiamava Suo-Porto, come è chiaro in molti punti del presente libro. Ed era naturalmente buon parlatore e molto desiderava conoscere quanto i filosofi avevano scritto sulla retorica. Per amore di lui Brunetto Latini, che era buon latinista e molto interessato alla retorica, iniziò questo lavoro in cui, per maggior chiarezza, traduce prima il testo di Cicerone, e poi inserisce commenti opportuni suoi o di altri".torna su
11 "Paragrafo in cui il commentatore si rivolge al Suo-Porto. Quindi il commentatore prega il Suo-Porto che, dal momento che ha intrapreso un'opera sì alta come questa, gli piaccia di applicarsi a quanto sopra, soprattutto ai generi dimostrativo, deliberativo e giudiziale che sono le basi dell'arte retorica, e parimenti a ciò che segue, in modo che egli capisca bene tutto il trattato tanto che, per il progresso e i bei discorsi che farà, secondo l'arte retorica, tanto il libro che il commentatore ricevano perpetua lode".torna su
12 "Se la bruttura della causa reca disonore, è opportuno sostituire colui che è all'origine del disonore con un altro uomo che sia invece stimato, oppure al posto della cosa disonorevole una cosa invece accettata, o l'uomo al posto della cosa o la cosa al posto dell'uomo, in modo che l'attenzione di chi ascolta si sposti da ciò che lo turba a ciò che gradisce, e far finta di non difendere ciò che ritengono tu voglia difendere così, dopo che chi ascolta starà meno in guardia, iniziare a piccoli passi la difesa dicendo che quelle cose che sono riprovevoli per gli avversari lo sono anche per te. E dopo che avrai addolcito chi ascolta, devi dimostrare che l'accusa non ti riguarda e affermare che tu non accuserai i tuoi avversari, entrambe queste cose in modo che tu non porti apertamente pregiudizio a coloro che sono amati ma, facendolo di nascosto alieni al massimo da loro la buona disposizione di chi ascolta; e devi presentare il parere di altri in questioni analoghe, o un'autorità che possa essere seguita, e in seguito dimostrare che nel caso presente il problema è simile, o maggiore o minore".torna su
13 "E quando l'accusa è turpe a motivo di cosa riprovevole, noi dobbiamo spostare il nostro discorso a qualcosa buona e gradita, così come fece Catilina per difendersi dall'accusa della congiura a Roma, il quale parlò di un comportamento onorevole per coprire quello colpevole dicendo: «Sempre ho difeso i più poveri nei tribunali»".torna su
14 "Oratore è chi, dopo aver bene imparato l'arte retorica, l'impiega in discorsi e documenti che trattano problemi specifici, come fanno i buoni oratori e dittatori, proprio come fu magister Piero dalle Vigne che per questo divenne ministro di Federico II imperatore di Roma e interamente padrone di lui e dell'impero".torna su
15 "La preghiera nascosta è così: «Io confesso di aver commesso questo e non ne chiedo perdono, ma se voi ricordaste quanto beneficio e quale grande onore io ho recato al comune, sarebbe giusto che mi fosse perdonato»".torna su
16 "Preghiera è quando l'accusato confessa di aver commesso il tal peccato e confessa di averlo fatto coscientemente, ma domanda che gli sia perdonato, la qual cosa può succedere rarissimamente".torna su
17 "Ma Cicerone dice che queste preghiere hanno luogo raramente, soprattutto davanti ai giudici che sono tenuti per giuramento a applicare la legge e non hanno potere di perdonare. Talvolta, in verità, l'imperatore e il senato possono disporre del perdono per gravi reati, così come era in potere degli anziani del popolo di Firenze, i quali avevano potere di condannare e di assolvere secondo il loro parere".torna su
18 "La Filosofia è quella scienza sovrana che comprende sotto di sé tutte le altre, per cui nessuno può essere filosofo se non ama la sapienza a tal punto da mettere da parte tutte le altre scienze e si dedichi interamente a conseguire una sapienza perfetta".torna su
19 Sulla tematica del cominciamento in Dante cfr. G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d'Amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze, Olschki, 1981.torna su
20 "Quando l'argomento di cui bisogna trattare è onesto, certo per la natura stessa della cosa noi abbiamo la buona disposizione dell'uditorio, senza bisogno di parole ornate. Perciò, quando noi dobbiamo iniziare il discorso, possiamo certo omettere la parte che si chiama principio, senza fare né esordio né prologo, e cominciare la nostra esposizione dalla narratio, cioè raccontando solamente il fatto".torna su
21 Per la bibliografia sul canto il rimando è a D. Alagherii, Comedia. Appendice bibliografica 1988-2000, per cura di F. Sanguineti, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005, pp. 98-104.torna su
22 "Si chiama causa mirabile quella che è tale da non piacere a chi ascolta, perché tratta di fatto turpe o crudele. Per questo l'animo dell'uditore ci è ostile e non simpatizza con noi, e perciò è necessario procurarcene la benevolenza in modo che chi ascolta capisca, come potrebbe avvenire nel processo contro chi ha ucciso il padre, o commesso furto o incendio. Dunque si può capire che una stessa causa può essere onesta e mirabile: onesta dal punto di vista di chi difende suo padre, mirabile dall'altro punto di vista, perché lo stesso è avverso alla sua stessa madre. E da questo unico esempio si possono capire tutti quelli simili".torna su
23 Nel penultimo capitolo, dove si tratta della insinuatio, Cicerone torna a specificare le tre possibili ragioni che rendono una causa mirabile: «Insinuatio è da usare quando la qualitade della causa è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando l'animo dell'uditore è contrario a noi; e questo adiviene maximamente per tre cagioni: o che nella causa è alcuna laidezza, o coloro c'ànno detto davanti pare c'abbiano alcuna cosa fatta credere all'uditore, o se in quel tempo si dà luogo alle parole, perciò che quelli cui conviene udire sono già udendo fatigati; acciò che di questa una cosa, non meno che per le due primiere, sovente s'offende l'animo dell'uditore» (cap. 104, p. 193 ["L'insinuatio va usata quando la tipologia della causa è quella chiamata mirabile, cioè, come è stato detto prima, quando l'animo di chi ascolta ci è ostile; e ciò capita soprattutto per tre motivi: o perché nella causa c'è una qualche repellenza, o perché sembra che gli avversari che hanno già parlato abbiano già convinto l'uditorio, o perché si è già molto parlato e coloro che debbono ascoltare si sono già stancati, e anche per questo solo motivo, non meno che per gli altri due, spesso si danneggia la buona disposizione di chi ascolta."]).torna su
24 "Più addietro si dice che è chiamata causa mirabile quella che riguarda operazioni colpevoli, che non piacciono con ogni evidenza a chi ascolta. Perciò Cicerone dice che quando la nostra causa è mirabile potrebbe anche darsi che chi ascolta non ci sia del tutto ostile, e allora si può acquistare la sua buona disposizione con quel tipo di esordio che si chiama principio, cioè pronunciando un piccolo prologo con parole chiare e poche".torna su
25 Nei versi conclusivi posti in bocca al personaggio Dante, con il disprezzo per la forza di Fortuna (Inf. xv 95-96), sarà forse da ritrovare la risposta lontana e ideologicamente ostile alla formula impiegata da Brunetto nella sua domanda.torna su
26 "Si possono mettere in cattiva luce i nostri avversari per chi ascolta se diciamo che hanno commesso dei reati disumani, contro l'ordine di natura, come mangiare carne umana, e altre cose simili delle quali il commentatore qui non parla".torna su





<< indietro

Home