Nicola Ribatti
Un «groppo di immagini».
Codici metaforici e iconografici in Arte del Belli di Carlo Emilio Gadda
1. Il saggio Arte del Belli è pubblicato per la prima volta da Gadda sulla rivista "Poesia" nel 1945. Nel 1953 lo scrittore realizzerà per la RAI una trasmissione radiofonica dedicata al poeta romano. Il testo corrisponde, senza grosse variazioni, a due segmenti del saggio e sarà pubblicato, nello stesso anno, sulla rivista "Alfabeto" con il titolo: Ritratto di Roma barocca in ventiquattro sonetti del Belli. Arte del Belli entrerà poi a far parte, con alcune variazioni, della raccolta di saggi I viaggi la morte del 1958.1
Il periodo di composizione del saggio Arte del Belli precede dunque di poco l'inizio del lavoro al Pasticciaccio, attestabile alla fine del 1945; il romanzo sarà infatti profondamente influenzato dall'opera del poeta romano, come attesta ampiamente il Commento al Pasticciaccio,2 non solo a livello stilistico-linguistico (si pensi alla presenza del dialetto romanesco o alla ripresa di lemmi belliani), ma anche poetologico e tematico.
Il testo nasce come recensione a una raccolta di sonetti del Belli curata da Antonio Baldini dal titolo Er Commedione.3 Il titolo allude alla scelta del curatore di raccogliere e organizzare i sonetti in modo tematico, ricreando una sorta di percorso dantesco all'inverso, che inizia dal "Paradiso", rappresentato dalla Roma papalina, per terminare nella raffigurazione "infernale" della plebe romana. Questo parallelismo dantesco doveva entrare in risonanza con un'altra lettura che Gadda aveva compiuto. Egli infatti possedeva una copia dei sonetti del Belli4 nell'edizione pubblicata da Formiggini nel 1930, con 96 stampe di Bartolomeo Pinelli e con un'introduzione di Giorgio Vigolo, in cui l'autore sottolineava l'affinità (ribadita poi dallo stesso Gadda nel suo saggio) tra Dante e Belli nell'uso del dialetto.
L'arte del Belli costituisce in realtà molto più di una semplice recensione: si tratta invece di un importante manifesto di poetica cui Gadda attribuiva grande importanza, come testimonia l'originale collocazione del saggio nella prima sezione de I viaggi la morte, subito dopo Fatto personale o quasi, sezione che era destinata a contenere quelli che dovevano essere, nelle intenzioni dell'autore, veri e propri contributi di carattere metatestuale.5 Solo successivamente l'autore deciderà di collocare il testo tra le recensioni.
Come nel caso di altri contributi saggistici (si pensi all'Apologia manzoniana), anche qui l'analisi della poetica di un autore è funzionale a esprimere la propria concezione della letteratura. Per Belli, come per Gadda, alla letteratura è strettamente connessa una fortissima istanza di tipo gnoseologico ed etico. Scrivere significa raffigurare la realtà ed enunciarne la verità più profonda:
Nel caso del Belli, non può sorgere dubbio che egli nega e deride senza remissione tutto il falso, il convenzionale, l'insincero di un'epoca e di una società. Il sarcasmo è in lui il virus antiretorico per eccellenza che agisce in profondità, rendendo impossibile una presa del falso sull'animo [.]. Alla nettissima posizione linguistica corrisponde esattamente la posizione etica e psicologica che incenerisce nel ridicolo tutto ciò che non resista a una tale prova del fuoco, per intimo grado e calore di verità (AB 553-54).
L'ironia, il sarcasmo, la satira nei confronti dei potenti rappresentano una garanzia della tensione noetica che anima la poesia del Belli. Centrale risulta inoltre il problema della scelta espressiva. Gadda parla a tal proposito di un vero e proprio «dramma dell'espressione»:
Il dramma dell'espressione è nel Belli come è nel Manzoni. Dall'uno all'altro disparatamente necessitato, difformemente risolto. Il fine è il massimo avvicinamento possibile a quanto la propria consapevolezza certifica per vero, in eventuale opposizione ai rimandi pigri d'ogni verbale conformità (AB 554).
Se Manzoni aveva "risolto" tale dramma ricorrendo alla forma del romanzo storico e a una lingua media borghese, che trova il suo correlativo iconografico, secondo Gadda, nel realismo tragico di un Caravaggio, Belli invece, nel descrivere la Roma papalina e la plebe romana, va nella direzione della satira, del sarcasmo dirompente e grottesco, che trova il suo reagente linguistico nel dialetto romanesco e il suo correlativo iconografico, come si vedrà, in Pinelli, Piranesi e, soprattutto, Goya. La forza espressiva dell'opera belliana risiede, per Gadda, anzitutto nell'uso del dialetto romanesco. Escludendo «ogni forma o modo che non fossero schiettamente di popolo» (AB 554), attraverso «l'uso del volgare romanesco [.] prendeva corpo e realtà espressiva quel moto di rivolta contro il falso che era insorto nel suo animo come sentimento morale» (ibid.). La «grande mimesi del linguaggio plebeo» (AB 555) si fa garante della veridicità della rappresentazione, contro ogni forma di falsificazione linguistica e ideologica: «Il linguaggio rude ed estremo, attinto al sostrato più profondo della sua terra, diveniva così, per lui, il passo obbligato della verità, della persuasione contro la retorica» (AB 554).
Gadda individua, al termine del saggio, una sorta di "linea genealogica" in cui collocare i più importanti scrittori che si sono rivolti al dialetto come strumento espressivo:
Questo è anche del Porta, è dei grandi dialettali in genere, è di Dante drammaturgo: poiché il dialetto, non meno di certo dialogo con Dante, è prima parlato o vissuto che non ponzato o scritto. E chi parla e vive, parla e vive necessariamente legato da un complesso di relazioni ambientali e sceniche che lo avviluppano nella totalità delle loro determinazioni [...] così il dialetto può raggiungere più decisi, più concreti risultati che molte volte una lingua piovutane in penna da una tradizione stenta da una scuola uggiosa: e, per certi disgraziati, nemmen da quelle (AB 560).
Tale linea genealogica parte da Dante e, attraverso Porta e Belli, giunge, nelle implicite intenzioni dell'autore, a comprendere anche se stesso, come dimostrerà la composizione del Pasticciaccio. La funzione "gnoseologica" del dialetto non si limita tuttavia all'aspetto della mera mimesis, o meglio, esso permette un nuovo modello di mimesis sotto il segno della maccheronea.
In Come lavoro Gadda afferma che «la parola convocata sotto penna non è vergine mai».6 Ecco allora che il ricorso al dialetto, in quanto lingua "viva" e non ancora sclerotizzata, permette da un lato di cogliere la complessità del reale (Gadda parla di «complesso di relazioni ambientali»), dall'altro decostruisce la lingua d'uso (e letteraria) attraverso la deformazione e la stridente mescidazione stilistica. Gadda individua dunque nella maccheronea la cifra della produzione artistica del Belli (e della propria opera nello stesso tempo). La sua poesia, come scrive, «Attinge ai limiti egualmente dolorosi ed egualmente fecondi di un conato di rivendicazione gnoseologica e di un dissolvimento dell'inanità nella maccheronea» (AB 556). E alla maccheronea è riconducibile la poetica della «lingua spastica»:
la parlata di popolo − e più che mai nel Belli − segna l'affiorare di uno spostamento spastico della conoscenza dal tritume delle correnti obbligative: è egualmente lontana dal documento illuminatore del Progresso (scientifico, storiografico) come dalla imposizione degli interessi e delle consociazioni, costituiti o costituende (AB 555).
La poetica della «lingua spastica» consiste nel "liberare" il linguaggio accostando in modo stridente registri stilistici e idioletti, nel sottoporre il linguaggio a una serie di "torsioni", a livello morfologico e lessicale, che vanno a "rompere" l'habitus fruitivo tradizionale, piegando il linguaggio in senso espressionista e liberandone tutto il potenziale semiotico. La lingua d'uso e quella letteraria vanno de-costruite per essere poi ri-costruite e tale operazione ha nel dialetto uno dei principali strumenti e reagenti. La maccheronea e la poetica della «lingua spastica» sono le caratteristiche principali dell'antitradizionale realismo gaddiano: per conoscere e dire la realtà è necessario, da un lato, decostruire e ricostruire il dato empirico rinvenendo i molteplici legami causali che vi sono sottesi, dall'altro è necessario smontare e ricostruire anche il linguaggio.
2. Per esprimere la straordinaria capacità espressiva della lingua e della poesia del Belli, Gadda ricorre nel saggio ad almeno due grandi plessi metaforici: quello geologico e quello artistico. Come ha dimostrato Federico Bertoni7 il paesaggio roccioso, attraverso le sue stratificazioni e modificazioni continue, diviene una sorta di immagine paradigmatica del dato empirico, che è a sua volta la sedimentazione di una serie molteplice di eventi e concause. Per essere compresi e analizzati, la roccia e il dato empirico vanno innanzitutto modificati, distrutti e ri-costruiti. Il geologo, come l'anatomista e lo scrittore, deve penetrare oltre lo strato superficiale per cogliere la storia delle molteplici concause che hanno portato alla formazione del dato empirico.
Il plesso metaforico geologico è presente anche nel saggio su Belli. Esso è attraversato da una isotopia8 che si articola in un'opposizione binaria tra un sema /equoreo/, afferente all'area metaforica dell'acqua, e un sema /lapideo/, afferente all'area metaforica della pietra. Tale opposizione semica viene assiologizzata, subisce cioè un investimento di tipo valoriale: al primo polo, che ha accezione positiva (polo euforico), appartiene la dimensione autentica del popolo e della sua lingua (il dialetto), al secondo polo, che ha accezione negativa (polo disforico), corrisponde la dimensione di un linguaggio ormai sclerotizzato che è il precipitato di un mondo, come quello della Roma papalina, dominato dalla coercizione, dalla falsità e dal sopruso.
Tale opposizione semica appare sin dall'inizio del saggio. La Roma descritta dal Belli appare dominata dal sema /lapideo/ cui rimandano le numerose statue, pietre, «selci archeologizzate» (AB 557) e lapidi che segnano inconfondibilmente il paesaggio urbano di una «città mondo» (AB 549) dominato dalla «patetica, sopravvivente grandezza delle Ruinen und Säulen» (ibid.), in cui «le memorie persistono su tutte le pietre e i gradoni delle chiese o delle piazze, o tra piranesiane rovine» (AB 557). La Roma papalina appare dunque come una città lapidea, pietrificata dal peso stesso della sua tradizione e, con la sua struttura labirintica e asfittica, cui rimanda il paragone con le rovine del Piranesi, diviene allo stesso tempo allegoria di una società consunta, funerea, ormai sclerotizzata nei suoi rapporti di forza. A questo polo disforico si oppone il polo euforico raffigurato dal mondo plebeo, che vivifica, con il suo linguaggio vivo e icastico, quasi fosse una sorta di nuova linfa vitale, il mondo lapideo della Roma papalina. Ecco allora che «Il sonetto del Belli sgorga di vena» (AB 549); l'atto creativo è qui paragonato a una fonte che zampilla ed emerge dagli strati di una «vena» sotterranea presente in modo carsico nel profondo della terra.
A un certo punto del saggio Gadda afferma che i Sonetti del Belli non sono strutturati secondo un ordine precostituito; l'unità strutturale sarebbe il sonetto stesso, che viene paragonato a una «fujetta» (la bottiglia di vino da mezzo litro delle osterie romane). Essa
è natural mesura di quel quantum di vino frascatano che costituisce la bevuta sana di un qualunque sor Alfre' o sor Peppi'. La violenza icastica, il «quanto» di energia espressiva del Belli, richiede ed empie le capacità del sonetto, si versa e si configura tutta nel luogo del sonetto. Così avviene che la figura geometrica è il «luogo» dei punti espressivi d'una determinata proprietà. E il sonetto è l'elemento dell'opera, senza mediazione d'alcuna interposta struttura ordinatrice: canto, cantica, girone (AB 549-50).
Il sonetto viene pertanto visto come il "naturale contenitore" («natural mesura») in cui si esprime e trova piena espressione («empie le capacità del sonetto», «si versa») il linguaggio popolare (il «vino frascatano») in cui si esprimono in forma autentica e spontanea («bevuta sana») i personaggi del popolo romano («un qualunque sor Alfre' o sor Peppi'»). Il ricorso alla Gefäßsymbolik ha lunga tradizione letteraria e rimanda al topos dell'ispirazione poetica. Si pensi al topos del vas electionis presente nell'invocazione ad Apollo nel primo canto del Paradiso, quando Dante chiede al dio della poesia di "colmarlo" attraverso la sua ispirazione:
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O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro
(Par, i 13-15).9 |
Qui il topos, rievocato forse non a caso all'interno di un contesto dantesco (Gadda parla di «canto, cantica, girone»), appare soggetto a un abbassamento di tipo "carnevalesco": non ci si abbevera con le acque che sgorgano dalle fonti d'Elicona ma con vino, il "contenitore" non è il vas electionis, ma la bottiglia delle osterie romane.10
Si noti infine come Gadda sovrapponga alla metafora geologia ed equorea altri campi semantici, creando così un vero e proprio «intrico», una «sovrapposizione» (AB 554) di immagini, spesso distanti tra loro, secondo un gusto tipicamente neo-barocco. Si va dal riferimento alla fisica quantistica («quantum di vino frascatano»; «"quanto" di energia espressiva», espressioni che anticipano il «quanto di erotia» di cui parla don Ciccio Ingravallo nel Pasticciaccio) al richiamo alla geometria, per cui il sonetto è visto come «figura geometrica», come «luogo dei punti espressivi d'una determinata proprietà» (AB 550).
La metafora geologica ed equorea è diffusamente presente nel resto del saggio sul Belli. Si considerino, ad esempio, i seguenti passaggi testuali: «Il linguaggio rude ed estremo» del Belli è «attinto al sostrato più profondo della sua terra» (AB 554); la poesia «è felicità e ricchezza che adempiono, come viva linfa il secchio estratto dal pozzo» (ibid.); la potenza raffigurativa dei sonetti è definita «sorgiva di potente livello» (ibid.); «la parlata del popolo − e più che mai nel Belli − segna l'affiorare di uno spostamento spastico» (AB 555), «attinge ai limiti [.] di un conato di rivendicazione gnoseologica» (ibid.). Si veda infine il seguente passo:
dalle selci archeologizzate della Roma di Papa Cappellari, sotto al bel latino gregoriano o sistino delle lapidi e delle basi d'ogni obelisco esce a un tratto, come sgorgata da uno strano sogno o delirio del mondo, la figura immortale di Papa Cappellari (AB 557).
Qui appare evidente la contrapposizione assiologica tra l'area semantica equorea e quella lapidea. L'associazione metaforica con una fonte sorgiva serve dunque a connotare la poesia dialettale attraverso i semi /liquidità/+/vita/+/spontaneità/+/naturalità/+/verità/. Al contrario il paesaggio urbano, sociale e umano di Roma, attraverso l'associazione con il sema /lapideo/, che trova espressione nelle numerose statue, chiese, architetture, rovine archeologiche, nelle epigrafi incise in una "lingua morta" come il latino, è denotato assiologicamente in modo disforico attraverso i semi /durezza/+/morte/+/artificiosità/+/artificialità/+/falsità/. Se la Roma papalina, afferma Gadda citando un passo dal saggio di Muzio Mazzocchi Alemanni, incarna «lo sfacelo di una società che riduceva la sua liturgia a modulo vano, lo spirito alla lettera» (AB 559) − si noti qui il riferimento paolino − la poesia dialettale, che sgorga spontanea dagli strati più umili della società, dal popolo, può ridare nuova vita e vitalità a un mondo segnato dalla morte, dalla falsità e dall'artificiosità e farsi strumento di una veridica raffigurazione della realtà umana e sociale.
3. L'altro grande plesso metaforico che nel saggio sul Belli caratterizza l'arte del poeta romano è quello che afferisce alla dimensione delle arti e, in genere, della visualità. Gadda ammira nei sonetti «il disegno» compositivo (AB 548), «la vividezza dei motivi etici» (ibid.), «la intelligenza delle immagini» (ibid.). I componimenti sono un «groppo di immagini» (AB 549)11 caratterizzati da «violenza icastica» (ibid.) il cui fine è descrivere e comprendere in modo autentico la realtà:
La «verità» del Belli non è per altro delle povere e semplici, se pure si trasfonde in una evidenza pittorica tanto esauriente e risolutiva: che ha per mezzo della pittura e della risoluzione la parlata trasteverina e monticiana. La evidenza [.] è, in lui, la silloge pressoché spontanea delle istanze più fonde dell'essere e del conoscere (AB 554).
Il «surrealistico ritratto del vegliardo bellunese» è per Gadda «tra le più stupende e vitali pitture che i lunghi secoli abbiano mai dedicato a un sovrano» (AB 558). In sostanza, «Il Belli compie il raro miracolo d'essere pittore d'ambiente e scenografo» (AB 560). Gadda coglie dunque, come era già accaduto per il Manzoni nell'Apologia manzoniana, la valenza pittorica, visiva e icastica dei versi del Belli, anticipando tra l'altro un tema, quello della cultura figurativa del poeta romano, che sarà oggetto di studi solo a partire dagli anni Sessanta. Belli non era infatti a digiuno di "cultura visuale". A Roma Belli aveva conosciuto scultori come Bertel Thorvaldsen e Pietro Tenerani, a Milano incontrerà Francesco Hayez. Non è dunque un caso che il poeta ricorra spesso a metafore pittoriche nei suoi scritti. Nell'Introduzione ai Sonetti egli dichiara di voler fare della plebe romana un «disegno così colorito»,12 ne «dipinge la morale» attraverso «colori nativi»13 per realizzare «un quadro di genere non del tutto spregevole a chi non guardi con la lente del pregiudizio».14 Si veda ancora: «ma il popolo è questo e io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare un'immagine fedele di cosa già esistente».15
Belli conosceva le stampe di Jacques Callot,16 che viene esplicitamente citato nel sonetto Furtuna e ddorme: qui una prostituta è paragonata a una «figura del Callotta», tanto orrenda che «smove la verminara a le creature».17 Muscetta, in un saggio degli anni Sessanta, ritiene che nel descrivere la gobba di una donna nel sonetto Gobbriella, Belli si sia ispirato alle stampe del Callot.18 Vigolo aveva notato altresì la presenza di tratti michelangioleschi nei cosiddetti "sonetti biblici": ne Li cavajjeri il gesto di Cristo che alza il braccio ricorderebbe il gesto della Sistina19. L'associazione divenuta ormai classica, già a partire da fine Ottocento e poi consolidatasi con le edizioni curate da Vigolo, è tuttavia con Bartolomeo Pinelli, incisore coevo a Belli, che aveva raffigurato scene di vita e costumi del popolo romano. A tal riguardo, numerose sono le concomitanze tematiche tra il poeta e l'artista, anche se in realtà non è stata finora dimostrata alcuna filiazione diretta.20 Il riferimento iconografico a Pinelli era dunque, per Gadda, imprescindibile, tanto più che egli possedeva, come detto, un'edizione dei sonetti stampata dall'editore Formiggini, arricchita con numerose stampe di Pinelli. Egli tuttavia si discosta dalla tradizionale lettura che, nel binomio Belli-Pinelli, poneva l'accento sulla raffigurazione di una umanità ingenua e schietta: «L'asserzione di Giuseppe Gioacchino è la dogliosa poesia di un conterraneo e contemporaneo di Bartolomeo Pinelli» (AB 554). La lettura che Gadda fa dell'opera del Belli (ed è questo uno dei principali meriti del saggio) non è affatto una lettura pacificata. Al contrario, per Gadda la poesia del Belli e le stampe del Pinelli sono un esempio di «dogliosa poesia» (ibid.) che esprime «pensosa, delicata, adempiuta, partecipazione al dolore» (AB 555) di una umanità reietta, che trova espressione
nelle immagini alterate e scontorte di una coscienza-ignoranza propria del personaggio o nelle denegazioni polemiche, nelle creazioni miteggianti, nella bestemmia e nella turpitudine farsesca o nella beffa rivendicante di che si qualifica l'atteggiamento plebeo (ibid.).
Questo assunto viene ulteriormente confermato attraverso altri due riferimenti artistici: il primo è alle «piranesiane rovine» (AB 557), che diventano allegoria della «carcerata voce dell'io» (ibid.) che si esprime nei sonetti. Il secondo riferimento pittorico è all'opera di Goya. Si tratta di una intuizione che sarà ripresa solo successivamente dalla critica, a partire dagli anni Sessanta, con gli studi di Muscetta. Secondo Gadda, Belli descrive «la miseria plebea. Talora del Goya: un senso di "De profundis", talora, come fumèa che vapori su dai dominî dello stento. Questo non solo quanto al contenuto, ma quanto al tono, al modo» (AB 556).
A Goya Gadda riconduce non solo la descrizione delle misere condizioni della plebe, ma anche la raffigurazione di un mondo dominato da un insensato dolore:
Dal poema del Belli il tempo e il costume vengono consacrati in una accezione di patimento, per un'acre o comunque drammatizzata immistione del personaggio nello incredibile fluire delle cose. E dal costume e dal tempo sgorga e incombe sul mondo, tra scoppi irridenti di risa e il serpere delle tentazioni e dello stagnare del peccato, dondola sul mondo la forma cupa del dolore. Vero e assurdo come un incubo del Goya (AB 560).
Si tratta di un passaggio particolarmente significativo, su cui Gadda è tornato più volte, come mostrano i materiali genetici presenti nei manoscritti del Fondo Roscioni, che sono stati analizzati a livello variantistico da Mauro Bignamini.21 Da questo lavoro cito di seguito le varianti testuali che terminano con la versione finale:
• E dal costume e dal tempo emerge perennemente un orgasmo vero e assurdo, come un impiccato del Goya.
• E dal costume e dal tempo emerge perennemente il contorno cupo e assurdo, come un impiccato del Goya.
• E dal costume e dal tempo sgorga e dondola sul mondo la cupa forma del dolore, vero e assurdo come un impiccato del Goya.
• E dal costume e dal tempo sgorga e procombe sul mondo la cupa forma del dolore e ne emerge quasi stridendo il riso, vero e assurdo come un impiccato del Goya.
• E dal costume e dal tempo sgorga e incombe sul mondo, tra scoppi irridenti di risa e il serpere delle tentazioni e dello stagnare del peccato, dondola sul mondo la forma cupa del dolore. Vero e assurdo come un incubo del Goya.22
Le varianti genetiche mostrano anzitutto un intensificarsi della concentrazione drammatica, come rivela il progressivo passaggio da «orgasmo vero e assurdo» e «contorno cupo e assurdo» a «forma cupa del dolore», nonché la sostituzione del preziosismo «procombe» con «incombe». Si noti inoltre l'intensificarsi della metafora equorea con il passaggio da «emerge» e «sgorga e dondola» a «sgorga e incombe sul mondo [.] dondola sul mondo», dove il secondo termine viene retto semanticamente dalla similitudine con l'immagine del cadavere che penzola dalla forca. L'ordo naturalis della frase sarebbe dunque: «la cupa forma del dolore sgorga dal tempo e dondola sul mondo, vero e assurdo come un impiccato del Goya». Si noti infine l'amplificazione sintattica della versione finale attraverso l'aggiunta del tricolon: «tra scoppi irridenti di risa e il serpere delle tentazioni e dello stagnare del peccato». Una delle varianti di maggiore rilievo è rappresentato dal passaggio da «un impiccato del Goya» a «incubo del Goya», dove la sostituzione di un'immagine concreta («l'impiccato») con un termine astratto («incubo») pone l'accento sul carattere assoluto e universale della dimensione orrorifica evocata attraverso la citazione di Goya. Il testo finale rende inoltre particolarmente singolare la similitudine citata precedentemente, ora sicuramente meno intellegibile, che diviene: «la cupa forma del dolore sgorga dal tempo e dondola sul mondo, vero e assurdo come un incubo del Goya»; a dondolare sarebbe non più l'impiccato ma l'incubo.
Per quanto concerne la possibile fonte iconografica di questo passo, Gadda stesso sembra fornirci un indizio. Così lo scrittore, poco dopo il passo citato, connota l'eloquio dei personaggi del Belli: «E il "parlare" del suo personaggio si conchiude senza residui nella definizione complessa di un "carattere", o, altrove, d'un "momento espressivo", di un "capriccio"» (AB 560). Il termine «capriccio», come è stato notato,23 non è certo casuale e rimanderebbe ai Caprichos, celeberrima serie di 80 incisioni (pubblicate nel 1799) in cui Goya colpisce con straordinario sarcasmo le superstizioni del volgo così come l'ipocrisia e le bassezze di nobili e prelati.24 Il riferimento all'impiccato nelle prime varianti potrebbe forse rimandare a un'incisione presente nei Caprichos dal titolo A caccia di denti (Fig. 1) che mostra la figura grottesca di un impiccato. Una donna, visibilmente inorridita dall'azione che sta compiendo (si copre infatti il volto con un fazzoletto) cerca di estrarre un dente dalla bocca del cadavere. Secondo l'interpretazione più corrente,25 Goya farebbe qui riferimento alla superstizione popolare secondo la quale i denti degli impiccati sarebbero stati molto efficaci per preparare filtri d'amore. L'incisione tenderebbe dunque a stigmatizzare le superstizioni popolari, ma ciò che vi domina è un senso di orrore e di angoscia, che trapela soprattutto dal grottesco cadavere dell'impiccato, che sembra quasi sospeso nel nulla.
Non si può tuttavia escludere che Gadda abbia fatto ricorso anche a un'altra fonte iconografica, realizzando, come spesso accade nella sua opera, una contaminazione tra più modelli. Si tratta de I disastri della guerra,26 altra celebre serie di incisioni cui Goya lavora fino al 1820 e in cui l'artista denuncia i crimini commessi durante la guerra di indipendenza spagnola. A tali incisioni Gadda si era probabilmente già riferito in un passo di Navi approdano in Parapagàl (1941), testo pubblicato all'interno de L'Adalgisa e che poi entrerà a far parte della Cognizione.27 Nel suo delirio Gonzalo immagina una sorta di banchetto in un ristorante dove i giovani borghesi dimenticano la tragica realtà della guerra:
Dimenticati tutti gli scioperi, di colpo; le urla di morte, le barricate, le comuni, le minacce dell'impiccagione ai lampioni, la porpora al Père Lachaise; e il caglio e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti; e le cagnare e i blocchi e le guerre e le stragi, d'ogni qualità e d'ogni terra, per un attimo! per quell'attimo di delizia.28
Bignamini coglie qui un omaggio alla celebre tela Il 3 maggio 1808, dipinta nel 1814 (Fig. 2), in cui Goya raffigura l'esecuzione, da parte delle truppe napoleoniche, di alcuni rivoltosi durante la guerra di indipendenza spagnola del 1808. Con «il caglio e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti» lo scrittore alluderebbe alla consistenza materica del colore che contraddistingue il sangue dei cadaveri, accatastati dinanzi ai compagni che sono in procinto di essere fucilati.29 Il passo tuttavia fa riferimento anche a impiccagioni, stragi e altri crimini di guerra. È pertanto possibile che Gadda si sia ispirato anche, o soprattutto, a I disastri della guerra, dove compaiono numerose raffigurazioni di fucilazioni: si pensi a Non si può guardare (Fig. 3), che è chiaramente correlata a Il 3 maggio 1808 sia tematicamente che stilisticamente, o all'incisione E non c'è rimedio (Fig. 4), cui anche potrebbe riferirsi il gaddiano «caglio e aggrumato». Né mancano nella raccolta le scene di impiccagione: si pensi a Che affronto! (Fig. 5), dove un soldato napoleonico si appresta a tagliare la corda da cui pendono tre impiccati, presunti collaboratori dei patrioti spagnoli, mentre un altro soldato sostiene le gambe del giustiziato per attutirne la caduta. Come è duro il paesaggio (Fig. 6), infine, mostra due impiccati che oscillano sullo sfondo: a questa incisione si potrebbe forse ricondurre la similitudine con l'impiccato che dondola, presente in Arte del Belli.
Per quanto concerne il legame tra Gadda e Goya, Bignamini30 ritiene che Gadda abbia potuto visitare una mostra dedicata alla pittura spagnola organizzata da Roberto Longhi a Roma nel 1930 con la presenza di dieci tavole di Goya.31 Tale ipotesi non sembra però supportata, come lo studioso stesso ricorda, da alcuna testimonianza biografica. La mostra conteneva inoltre opere appartenenti alla cosiddetta maniera chiara, con soggetti di carattere cortigiano, cui Gadda non fa alcun riferimento nella sua opera; lo scrittore sembra maggiormente affascinato dalla cosiddetta maniera scura. È molto più probabile invece che a "introdurre" Gadda all'opera di Goya siano stati gli scritti di Charles Baudelaire, autore particolarmente amato dallo scrittore milanese, il quale a sua volta era grande estimatore di Goya.32 Nella celebre poesia Les phares (I fari), compresa ne Les Fleurs du mal, Baudelaire cita una serie di artisti, tra cui Goya:
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Goya, cauchemar plein de choses inconnues,
De foetus qu'on fait cuire au milieu des sabbats,
De vieilles au miroir et d'enfants toutes nues,
Pour tenter les démons ajustant bien leurs bas
(vv. 25-28).33 |
Si noti come a connotare immediatamente l'opera del pittore spagnolo Baudelaire usi il termine «cauchemar» («incubo»), che ritornerà in Gadda nella variante finale del passo sopra analizzato («incubo del Goya»). Ai Caprichos Baudelaire dedica inoltre una recensione dal titolo Alcuni caricaturisti stranieri (1857), presente in una raccolta di saggi sull'arte che Gadda possedeva.34 Qui il poeta riconosce a Goya il «merito grande» di aver creato «il mostruoso verosimile [...]. Nessuno più di lui ha osato nel senso dell'assurdo possibile».35 Baudelaire caratterizza ancora l'opera del pittore come «incubo»36 e nel descrivere un'incisione dei Caprichos raffigurante delle streghe afferma che esse incarnano «tutta la laidezza, tutto il luridume morale, tutti i vizi».37 Si tratta di espressioni cui sono riconducibili le aggiunte presenti nella versione definitiva del passo gaddiano, quando si allude al «serpere delle tentazioni e dello stagnare del peccato» (AB 560).
A ciò si aggiunga che la presenza di Baudelaire ne I viaggi la morte è assolutamente centrale: lo stesso titolo della raccolta gaddiana rimanda all'ultima poesia de Les Fleurs du mal (Le voyage) e al titolo dell'ultima sezione (La mort); dopo Arte del Belli nella raccolta figura il saggio che dà titolo alla raccolta, I viaggi, la morte, dedicato proprio all'opera del poeta francese. È dunque attraverso la mediazione di Baudelaire che Gadda riconosce in Goya e in Belli due maestri del realismo grottesco. Se l'umanità descritta dal Belli, come detto in precedenza, poteva offrire nuova linfa per far rivivere, attraverso il suo linguaggio, una Roma soffocata dal peso della sua stessa tradizione, essa è anche il luogo in cui si manifesta, in modo compiuto e veridico, quella "cognizione del dolore" che attanaglia le vite umane.
N. R.
Note
1 Cfr. C. E. Gadda, Arte del Belli, in I viaggi la morte, in Saggi Giornali Favole e altri scritti, vol. i, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Milano, Garzanti, 2007, pp. 548-60; d'ora in poi abbreviato con AB e numero di pagina. Per le indicazioni editoriali si veda la Nota ai testi curata da C. Martignoni, ivi, pp. 1299-1327, in particolare p. 1323.
2 Cfr. M. A. Terzoli, Commento al "Pasticciaccio" di Carlo Emilio Gadda, con la collaborazione di V. Vitale, Roma, Carocci, 2015.
3 G. G. Belli, Er Commedione. Sonetti scelti e commentati da Antonio Baldini, Roma, Colombo, 1944.
4 Id., Sonetti, Modena, Formiggini, 1930; cfr. A. Cortellessa, M. T. Iovinelli (a cura di), La Biblioteca di Don Gonzalo. Il fondo Gadda alla Biblioteca del Burcardo, Roma, Bulzoni, 2001, vol. i, p. 48. Il catalogo delle opere è consultabile anche alla seguente pagina web: https://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/catalogues/burcardoB.php.
5 Cfr. M. Bignamini, "Come in un incubo del Goya". Postille su Gadda e Belli, in Filologia e critica. Studi in onore di Renzo Cremante, a cura di A. Battistini, A. Bruni, I. Romera Pintor, Bologna, clueb, 2013, p. 364.
6 C. E. Gadda, I viaggi la morte, in Saggi Giornali Favole e altri scritti cit., vol. i, p. 364.
7 F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l'invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001, p. 76 e sgg.
8 Utilizzo qui di seguito alcuni strumenti della semiotica generativa di Greimas: cfr. A. G. Greimas, Del senso, Bompiani, Milano, 2001; A. G. Greimas, J. Courtés, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Bompiani, 2007.
9 Dante Alighieri, Commedia, a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Zanichelli, Bologna, 2000.
10 Si noti, come altro elemento comune che collegherebbe potenzialmente questo passo con Par. i, la presenza di un tratto "violento" associato all'ispirazione poetica. Gadda parla, a proposito del Belli, di «violenza icastica», Dante evoca invece il mito di Marsia che fu scuoiato nella gara con Apollo. L'ispirazione poetica e la poesia, con la sua potenza espressiva, sembrano possedere un elemento di violenza.
11 Sull'importanza di questo lemma dantesco cfr. V. Vitale, All'ombra del lauro. Allegorie di scrittura nel 'Pasticciaccio' di Gadda, Premessa di M. A. Terzoli, Roma, Carocci, 2015, pp. 36-51.
12 G. G. Belli, Sonetti, Milano, Mondadori, 1978, p. 5.
13 Ivi, p. 6.
14 Ivi, pp. 6-7.
15 Ibid.
16 Riprendo qui diversi spunti da P. Gibellini, Iconografia belliana, in "Letture belliane", 8, 1987, pp. 101-33.
17 Belli, Sonetti cit., p. 283.
18 C. Muscetta, Cultura e poesia di G. G. Belli, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 413.
19 G. Vigolo, Il genio del Belli, Milano, il Saggiatore, 1963, p. 112.
20 Per un rapido confronto tematico cfr. V. Petrucci Cottini, Il popolo di Roma nei Sonetti del Belli, in "Lares", 1993, vol. 59, 1, pp. 116-18.
21 Cfr. Bignamini, "Come in un incubo del Goya" cit., p. 356 e sgg.
22 Ivi, p. 356.
23 Cfr. M. Kleinhans, «Satura» und «pasticcio». Formen und Funktionen der Bildlichkeit im Werk Carlo Emilio Gaddas, Tübingen, Niemeyer, 2005, p. 102; Bignamini, "Come in un incubo del Goya" cit., p. 356.
24 Sui Caprichos cfr. S. Schlünder, Karnevaleske Körperwelten Francisco Goyas: zur Intermedialität der Caprichos, Tübingen, Stauffenburg Verlag, 2002; H. Jacobs, Der Schlaf der Vernunft. Goyas Capricho 43 in Bildkunst, Literatur und Musik, Basel, Schwabe Verlag, 2006; Id., Die Rezeption und Deutung Goyas Werk in der Lyrik, Würzburg, Königshausen u. Neumann, 2015; H. Jacobs, N. Preyer, Goya für alle. Einführung in die 'Caprichos', Würzburg Königshausen & Neumann, 2019; H. Jacobs, Die Caprichos und Skizzenbuch B, in M. Schwande (Hrg.), Goya, Berlin, Hatje Cantz, 2021, pp. 157-74.
25 Cfr. H. Jacobs, M. Klingenberger, N. Preyer, Die handschriftlichen Kommentare zu Goyas 'Caprichos': Edition, Übersetzung, Deutung, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2017, Bd. i, p. 538-40.
26 Su I disastri della guerra cfr. P. Lecaldano, Goya. Die Schrecken des Krieges, München, 1975; J. M. Matilla, Die Schrecken des Krieges und das Skizzenbuch C, in M. Schwande (Hrg.), Goya cit., pp. 257-79.
27 Cfr. Bignamini, "Come in un incubo del Goya" cit., p. 355.
28 C. E. Gadda, La cognizione del dolore, in Romanzi e racconti, vol. ii, a cura di G. Pinotti, D. Isella, R. Rodondi, Milano, Garzanti, 1989, p. 698.
29 Cfr. Bignamini, "Come in un incubo del Goya" cit., p. 355.
30 Ibid.
31 Cfr. R. Longhi - A. Mayer, Gli antichi pittori spagnoli della collezione Contini-Bonacossi. Catalogo critico, Roma-Milano, 1930.
32 Su Baudelaire e Goya si vedano B. Full, Baudelaires Bildlektüren. Goya und die Dartellung des "comique absolu", in Charles Baudelaire. Dichter und Kunstkritiker, hrg. von K. Westerwelle, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2007, pp. 77-105; Ead., Karikatur und Poiesis. Die Ästhetik Charles Baudelaires, Heidelberg, Winter, 2005.
33 «Goya, incubo colmo di cose sconosciute, di feti fatti / Cuocere al centro delle tregende, di vecchie allo specchio / E di bimbe completamente nude, che per tentare i demoni / S'aggiustan le calze», in C. Baudelaire, I fiori del male, Traduzione di G. Caproni, introduzione e commento di L. Pietromarchi, Venezia, Marsilio, 2008, p. 85.
34 Cfr. Cortellessa, Iovinelli (a cura di), La Biblioteca di Don Gonzalo cit., vol. i, p. 46. Il saggio di Baudelaire si legge ora in C. Baudelaire, Scritti sull'arte, Torino, Einaudi, 2004, pp. 174-82, da cui cito. Il saggio contiene anche alcune osservazioni su Pinelli, considerato come un «dissipatore di scene pittoresche», ivi, p. 180.
35 Ivi, p. 179.
36 Ivi, p. 178.
37 Ibid.