Mirko Tavoni
Lettura e interpretazione di Purgatorio xv*
Dividerò la mia lettura in due parti. Nella prima parte darò una parafrasi continuata del canto, nella forma di una versione in italiano moderno, se necessario corredata, tra parentesi, dalle informazioni necessarie a motivare l'interpretazione letterale prescelta. Nella seconda parte mi concentrerò su un tema saliente del canto, cioè la «visione estatica» (vv. 85-86), ovvero la triplice visione di episodi di mansuetudine, che Dante pellegrino sperimenta, ai versi 85-114, camminando in trance lungo la terza cornice: «visione estatica» sulla cui natura l'autore ci dà informazioni rivelatrici attraverso lo scambio di battute fra il pellegrino e Virgilio ai versi 115-38.
Tali informazioni sono rivelatrici non solo su che cosa è il fenomeno della «visione estatica» nella cultura di Dante, ma anche sul ruolo che egli assegna a questo fenomento cognitivo nella costruzione del poema. Per argomentare qual è, a mio giudizio, questo ruolo sarà quindi necessario fare riferimento, per cenni essenziali, a come la dimensione onirico-visionaria si declina variamente nel Purgatorio e nelle altre cantiche, evocando sullo sfondo le altre due opere di riferimento per questa tematica, la Vita nova e il Convivio.
1. Prima parte: interpretazione letterale del canto
"Quanto si mostra allo sguardo, tra le sei e le nove di mattina, di quella sfera celeste che non sta mai ferma, come un bambino, tanto si vedeva ormai, sul far della sera, che era rimasto al sole del suo corso; là erano le tre del pomeriggio, qui mezzanotte" (vv. 1-6: la spera non è 'il disco del sole', ma la sfera celeste del sole, cioè il quarto cielo, che ruota attorno alla terra. Tre ore di rotazione del sole corrispondono a 45°: quindi ai 45° percorsi fra le 6 e le 9 di mattina corrispondono 45° che restano da percorrere prima del tramonto. Là è nel Purgatorio, qui è in Italia, dove Dante sta scrivendo il canto).
"E i raggi ci colpivano in piena fronte, perché avevamo girato tanto attorno al monte che puntavamo ormai dritti verso occidente, quando mi sentii colpire in fronte da una luminosità molto più intensa di prima, e mi stupivo circa le cause, che ignoravo, di ciò; per cui levai le mani in alto sopra gli occhi e mi schermii la vista, per smorzare l'eccesso di luce" (vv. 7-15).
"Come quando, da una superficie d'acqua o da uno specchio, un raggio rimbalza su dalla parte opposta risalendo secondo un angolo uguale a quello incidente, e su una pari distanza s'allontana altrettanto dalla perpendicolare, come dimostrano l'esperienza e lo studio; così a me parve di essere investito frontalmente da una luce riflessa; per cui la mia vista istantaneamente si ritrasse" (vv. 16-24: qui luce rifratta significa 'riflessa': è la luce di Dio, più forte di quella del sole, che viene riflessa agli occhi di Dante dall'angelo che compare qui davanti a lui).
"'Cos'è questo, dolce padre, da cui non riesco a ripararmi la vista in modo sufficiente', dissi, 'e che sembra avanzare verso di noi?'. 'Non meravigliarti se ancora t'abbaglia la corte celeste', mi rispose: 'è un angelo che viene per invitarci a salire. Verrà presto il momento in cui guardare queste cose non ti peserà, ma ti piacerà tanto quanto la natura t'ha reso capace di sentire'" (vv. 25-33).
"Quando fummo giunti all'angelo benedetto, egli ci disse con voce lieta: 'Entrate per di qua in una scala, che sarà sempre meno ripida delle precedenti'. Partiti di lì, già iniziavamo la salita, e 'Beati i misericordiosi' sentimmo cantare da dietro le spalle, e 'Godi tu che vinci!'" (vv. 34-38: riferimento alla quinta beatitudine enunciata nel discorso della montagna, Mt 5 7: la misericordia è la virtù opposta all'ira che si purga in questo girone).
"Il mio maestro e io, soli, andavamo entrambi in su; e io pensai, salendo, di avvantaggiarmi delle sue parole; e m'indirizzai a lui interrogandolo così: 'Cosa intese dire lo spirito romagnolo con le parole vietato e consorte?'" (vv. 40-45; il romagnolo Guido del Duca, incontrato nel canto precedente, si era chiesto: «o gente umana, perché poni 'l core / là 'v'è mestier di consorte divieto?» (xiv 86-87), cioè 'perché desideri il possesso di beni materiali, che non può essere condiviso con altri?').
"Allora lui: 'Egli conosce le dannose conseguenze del suo più grave peccato; non stupirti dunque se ci rimprovera, affinché si debba piangere meno. L'invidia gonfia i polmoni ai sospiri perché i vostri desideri s'appuntano su beni in cui, condividendoli, la parte diminuisce'" (vv. 46-51: Guido del Duca si purgava del peccato dell'invidia).
"'Ma se l'amore della sfera suprema rivolgesse il vostro desiderio verso l'alto, questa paura non ci sarebbe nei vostri cuori; perché lassù, quanti più sono a dire nostro, tanto più di bene ciascuno possiede, e più di carità arde in quella comunità sacra'" (vv. 52-57: la spera supprema è l'Empireo, l'ultima delle sfere celesti, decima dopo il Primo mobile: cfr. la spera del sole al v. 2).
"'Io sono più lontano dall'essere appagato', dissi, 'che se prima fossi stato zitto, e sono immerso nel dubbio più di prima. Com'è possibile che un bene, distribuito tra più possessori, renda più ricchi di sé che se è posseduto da pochi?'" (vv. 58-63).
"E lui a me: 'Poiché continui a tener fissa la mente alle cose terrene, davanti alla vera luce non sai cogliere che tenebre. Quel bene infinito e ineffabile che è lassù trascorre in chi lo ama così come un raggio penetra un corpo traslucido. Si effonde in proporzione all'ardore che trova; sicché, per quanto spazio s'estende la carità, in tanto cresce su di lei il valore eterno. E più gente lassù mutuamente si conosce, più c'è da amare di vero amore, e più ci si ama; e si riverbera amore l'uno nell'altro come specchi. E se il mio ragionamento non ti sazia, vedrai Beatrice, e lei ti appagherà pienamente questo e ogni altro desiderio'" (vv. 64-78: il Bene supremo, Dio, non si divide ma si moltiplica fra quanti lo desiderano).
"'Fa' sì che siano presto cancellate, come già le prime due, le altre cinque piaghe, che si cicatrizzano con la penitenza'" (vv. 79-81: le sette P, una per ogni peccato capitale, che l'angelo aveva inciso sulla fronte di Dante nel ix canto e che si cancellano salendo di girone in girone).
"Quando stavo per dire 'Mi hai accontentato', mi vidi giunto sul girone successivo, così che gli occhi desiderosi di vedere mi ridussero al silenzio" (vv. 82-84: il terzo girone, dove si purgano gli iracondi).
"Lì infatti, all'improvviso, mi parve d'essere attratto in una visione estatica, e di vedere più persone in un tempio; e una donna sulla soglia, in atteggiamento dolce di madre, dire: 'Figlio mio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo preoccupati'. E appena, così detto, tacque, ciò che prima si vedeva scomparve" (vv. 85-93: prima delle tre visioni di mansuetudine: Maria rimprovera dolcemente Gesù dodicenne che, persi i genitori, si è intrattenuto tre giorni nel Tempio a discutere coi dottori della religione, come narra Lc 2 48).
"M'apparve quindi un'altra donna, le guance rigate da quelle lacrime che distilla il dolore quando nasce da grande sdegno contro qualcuno, che diceva: 'Se sei davvero il signore della città sul cui nome ci fu tra gli dèi tanta lite, e dalla quale irraggiano le faville di ogni scienza, véndicati di quelle braccia temerarie che hanno osato stringere nostra figlia, Pisistrato'. E m'appariva quel signore, benevolo e mite, che le rispondeva, con espressione calma: 'Che faremo noi a chi ci vuol male, se condanniamo quelli che ci amano?'" (vv. 94-105: seconda visione di mansuetudine: Pisistrato, tiranno di Atene (città sul nome della quale vi fu contesa fra Posidone e Atena, e dalla quale s'irradia ogni sapere) non condanna il giovane che aveva baciato in pubblico sua figlia; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, v 1 ext. 2).
"Poi vidi genti infiammate d'ira uccidere a sassate un giovinetto, gridandosi a gran voce l'un l'altro: 'Ammazza, ammazza!'. E vedevo lui ripiegarsi, per la morte che già incombeva, verso terra, ma gli occhi li teneva sempre aperti al cielo, pregando l'alto Signore, in così grande tormento, che perdonasse ai suoi persecutori, con quell'aspetto che scioglie la pietà dal cuore" (vv. 106-14: terza visione di mansuetudine: santo Stefano perdona coloro che lo stanno lapidando, At 6 15).
"Quando la mia anima si riaprì all'esterno, alla realtà vera fuori di sé, riconobbi il mio errore pur veritiero" (vv. 115-17).
"La mia guida, che poteva vedermi muovere come uno che riemerge dal sonno, disse: 'Che hai, che non ti reggi in piedi, ma hai camminato per più di un miglio con gli occhi velati e le gambe legate come chi sia fiaccato dal vino o dal sonno?'. 'O dolce padre mio, se m'ascolti ti dirò', risposi, 'ciò che mi apparve quando mi fu così impacciato l'uso delle gambe'" (vv. 118-26).
"E lui: 'Se anche tu avessi cento maschere sulla faccia, non mi resterebbero nascosti i tuoi pensieri, per quanto piccoli. Ciò che hai visto ha per scopo che non ti rifiuti di aprire il cuore alle acque della pace che sono diffuse dal fonte eterno. Non ti ho chiesto Che hai? come lo chiede chi, guardando solo con l'occhio esteriore, ha visto cadere la persona priva di sensi; ma l'ho chiesto per darti forza alle gambe: così bisogna spronare i pigri, che tardano a usare il loro stato di veglia, quando è tornato'" (vv. 127-38: Virgilio legge nella mente di Dante, quindi lo scopo della sua domanda non era di conoscere i suoi pensieri, ma di spronarlo a riprendersi).
"Camminavamo nell'ora del vespro, intenti ad allungare lo sguardo quanto più possibile incontro ai raggi tardivi e lucenti. Ed ecco avanzare a poco a poco verso di noi un fumo scuro come la notte; e non c'era modo di scansarsene. Questo ci tolse la vista e l'aria limpida" (vv. 139-45).
2. Seconda parte: la «visione estatica» nel Purgatorio e nella costruzione del poema
Per capire a fondo qual è la natura e il significato della triplice «visione estatica» descritta ai vv. 85-114, assumiamola come punto di partenza per una ricognizione degli analoghi fenomeni onirico-visionari distribuiti − ad arte − nel poema, a cominciare dai più vicini.
E il più vicino è certamente la «visione estatica», ugualmente triplice, degli episodi di ira punita, che Dante sperimenta camminando in trance sulla quarta cornice del Purgatorio nel canto xvii: Progne infanticida mutata in usignolo (vv. 19-24), il persiano Aman crocifisso (vv. 25-30), la regina Amata suicida per la perdita della figlia Lavinia (vv. 31-39):
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De l'empiezza di lei che mutò forma
ne l'uccel ch'a cantar più si diletta,
ne l'imagine mia apparve l'orma;
e qui fu la mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a l'alta fantasia
un crucifisso dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si morìa;
intorno ad esso era il grande Assuero,
Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d'una bulla
cui manca l'acqua sotto qual si feo,
surse in mia visione una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t'hai per non perder Lavina;
or m'hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina»
(vv. 19-39). |
Il voluto parallelismo fra le due terne di esempi è evidente, a partire dal parallelismo dei temi − la mansuetudine è la virtù opposta al peccato dell'ira − e dall'identità del modo di percezione dei 3 + 3 esempi nella mente del pellegrino e del corrispondente modo della loro rappresentazione poetica: in entrambi i casi, appunto, la «visione estatica».
Il passo successivo è notare l'ulteriore parallelismo fra le due terne di visione estatica, mansuetudine e ira, con le due serie di esempi incisi nei bassorilievi dei canti precedenti.
E cioè i tre esempi di umiltà, incisi nei bassorilievi scolpiti sulla parete della prima cornice, nel canto x (sono gli esempi di «visibile parlare», secondo la famosa definizione del v. 95): l'Annunciazione, con Maria che risponde all'angelo «Ecco l'ancella di Dio» (vv. 34-45); l'Arca dell'Alleanza trasportata al Tempo di Gerusalemme, col re Davide che si sminuisce a ballare davanti ad essa (vv. 55-69); l'imperatore Traiano che si ferma a parlare con una povera vecchia che gli chiede di vendicare la morte di suo figlio in battaglia (vv. 73-96).
E i molti esempi di superbia punita, incisi nei bassorilievi scolpiti sul pavimento della prima cornice, nel canto xii: l'angelo Lucifero caduto dal cielo (vv. 25-27); il gigante Briareo colpito da Giove e altri giganti nella battaglia dei Campi Flegrei (vv. 28-33); Nimrod che costruisce la Torre di Babele (vv. 34-36); Niobe di Tebe (vv. 37-39); il re Saul suicida (vv. 40-42); Aracne trasformata in ragno (vv. 43-45); il re Roboamo fuggitivo (vv. 46-48); Erifile uccisa dal figlio (vv. 49-51); il re assiro Sennacherib ucciso dai figli (vv. 52-54); il re persiano Ciro ucciso (vv. 55-57); il re assiro Oloferne ucciso (vv. 58-60); Troia distrutta (vv. 61-63).
Parallelismo a quattro che si lascia sintetizzare in questa tabella:
Canto x, prima
cornice
Bassorilievi
esempi di umiltà
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Canto xv, terza
cornice
visioni estatiche
esempi di mansuetudine
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Canto xii, prima
cornice
Bassorilievi
esempi di superbia punita
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Canto xvii, quarta
cornice
visioni estatiche
esempi di ira punita
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È superfluo sottolineare che l'umiltà sta alla superbia punita come la mansuetudine sta all'ira punita. Tutto è costruito per dare al lettore il messaggio che le visioni estatiche sono il perfetto equivalente dei bassorilievi: Dio è l'autore dei bassorilievi, incisi per sempre nel marmo, ed è l'autore delle immagini effimere proiettate nella mente del pellegrino, al quale ha conferito la missione di vedere e riferire gli uni e le altre.
Ma da dove provengono le visioni estatiche? Dante ha cura di spiegarcelo, al momento di introdurre quelle del canto xvii:
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O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se 'l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s'informa,
per sé o per voler che giù lo scorge
(vv. 13-18). |
Cioè: "O facoltà immaginativa, che ci rapisci a volte fuori dalla realtà, al punto che non ci accorgiamo nemmeno se intorno ci risuonano mille trombe, chi ti muove, se non è il senso che ti dà materia? Ti muove una luce che prende forma nel cielo o per sé stessa, o per una volontà che la dirige giù verso di noi".
La spiegazione appare ancora più chiara se la vediamo alla luce della formulazione, concettualmente identica ma più dettagliata, che ne aveva dato nel secondo libro del Convivio. Là, a sostegno dell'immortalità dell'anima, aveva addotto questo argomento:
Ancora: vedemo continua esperienza della nostra immortalitade nelle divinazioni de' nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che immortale convegna essere lo rivelante, [o corporeo] o incorporeo che sia, se bene si pensa sottilmente − e dico [o] corporeo o incorporeo, per le diverse oppinioni ch'io truovo di ciò −, e quello ch'è mosso o vero informato da informatore immediato debba proporzione avere allo informatore, e dallo mortale allo immortale nulla sia proporzione (Conv. ii 8 13).
Cioè: "Ancora: sperimentiamo continuamente la nostra immortalità nei sogni che predicono il futuro, i quali non potrebbero darsi se in noi non ci fosse una parte immortale. Infatti la fonte di tali rivelazioni (lo rivelante), sia essa una fonte materiale (corporeo) o immateriale (incorporeo) − e dico materiale o immateriale perché su questo trovo opinioni diverse −, deve necessariamente essere immortale, se si ragiona correttamente secondo logica (bene sottilmente); e l'essere che riceve tali rivelazioni da quella fonte, la quale gli trasmette la propria forma senza mediazioni (quello ch'è mosso o vero informato da informatore immediato), deve essere di natura simile ad essa (debba proporzione avere a lo informatore); e fra ciò che è mortale e ciò che è immortale non c'è alcuna somiglianza (nulla sia proporzione)".
Dunque Dante dice che la conoscenza del futuro può venire solo da una realtà immortale, in quanto tale capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente. Le «diverse opinioni», a cui allude Dante, circa la causa corporea o incorporea dei sogni divinatòrî, si trovano nel De somno et vigilia di Alberto Magno,1 «dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze e anima umana ("revelante [...] incorporeo"), e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti ("revelante [...] corporeo") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione» (Fioravanti, 2014, pp. 283-5, nel suo commento al Convivio, ad locum). Mentre l'improporzionalità tra mortale e immortale, finito e infinito, se non è in Aristotele è nei commentatori medievali a Metaph. iii 4, 1000a 5 sgg.
Questa più ampia formulazione ci fa capire meglio cosa significano i versi 17-18, «Moveti lume che nel ciel s'informa, / per sé o per voler che giù lo scorge». Significano che la luce che illumina la visione interiore, non proveniente dal senso della vista, prende forma nel cielo, e può avvenire in due modi: o per sé stessa, cioè per azione diretta di un corpo celeste ("revelante [...] corporeo"), o per una volontà che la dirige giù verso di noi ("revelante [...] incorporeo"): in entrambi i casi proviene, direttamente o indirettamente, da Dio, e ha valore profetico.
Dunque la visione interiore, mossa da «lume che nel ciel s'informa», è fondamentalmente uno stesso fenomeno sia che avvenga in sogno, in un soggetto dormiente (come nelle «divinazioni de' nostri sogni» del Convivio), sia che avvenga in un soggetto vigile, come è Dante pellegrino camminante sulla terza e la quarta cornice (al quale appunto è riferita la spiegazione «O imaginativa che ne rube [...]»): cioè un soggetto che non si trova in uno stato di sonno precedente alla visione, ma in uno stato di coscienza particolare indotto dalla visione stessa, che, imponendosi, chiude i canali sensoriali col mondo esterno.
Dunque, ai fini della nostra ricognizione testuale, siamo autorizzati a considerare insieme, come varianti dello stesso fenomeno, cioè la visione interiore, le nostre visioni estatiche e i tre sogni del Purgatorio, che Dante ha in ognuna delle tre notti che dorme in Purgatorio, e sempre prima dell'alba, ora topica dei sogni veritieri: il sogno dell'aquila (canto ix), il sogno della femmina balba (canto xix) e il sogno di Lia (canto xxvii).
L'affinità fra sogno e visione è confermata anche dalla raffigurazione del personaggio Dante nelle due posture, del sognatore e del veggente, quale ci offrono le miniature di un manoscritto importantissimo per vicinanza cronologica a Dante e per l'altissima qualità, teologicamente avvertita, del suo programma iconografico: il manoscritto Egerton 943 della British Library, l'unico manoscritto corredato da un apparato completo di illustrazione delle tre cantiche. Manoscritto di matrice domenicana, prodotto a Bologna o a Padova negli anni 1330-1340, miniatore il Maestro degli Antifonari di Padova.2
Nei tre sogni Dante è rappresentato nell'identica postura seduta del dormiente: nel sogno dell'aquila (Fig. 1), nel sogno della femmina balba (Fig. 2) e nel sogno di Lia (Fig. 3). E nelle tre visioni estatiche nel nostro canto xv è rappresentato camminante, ma con gli occhi chiusi: nella visione di Gesù smarrito nel Tempio (Fig. 4), nella visione di Pisistrato e la moglie (Fig. 5) e nella visione di Santo Stefano lapidato (Fig. 6).3
Ma nella terza visione di ira punita, nel canto xvii, quella del suicidio della regina Amata, Dante è rappresentato (accanto a lui Lavinia accorata per la morte della madre) nella postura del dormiente (Fig. 7). Anna Pegoretti (2015, p. 78) commenta che la visione «è erroneamente interpretata come una visio in somnio, con il risultato che Dante è nella posizione del dormiente». Ma io, più che di errore, parlerei di contiguità-equivalenza, percepita dal miniatore, fra l'una e l'altra postura.
Continuità-equivalenza condivisa da Benvenuto da Imola, che al verso 84, «sì che tacer mi fer le luci vaghe», subito prima di «Ivi mi parve in una visione / estatica di sùbito esser tratto» (vv. 85-86), commenta: «sì che le luci vaghe, idest, oculi avidi videndi novitates, mi fer tacere; et continuo clausi oculos et obdormivi» (corsivo mio).4 E, soprattutto, continuità-equivalenza fortemente suggerita dai versi con i quali Dante, nel xxix canto, per designare il libro dell'Apocalisse, ultimo nella sequenza dei libri del Nuovo Testamento che sfilano nella processione dell'Eden, fotografa così il suo autore Giovanni:
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Poi vidi [...]
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta
(vv. 142-144). |
Versi così commentati da Chiavacci Leonardi (ad locum):
l'Apocalisse, ultimo libro, e il solo profetico, del Nuovo Testamento, ha [...] le sembianze del suo autore, l'apostolo Giovanni, che morì in tardissima età nell'isola di Patmos. Questo vecchio solitario, che avanza come in sogno (il dormendo indica il carattere visionario del libro), e pur con il volto penetrante di chi vede lontano, è la figurazione più forte di tutto il corteo.
Siamo nei canti dell'Eden, non a caso definiti "l'Apocalisse di Dante",5 dove Dante osa spingere la propria identificazione profetica con Giovanni, e con ciò la propria auto-certificazione di autenticità visionaria, al punto che, per dire che si accorda con la visione di Giovanni e non con quella di Ezechiele nell'assegnare ai quattro animali simboleggianti i Vangeli sei ali e non quattro, dichiara «Giovanni è meco e da lui si diparte» (xxix 105). Cioè, non dice che lui Dante accorda la sua preferenza all'una piuttosto che all'altra delle due fonti testuali che ha presenti, ma che lui Dante conferma autopticamente che la visione giusta è quella di Giovanni e non quella di Ezechiele: può dirlo perché i quattro animali ce li ha avuti davanti agli occhi. E non è lui che si accorda con Giovanni, è Giovanni che è d'accordo con lui!
È questa un'altra conferma di quale valore − e cioè un valore assoluto − Dante assegnasse all'intero dispiegarsi dei propri sogni e delle proprie visioni purgatoriali, presentate nella loro sostanziale equivalenza-identità, come dice la scelta del gerundio dormendo a caratterizzare la visione pur vigile dell'Apocalisse. Scelta lessicale che il ms. Egerton visualizza rappresentando Giovanni nella postura del dormiente (Fig. 8), esattamente come rappresenta Dante nella visione di Lavinia (Fig. 7). Direi che il miniatore, se non avesse collocato Giovanni sul carro stesso, invece che in processione dietro ad esso, e non l'avesse con ciò esentato dal camminare, lo avrebbe rappresentato camminante con gli occhi chiusi, esattamente come rappresenta il Dante delle altre visioni (Figg. 1, 2, 3). Avendolo invece collocato sul carro, gli è venuto naturale rappresentarlo nella postura seduta del dormiente.
Il confronto con la processione dei canti dell'Eden (xxix-xxxiii) ci dice anche un'altra cosa. È indubbio, infatti, che i canti mettono in scena una serie di visioni che si confrontano con analoghe visioni veterotestamentarie, fra cui quella di Ezechiele, e con quella neotestamentaria di Giovanni. Dante stesso esplicita questo confronto nel verso appena citato «Giovanni è meco e da lui si diparte» (xxix 105), il quale ci dice anche come dobbiamo intendere questo confronto: cioè non come un confronto intertestuale in cui ogni autore varia liberamente, in un'ottica di mera composizione letteraria, quanto lasciato scritto dagli autori precedenti, ma come un confronto tra autentiche visioni che ognuno degli autori profetici, compreso Dante, ha avuto. La stragrande maggioranza dei dantisti intende invece questo confronto come un confronto puramente intertestuale, ma questo approccio, che semplicemente rimuove dal testo la dimensione visionaria, è contraddetto in tutti i modi possibili dal testo di Dante.
Bene, ma le visioni di Ezechiele e di Giovanni sono presentate dai loro autori appunto come visioni, visioni interiori, introdotte, in un preciso momento della loro vita, da un violento squarcio psichico. Così Ezechiele, all'inizio del suo libro. E proprio lì, subito dopo aver dichiarato questo violento squarcio psichico, Ezechiele vede i quattro animali simili a uomini con quattro ali ciascuno:
1Et factum est in tricesimo anno in quarto in quinta mensis cum essem in medio captivorum iuxta flumen Chobar aperti sunt caeli et vidi visiones Dei 2in quinta mensis ipse est annus quintus transmigrationis regis Ioachin 3factum est verbum Domini ad Hiezechiel filium Buzi sacerdotem in terra Chaldeorum secus flumen Chobar et facta est super eum ibi manus homini 4et vidi et ecce ventus turbinis veniebat ab aquilone et nubes magna et ignis involvens et splendor in circuitu eius et de medio eius quasi species electri id est de medio ignis 5et ex medio eorum similitudo quattuor animalium et hic aspectus eorum similitudo hominis in eis 6et quattuor facies uni et quattuor pinnae uni (Ez 1 1-6, corsivi miei).
Così Giovanni nell'Apocalisse:
ego Iohannes frater vester et particeps in tribulatione et regno et patientia in Iesu fui in insula quae appellatur Patmos propter verbum Dei et testimonium Iesu fui in spiritu in dominica die et audivi post me vocem magnam tamquam tubae dicentis quod vides scrive in libro et mitte septem ecclesiis [...] et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum et conversus vidi septem candelabra aurea et in medio septem candelabrorum similem Filio hominis vestitum podere et praecinctum ad mamillas zonam auream (Ap 1 9-12, ecc.; corsivi miei).
e così avanti a forza di vidi fino a: «et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia plena oculis ante et retro [...] et quatuor animalia singula eorum habebant alas senas» (Ap 4 6-8).6
La processione dell'Eden, invece, si svolge davanti agli occhi di Dante. Non è una «visione estatica», come quella che ha nel nostro canto camminando lungo la terza cornice, e nel xvii canto camminando lungo la quarta cornice, in entrambi i casi assumendo precisamente la postura che attribuisce a Giovanni apocalittico che viene «dormendo con la faccia arguta» (xxix 144). Né è una visio in somniis come quelle dei canti ix, xix e xxvii. Ciò implica necessariamente che Dante ci sta presentando il suo intero viaggio nell'aldilà come una visione: all'interno della quale, dunque, sogni e visioni del Purgatorio sono visioni entro una visione, visioni di secondo grado.
Ora, che tutti gli organizzatissimi contenuti dei 100 canti possano essere contenuti in una visione è ovviamente del tutto implausibile, e questo è un fatto così autoevidente che non dovrebbe esserci bisogno di ripeterlo. Ma che, nonostante questo, Dante ci presenti il suo viaggio nell'aldilà come una visione, anche questo è un fatto, e per assumere che questo secondo fatto non conta niente, che possiamo tranquillamente fare come se non esistesse, bisogna che, come interpreti desiderosi di capire, ci accontentiamo molto, moltissimo. Anche perché, a presentarci l'intero viaggio nell'aldilà come avvenuto entro una visione non stanno solo le numerose dichiarazioni dell'autore, letteralmente inequivocabili e anche rilasciate sotto giuramento; ci stanno anche indizi testuali meno vistosi ma cogenti.
Uno è questo che abbiamo appena visto, cioè il parallelismo fra l'Apocalisse di Giovanni e "l'Apocalisse" di Dante. Un secondo è nel verso «ma perché fugge 'l tempo che t'assonna» (Par. xxxii 139), con cui San Bernardo dice a Dante − letteralmente − che devono sbrigarsi se vogliono fare in tempo a vedere Dio, perché il tempo della visio in somniis a lui concesso sta per scadere; e con ciò chiude, a grandissima distanza, l'arco − a quel punto non più percepibile dal comune lettore − che aveva aperto dicendo «tant'era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai» (Inf. I 11-12). Incipit che il nostro miniatore, il Maestro degli Antifonari di Padova, visualizza in massima evidenza, come "soglia iconica" d'apertura dell'intero poema, come vediamo nella figura 9 (Fig. 9): Dante che dorme e in sogno entra nella selva oscura − immagine a sua volta mutuata dalla miniatura di apertura del Roman de la Rose (Fig. 10) − poema fluviale che mette in scena una visione in sogno profana, allegorica e vistosamente fittizia7 (mentre è del tutto escluso che possa essere disinvoltamente fittizia, per la sua sacralità e il suo profetismo, la visione in sogno della Commedia).
Ma l'indizio testuale più criptico e più probante sta nella telepatia di Virgilio, di cui il nostro canto presenta, ai versi 118-38, un esempio.
Nel momento in cui Dante riemerge dal suo stato di trance («Quando l'anima mia tornò di fori / a le cose che son fuor di lei vere», vv. 115-16), Virgilio lo sprona a riaversi completamente chiedendogli
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[...] «Che hai che non ti puoi tenere [sostenere],
ma se' venuto più che mezza lega
velando gli occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?»
(vv. 118-23).
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Dante fraintende la domanda «Che hai?» come se fosse una vera richiesta d'informazione, e si appresta a raccontare al maestro le visioni che ha avuto (vv. 124-26), ma Virgilio gli ribadisce chiarissimamente che non ce n'è bisogno, perché lui vede i suoi pensieri:
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[...] Se tu avessi cento larve [maschere]
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve
(vv. 127-29). |
E gli spiega il significato e lo scopo di ciò che ha visto, che è di indurlo a disporre l'animo a sentimenti di pace:
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Ciò che vedesti fu perché non scuse
d'aprir lo core a l'acque de la pace
che da l'etterno fonte son diffuse
(vv. 130-32). |
La domanda «Che hai?» non era fatta per sapere, ma per spronare Dante a riscuotersi dal torpore (vv. 133-38).
La stessa identica domanda «Che hai?» Virgilio la rivolge di nuovo a Dante − ripresa certamente significativa − nel momento in cui si rinviene dal secondo sogno, il sogno della femmina balba: «"Che hai che pur inver' la terra guati?", / la guida mia incominciò a dirmi» (xix 52-53). E a Dante che inizia a raccontare il sogno che ha avuto («E io: "Con tanta sospeccion fa irmi / novella visïon ch'a sé mi piega, / sì ch'io non posso dal pensar partirmi"», xix 55-57), Virgilio anche qui spiega il significato nascosto di tale sogno, mostrando di conoscerlo già («"Vedesti", disse, "quell'antica strega / che sola sovr'a noi omai si piagne; / vedesti come l'uom da lei si slega"», xix 58-60); e anche qui conclude esortandolo a scrollarsi di dosso quel pensiero e a puntare deciso verso la meta celeste del loro cammino.
Nel xv e nel xix canto, quindi, la telepatia di Virgilio si attiva inequivocabilmente in rapporto a una visione o a un sogno di Dante − confermando ancora una volta che visione e sogno sono due varianti dello stesso fenomeno, e giocano nel testo la stessa funzione narrativa.
Che si dia telepatia anche nel caso del primo sogno purgatoriale non è detto esplicitamente, ma si può inferire. In occasione di quel sogno, infatti, il sogno dell'aquila da cui Dante si sente trasportato in alto, mentre "in realtà" è Lucia che lo ha trasportato in sonno dall'Antipurgatorio alla porta del Purgatorio, Virgilio non dice di conoscere il contenuto del sogno, ma solo la paura che ne è derivata a Dante («"Non aver tema", disse il mio segnore», ecc., ix 46-48), paura che a rigore potrebbe anche aver inferito da segnali esteriori («e diventa' ismorto, / come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia», xix 41-42), e si limita a rivelare a Dante l'intervento di Lucia. Ma anche qui lo rassicura per il turbamento che il sogno gli ha procurato, lasciando intendere che sa di cosa si tratta.
E a Dante che si risveglia dal terzo sogno, quello di Lia e Rachele, Virgilio dice:
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«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de' mortali,
oggi porrà in pace le tue fami»
(Purg. xxvii 115-17),
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dove il «dolce pome» è «metafora della felicità terrena, che oggi Dante potrà raggiungere, entrando nel Paradiso terrestre» (Chiavacci Leonardi, ad locum). Questa battuta di Virgilio, detta a Dante immediatamente al suo risveglio, è obiettivamente una spiegazione di cosa significhi il sogno di Lia e Rachele, simboli della vita attiva e della vita contemplativa, le quali «rappresentano insieme la "beatitudinem [...] huius vite", che si raggiunge "secundum virtutes morales et intellectuales operando", e cioè quella pienezza umana che è raffigurata nell'Eden ("que [...] per terrestrem paradisum figuratur"), come è scritto nella Monarchia (iii 15 7-8)» (così nel suo commento Chiavacci Leonardi, ad locum). Quindi la battuta sembra proprio presupporre che Virgilio conosca il sogno dal quale Dante si è appena risvegliato.
Dunque la telepatia di Virgilio, nel Purgatorio, scatta quando Dante ha un sogno o una visione, che Virgilio è pronto a spiegare a Dante, come è pronto a rassicurarlo e a fare del sogno o visione motivo di sprone e forza per proseguire il viaggio.
Ma la cosa di gran lunga più interessante è che fin dall'Inferno la telepatia di Virgilio scatta quando Dante sogna: solo che questo sogno non è un sogno di secondo livello come sono quelli del Purgatorio, ma è la visione in sogno nella quale consiste il viaggio nell'aldilà, in un paio di passaggi estremamente pericolosi nei quali la concatenazione dei contenuti via via prodotti in tempo reale dalla mente di Dante sognatore rischierebbe di imprimere all'azione narrativa esiti catastrofici, se Virgilio, leggendo quei pensieri prima che diventino realtà, non riuscisse a volgerli a esiti di salvezza. È per svolgere questa funzione che Dante ha dotato la sua guida di questa facoltà. Non è questo il luogo per dimostrare questa affermazione ardita.8 Qui concludo la mia lettura osservando solo che la telepatia di Virgilio è inscindibilmente connessa col sognare di Dante: col suo sognare nel Purgatorio e col suo sognare l'Inferno.
Mi auguro di aver così contribuito a chiarire, partendo dal xv canto, diverse occorrenze del tema onirico-visionario nel poema, cercando di tracciare la logica che le tiene insieme in un quadro coerente ancorché ellittico.
Sullo sfondo, l'antefatto della Commedia come visione è nella Vita nova. L'inclinazione onirico-visionaria di Dante, allo stato pre-filosofico, puramente biografico e poetico, vi è attestata in misura sovrabbondante, e il passo del Convivio sulle «divinazioni de' nostri sogni» e l'immortalità dell'anima vi aggiunge la consapevolezza teorica, sulla scia di auctoritates dell'importanza di Alberto Magno e Avicenna, che tale inclinazione non è patologica, non porta a vagare nell'errore, ma al contrario è lo stigma di anime forti, privilegiate, vocate alla profezia.9
Per questo Dante, riemergendo dallo stato semi-vigile della visione, qui nel xv canto, riconosce i suoi «non falsi errori» (v. 117, corsivi miei). Definizione opposta a quelle con cui Dante definisce i prodotti della sua fantasia della Vita nova, massimamente l'allucinazione conseguente alla «dolorosa infermitade» (Vn 14 1-16; xxiii 1-16): «nel cominciamento de l'errare che fece la mia fantasia» (Vn 14 4); «Così cominciando ad errare la mia fantasia» (Vn 14 5); «e fue sì forte la erronea fantasia che [...]» (Vn 14 8); « apersi li occhi, e vidi ch'io era ingannato» (Vn 14 13); «onde io, essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare [...]» (Vn 14 15); «Appresso questa vana imaginazione [...]» (Vn 15 1).
Questo riconoscimento filosofico-teologico, conquistato nel Convivio, del proprio dono visionario va ad aggiungersi al dono dell'infinito talento poetico, e l'uno e l'altro insieme gli danno la forza temeraria di intraprendere il poema che ridica per filo e per segno com'è fatto tutto l'aldilà.10
M. T.
Bibliografia
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• Id. (2014), Convivio, a cura di G. Fioravanti, in Opere, edizione diretta da M. Santagata, Milano, Mondadori, vol. ii, pp. 3-805.
• Fioravanti G. (2014), commento al Convivio (Dante Alighieri, 2014).
• Huss B., Tavoni M. (a cura di) (2019), Dante e la dimensione visionaria tra medioevo e prima età moderna. Atti del Seminario di studio, Freie Universität Berlin, 23 novembre 2017, con il patrocinio della Fondazione Alexander von Humboldt, Ravenna, Longo.
• Pegoretti A. (2014), Indagine su un codice dantesco. La 'Commedia' Egerton 943 della British Library, Pisa, Felici.
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• Ponchia C. (2015), Le fonti illustrative delle miniature del Dante Egerton, in Santagata (2015) (a cura di), pp. 109-27.
• Santagata M. (2015) (a cura di), Il manoscritto Egerton 943: Dante Alighieri, Commedia. Saggi e commenti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
• Id (2015a), Tra (auto)biografia e profetismo utopico. Un viaggio nella Commedia, in Santagata (2015) (a cura di), pp. 1-39.
• Tavoni M. (2007), "Converrebbe essere me laudatore di me medesimo" ('Vita nova' XXVIII 2), in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant'anni, a cura degli allievi padovani, Firenze, Edizioni del Galluzzo, vol. i, pp. 253-61.
• Id. (2014), Inferno XXIII. Il canto degli ipocriti, Bologna nell'aldilà, la visione come meccanismo narrativo, in E. Pasquini, C. Galli (a cura di), Lectura Dantis Bononiensis, Bologna, Bononia University Press, vol. iv, pp. 47-77.
• Id. (2015), Dante "imagining" his journey through the afterlife, in «Dante Studies», 133, pp. 70-97.
• Id. (2019a), L'Inferno sognato, la telepatia di Virgilio e gli antefatti danteschi della 'Commedia' come visione in sogno, in Huss, Tavoni (2019) (a cura di), pp. 97-119.
• Id. (2019b), La visione interiore dalla 'Vita nova' al 'Convivio', in «Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce». La vista e gli altri sensi in Dante e nella ricezione artistico-letteraria delle sue opere, a cura di M. Maslanka-Soro, con la collaborazione di A. Pifko-Wadowska, Atti del Convegno Internazionale del Northern European Dante Network (nedanten), Cracovia, Università Jagellonica, 19-21 aprile 2017, Roma, Aracne, pp. 43-66.
• Id. (2022), The Vision of God ('Paradiso' XXXIII) and Its Iconography, in B. Arduini, I. Magni, J. Todorovic (eds.), Interpretation and Visual Poetics in Medieval and Early Modern Texts. Essays in Honor of H. Wayne Storey, Leiden-Boston, Brill, pp. 94-121.
• Id. (i.c.s.), Where do visions that do not come from sight come from?, in M. Piccolino, C. Panti (eds.), Dante's Visions, London, Routledge.
• Toniolo F. (2015), Il Maestro degli Antifonari di Padova miniatore del Dante Egerton, in Santagata (2015) (a cura di), pp. 89-107.
Note
* Si ripropone qui, corredata di immagini, la lettura di Purgatorio xv, pubblicata in Voci sul Purgatorio. Una nuova lettura della seconda cantica, a cura di Z. G. Baranski e M. A. Terzoli, Roma, Carocci Editore, 2024, vol. i, pp. 397-411.
1 De somno et vigilia, in Alberti Magni (1890), vol. iii, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-90.
2 Sul ms. Egerton 943 si vedano Pegoretti (2014) e i Saggi e commenti raccolti nel volume a cura di Marco Santagata (2015) che la Treccani ha affiancato alla pubblicazione del facsimile, e cioè Santagata (2015a), Pegoretti (2015), Toniolo (2015), Ponchia (2015).
3 Pegoretti (2015), p. 78: «Nella cornice degli iracondi gli esempi di mansuetudine che appaiono a Dante in forma di visione [.] vengono rappresentati dietro alla parete rocciosa, mentre il pellegrino procede a occhi chiusi: fa qui la sua prima comparsa una modalità particolare d'inserimento delle immagini nella pagina, con due vignette collegate l'una all'altra sul margine di destra. Due personaggi sostanzialmente identici raffigurano prima Maria e Giuseppe che cercano Gesù nel tempio, poi Pisistrato e la moglie».
4 Nel sito del Dartmouth Dante Project, https://dante.dartmouth.edu/search.php, consultato il 29.12.2023.
5 Per questa definizione vedi da ultimo il video di Gian Luca Potestà, L'Apocalisse di Dante, https://www.youtube.com/watch?v=ECZPrJoj43o.
6 Cito entrambi i testi da Biblia (1983).
7 Pegoretti (2015), pp. 64-65: «Immediatamente al di sopra [dell'iniziale abitata che rappresenta Dante nell'atto di 'dire' il testo che segue] si trova il contenuto del suo racconto, riprodotto sulla falsariga di una delle modalità illustrative proprie del Roman de la Rose, grande poema francese duecentesco letto e diffuso in Italia. Sulla sinistra si vede un Dante a letto, nella posizione del sognatore; sulla destra, il medesimo Dante che si avvia verso la selva oscura. Il personaggio dell'iniziale, dunque, racconta di aver sognato di essersi smarrito in una selva: per il solo tramite di questa immagine l'interpretazione del testo propende per la visione in sogno, una delle modalità più frequenti di visione dell'aldilà e dei misteri divini nel Medioevo, così come cornice narrativa ampiamente sfruttata». E nella nota: «Particolarmente vicina è la miniatura iniziale del Roman de la Rose nel manoscritto di Londra, British Library, Additional 31840, c. 3r».
8 Credo di averla dimostrata in altri lavori, ai quali rimando: Tavoni (2014), pp. 66-77; Id. (2015), pp. 76-80; Id. (2019a), pp. 100-109. I due passi cruciali dell'Inferno sono xvi 106-136 e xxiii 4-45.
9 Cfr. Tavoni (2019b) e Id. (i.c.s.). Sulla visione "criptata", e decisiva, che porta le visioni della Vita nova al significativo numero di nove, anziché all'insignificante numero di 8, vedi Id. (2007).
10 Sulla dimensione visionaria della Commedia in generale vedi Huss, Tavoni (2019). Sulla visione di Dio nell'ultimo canto del Paradiso Tavoni (2022).