1. La «mala novella»
A dieci anni dalla liberazione dei lager nazisti nel 1955, Primo Levi constatava amaramente come il tema dei campi di sterminio «lungi dall'esser diventato storia, si avviasse alla più completa dimenticanza».1 Nell'Italia degli anni Cinquanta fra guerra fredda, difficile ricostruzione del paese e indirizzo reazionario dei governi centristi, la deportazione era rimasta una realtà inespressa e le vicende di quel «mondo fuori dal mondo»2 del tutto residuali. Inoltre malgrado l'esperienza del lager implicasse una conflittualità radicale contro il nazifascismo, anche da sinistra si faceva fatica a comprendere e a dare peso a quel che era accaduto. La disumanizzazione, l'esser stati ridotti a Stücke (pezzi), l'esperienza di cui i sopravvissuti erano stati vittime e testimoni avevano trovato al loro ritorno un ascolto distratto e quasi nessuno spazio nel discorso pubblico.
Nel nostro dopoguerra gli specifici eventi bellici che il paese aveva attraversato − la guerra fascista a fianco di Hitler, e dopo l'8 settembre 1943, l'occupazione tedesca, il regime collaborazionista di Salò, la guerra civile − avevano comportato per la popolazione una pluralità di vicissitudini e sciagure, diverse a seconda della geografia politica del conflitto, e soprattutto molto contrastanti fra loro. Inevitabilmente si sedimentarono memorie frantumate e divise, su cui sarebbe stato necessario aprire un confronto pubblico, cosa che quasi sempre non avvenne. La varietà di esperienze comportò una pluralità di narrazioni in concorrenza fra loro. Come scrisse Calvino, in quel primo dopoguerra «tutti erano carichi di storie da raccontare, tuttavia ognuno aveva vissuto la sua, aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca».3 Il neorealismo al cinema e in letteratura rappresentò il frutto artistico di quella stagione di rinascita culturale dopo il disastro del fascismo e della guerra. Fu proprio in questo contesto che la deportazione rimase ai margini. Nella repubblica nata dalla Resistenza, almeno nell'immaginario collettivo prevalse il partigiano: maschio, armato, vincente. Le figure inermi e piegate dei deportati restarono sullo sfondo. Nonostante circolassero filmati, fotografie, articoli su quotidiani e riviste (specialmente in concomitanza con il processo di Norimberga), il mondo concentrazionario non trovò una vera visibilità: non si inseriva in strutture narrative preesistenti, non apparteneva al picaresco, né all'epopea eroica neorealista. Al contrario quelle sequenze tragiche erano di una sostanza troppo estrema e nuova per poter essere intesa e condivisa.
In una delle poesie «concise e sanguinose»4 che Primo Levi scrisse subito dopo il suo ritorno compare un corvo minaccioso, «venuto da molto lontano / per portare la mala novella».5 È una figura maligna, si aggira nel mondo per trovare un orecchio che lo ascolti − «il tuo orecchio» − e cantare il suo canto «turpe». Il corvo annuncia la realtà sciagurata del lager, e i reduci ne sono gli sgraditi profeti. E proprio come sgraditi profeti, corvi del malaugurio, dovettero sentirsi nel primo dopoguerra quegli uomini sopravvissuti e quelle donne che, al loro ritorno dai campi nazisti, si misero a scrivere la loro esperienza. Come scrisse Elsa Morante, «[i deportati] la gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate, come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi o dei morti».6 Le loro storie − «la nuova trista» − dovevano apparire come un messaggio rovinoso e distruttivo, un osceno antivangelo. Guardando all'oggi e all'ipertrofia di testimonianze tutto ciò ci può apparire strano, ma ci fu invece una lunga stagione in cui la «mala novella» dei lager fu irricevibile.
La cognizione di quanto era accaduto in quel «paesaggio orripilante»7 risultava ostica; e questa noncuranza non riguardò solo l'Italia, fu un fenomeno che coinvolse l'Europa, il neonato stato d'Israele, gli Stati Uniti, la Polonia dei saccheggi e dei pogrom antiebraici del primo dopoguerra.8 In Italia, in Francia e in generale nell'Europa occidentale, la Shoah fu interpretata come una variante del sistema concentrazionario nazista: la qualità specifica dello sterminio genocidario sfuggiva ai contemporanei, sconvolti sì dallo shock causato dalle immagini dei campi di concentramento, ma immersi − anche comprensibilmente − nella percezione di una più generale disumanità nazista. Incompresa nella sua radicalità, la «frattura di civiltà»9 che l'Olocausto aveva rappresentato non emergeva. Solo uno sparuto gruppo di «segnalatori di incendio» ebbe consapevolezza di quanto era accaduto e del conseguente fatale pericolo di un tramonto irreversibile dell'illuminismo.10 Erano intellettuali quasi sempre ebrei, esuli dalla Germania hitleriana che avevano visto da vicino il Behemoth nazista:11 Franz Neumann, Hannah Arendt, Günther Anders, Theodor W. Adorno, Max Horkheimer. E certamente avevano capito la portata storica dell'accaduto, i superstiti del sistema concentrazionario, che ne furono anche i primi analisti: Primo Levi, Jean Améry, Hermann Langbein, Eugen Kogon, Bruno Bettelheim, Viktor Frankl. E con loro un drappello di donne e uomini sopravvissuti, non necessariamente degli intellettuali, che si sforzarono in ogni modo di rendere pubbliche non solo le sofferenze personali patite, ma la natura e il senso della loro esperienza.
Le classi dirigenti, specialmente in Italia, si mostrarono nel primo dopoguerra piuttosto diffidenti verso i reduci, che erano tanti e provenienti da contesti molto diversi: c'erano i soldati prigionieri degli alleati che avevano combattuto la guerra fascista a fianco delle truppe naziste; gli oltre seicentocinquantamila militari catturati dai nazisti dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943;12 i civili lavoratori coatti.13 In patria c'erano poi i reduci che si erano fronteggiati nella guerra civile: i fascisti della rsi (Repubblica sociale italiana) e i resistenti. Inoltre nel teatro della guerra totale, le stesse popolazioni inermi avevano vissuto terribili traversie fra bombardamenti, stragi, privazioni, rastrellamenti. Dall'Italia occupata erano stati infine deportati civili appartenenti a specifiche categorie: gli ebrei destinati allo sterminio genocida di Auschwitz, e gli oppositori politici, "nemici del Reich" spediti nel sistema dei Konzentrationslager (kz) disseminati in tutta Europa.
Gli ex deportati e deportate erano tornati a casa per ultimi: pochi, male in arnese, depauperati fisicamente e spiritualmente, stretti fra trauma subìto e difficile reinserimento.14 Molti e molte di loro tuttavia fin da subito, quasi per recuperare una sorta di normalità, sentirono la duplice necessità di scrivere, per «gridare a tutti che in terra esiste l'inferno»,15 e contemporaneamente di riunirsi per sentir meno il peso di un'emarginazione che la società circostante non lesinava. Così immediatamente a ridosso del ritorno cominciò il flusso di memorie concentrazionarie italiane, neglette e accantonate ma testimonianza viva di un canone che si stava assestando.16 Insieme si costituirono i primi circoli di ex deportati: già nell'autunno del 1945 i piemontesi fondarono a Torino ben due associazioni simili, destinate poi a unificarsi: l'"Associazione nazionale politici superstiti dei campi di concentramento" e l'"Associazione nazionale ex deportati politici in Germania - ex Zebrati dei campi di eliminazione". Anche in altre città gli ex deportati si aggregarono e attivarono sezioni distaccate: rifugi dove potevano trovare assistenza, ricordare i caduti, avviare iniziative, cercare riconoscimenti.17 Tuttavia niente era facile. Persino nella stessa denominazione «ex Zebrati» avvertiamo il desiderio di marcare un'identità specifica, di non esser confusi con altri reduci, certamente più numerosi come gli imi, che pure faticarono anche loro a trovare un posto nella costruzione della memoria collettiva. Nondimeno con ostinata determinazione nel dopoguerra questi reduci non rinunciando ad associarsi, a scrivere e testimoniare: supplirono con tenacia istituzioni, storici e politici, tutti straordinariamente sordi alla comprensione dell'esperienza del lager e alle sue conseguenze.18
Va tuttavia sottolineato che allora, a differenza dei nostri giorni, fra gli stessi "Zebrati" lo sterminio degli ebrei veniva inteso soltanto come un settore della deportazione politica, e la Shoah annessa tout court al sistema concentrazionario nazista, ben racchiusa nel paradigma universalistico dell'antifascismo. Sarebbero passati molti anni prima che il genocidio assumesse una sua rilevanza specifica. Nel discorso pubblico l'«enfatizzazione» della Resistenza finì «per coprire tutti gli spazi della memoria»,19 e la differenza fra genocidio e deportazione politica, non venne percepita e concettualizzata se non raramente. Si impose − e non solo in Italia − «una concezione unitaria dei crimini nazisti»20 per cui i lutti ebraici rimasero sottovalutati e indistinti, circoscritti nel privato di famiglie e comunità.
Nel territorio fiorentino, anche extraurbano, epigrafi e monumenti della deportazione politica e razziale hanno seguito l'orientamento generale della memoria pubblica e contemporaneamente contribuito a costruirla, transitando dal vuoto quasi totale dei primi decenni dell'Italia repubblicana al rilevante incremento lapidario dagli anni Novanta in poi. I rapporti fra la memoria della deportazione politica e quella ebraica hanno vissuto nei decenni del dopoguerra convergenze e dissonanze variamente articolate nel tempo, dalla fase della completa assimilazione degli ebrei al fronte della Resistenza, fino alla raggiunta consapevolezza della specificità della Shoah con il relativo impetuoso risveglio della memoria ebraica negli anni Novanta, tuttora tendenza egemonica. Le lapidi locali delle deportazioni hanno ritmato le oscillazioni delle due memorie, quella della manodopera schiava dei Konzentrationslager-KL, e quella della distruzione degli ebrei d'Europa dei campi di sterminio (Vernichtungslager-VL). Nella prima di queste due fasi, gli ebrei deportati ad Auschwitz che comparivano nelle lapidi − il che succedeva assai raramente − non erano mai connotati per la loro appartenenza all'ebraismo, semplicemente facevano parte della schiera dei "caduti" della seconda guerra mondiale, magari insieme con i soldati della guerra fascista, i partigiani, i civili uccisi nei bombardamenti e nelle stragi, gli internati militari. Per i deportati politici la visibilità fu di poco maggiore e sempre sporadica.
2. La Shoah come frattura di civiltà
Si è soliti far risalire al processo Eichmann del 1961 l'inizio di un progressivo cambio completo di paradigma nella ricezione della Shoah.21 A Gerusalemme sotto i riflettori di tutto il mondo, attraverso le figure dei sopravvissuti con le loro perturbanti testimonianze, il neonato Stato di Israele impartì una cruciale «lezione di storia»22 al mondo intero, inaugurando nel contempo una stagione di approfondimenti e studi. La Shoah divenne «uno specifico soggetto di indagine storiografica»23 in grado di modificare «in profondità la conoscenza e la consapevolezza della storia europea, della seconda guerra mondiale e dei suoi esiti, delle tematiche relative alla giustizia, ai diritti, alla memoria».24 Questo processo, non lineare e non privo di ambiguità, approdò nel corso dei decenni a interpretare il genocidio antiebraico non come una degenerazione inaspettata o una regressione dell'Occidente, ma piuttosto come «uno dei suoi prodotti possibili»,25 un evento sovvertitore degli «elementi fondanti della cultura occidentale»: una vera e propria «frattura di civiltà»,26 una «violazione di tutto ciò che porta un volto umano»,27 «specchio ed espressione parossistica»28 della crisi europea della prima metà del secolo scorso.29
Insediata «saldamente al centro della memoria collettiva e delle nostre rappresentazioni della storia del Novecento», la Shoah tuttavia vive oggi una condizione contraddittoria, avendo acquisito contemporaneamente «una visibilità accecante e una comprensione vacillante».30 Tuttavia nel discorso pubblico, in ambito educativo e nei media, malgrado gli indubbi progressi della storiografia, molte acquisizioni non filtrano, rischi di banalizzazione o di sacralizzazione sono sempre in agguato, né riescono a essere frenate risorgenti manifestazioni razziste e neofasciste.31 Questa egemonia del paradigma memoriale della Shoah, governata da istituzioni nazionali e internazionali, ha prodotto e sostenuto con molte ambiguità nell'Unione Europea e negli Stati Uniti un rilevante impegno in politiche specifiche: musei, giornate celebrative, progetti educativi.32
Una tappa significativa in questo processo è costituita dalla Risoluzione dell'onu del 1° novembre 2005, in cui si indica il 27 gennaio come giornata mondiale dell'Olocausto e gli stati membri sono esortati a impegnarsi in progetti educativi in grado di «inculcare le lezioni dell'Olocausto alle generazioni future in modo da prevenire in futuro atti di genocidio».33 Malgrado l'intenzione pedagogica appaia ingenua e velleitaria, oltre che smentita dal continuo proliferare di xenofobia, razzismo e antisemitismo, tuttavia la crescita di politiche memoriali orientate in tal senso non accenna a diminuire e così anche la produzione sempre più copiosa del mercato culturale.34
In Italia l'ascesa della Shoah nello spazio pubblico ha coinciso, e per certi versi compensato, il contemporaneo declino del paradigma antifascista. Gli anni Ottanta sono stati il teatro di questo cambio di passo. Mentre nel 1986 in concomitanza con le apprensioni suscitate dal «laido conato dei revisionisti»,35 Primo Levi dava alle stampe I sommersi e i salvati, focalizzando lo sterminio in tutta la sua complessità e riaprendo molte questioni, due anni dopo nel 1988 (cinquantenario delle leggi razziali), divenne visibile che un'«autentica inversione di tendenza» era avvenuta.36 Da quel momento insieme a una nuova e feconda stagione di studi, si dispiegò compiutamente una crescente visibilità pubblica della Shoah fino alla tappa cruciale dell'istituzione italiana del Giorno della Memoria nel 2000.37 Tuttora irrisolte permangono contraddizioni e incongruenze. Una per tutte: mentre da lungo tempo persiste nel mondo della scuola un grave deficit nella conoscenza della storia del Novecento, ebbene proprio nelle scuole la Shoah occupa uno spazio indiscusso ma (quasi) sempre solo sul piano celebrativo. Con lo stesso intento i mezzi di comunicazione, gli enti locali, le istituzioni culturali, nel mese di gennaio ogni anno si profondono spesso acriticamente in rievocazioni, celebrazioni, progetti didattici, concorsi, viaggi della memoria e quant'altro, con una fissità che di recente ha suscitato molte discussioni sulla natura della memoria europea e sui suoi usi politici.38
3. «Da questo binario partirono...»
È precisamente in questa temperie culturale e politica che anche nello spazio urbano fiorentino dagli anni Novanta in poi, le lapidi relative alle persecuzioni antiebraiche hanno conosciuto una crescita rilevante e sviluppato un corpus epigrafico tematicamente compatto e diffuso: un capitolo inedito nella narrazione dei traumi del Novecento. Incorporando volontà politiche, intenzioni memoriali, proposte culturali e pedagogiche, questa nuova produzione monumentale, ormai pienamente istituzionalizzata, contribuisce a sua volta a consolidare e a rilanciare nel discorso pubblico e nel codice dei cerimoniali la costellazione ideologica di chi l'ha pensata e prodotta, di cui a sua volta è diventata lo specchio. Ogni aspetto delle persecuzioni antiebraiche è evocato in questa nuova "ondata lapidaria": dalle leggi del 1938 che decretarono (e attuarono) uno stato di segregazione razziale per la minoranza ebraica, fino all'internamento nei "campi del duce" nel 1940, per giungere infine alla fase successiva dell'armistizio dell'8 settembre 1943, caratterizzata da razzie, stragi, deportazioni, quando ogni ebreo − italiano o straniero − nel territorio dell'Italia dominata dal nazifascismo, era destinato allo sterminio. Il corpus lapidario e monumentale di questa memoria appare tuttavia molto frastagliato, impostato non organicamente ma piuttosto con vuoti e pieni, dunque molto differenziato a seconda della committenza, delle tendenze politiche, del valore d'uso del luogo in cui si situa. Giocano un ruolo determinante anche il grado di conoscenza degli eventi commemorati e la capacità comunicativa di stili espressivi molto differenziati. Mi concentrerò qui, a titolo esemplificativo, su alcuni esempi di questa produzione, nel tentativo sempre auspicabile in analisi di questa natura, anche per monumenti e lapidi, di rivelarne «i segreti» e «far loro dire loro ciò che da sole non dicono».39
Intorno al Duemila con le molte lapidi disseminate sul territorio cittadino, la memoria ebraica delle persecuzioni aveva dunque finalmente travalicato i confini identitari del Tempio israelitico per estendersi nello spazio pubblico. Il percorso era stato assai lungo e non lineare. In una prima fase lapidi e monumenti commemorarono soltanto la persecuzione dei diritti: la cacciata dall'Università dei docenti ebrei e l'internamento nei campi del Duce. Ancora mancavano però segni marmorei della Shoah fiorentina, che ricordassero precisamente nelle strade e nelle piazze gli ebrei arrestati e periti. Nessun ricordo evocava inoltre l'«anomalia della situazione» locale, vale a dire la radicalità e l'accentramento istituzionale dell'apparato repressivo antiebraico, che operò per undici mesi nella Firenze governata dai nazifascisti.40
Ma i tempi erano ormai maturi per realizzare una prima espressione di questa nuova tendenza del linguaggio monumentale. Non casualmente il 27 gennaio 2012 − nel Giorno della Memoria − fece il suo trionfale ingresso in città il ricordo delle deportazioni. Nel cuore dell'architettura civile della Firenze rinascimentale, dentro la Galleria delle Carrozze del michelozziano Palazzo Medici Riccardi, voluto da Cosimo il Vecchio come residenza privata dei Medici, fu innalzata una lapide imponente, composta da sei pannelli di plexiglass estesi per nove metri quadrati. Su questa ampia superficie, inscritti fittamente, comparivano tutti i nominativi dei deportati e delle deportate dalla Toscana, ebrei e politici insieme, senza segni distintivi tranne un asterisco che evidenziava i pochi sopravvissuti tornati dalla prigionia (Fig. 1). Non si trattava (ancora) di una commemorazione specifica della Shoah, bensì di una sorta di tappa intermedia, che tuttavia segnò un momento importante nel dibattito cittadino.
Preceduta da una fase di dibattiti infuocati e polemiche memoriali non solo locali, questa lapide, contraddistinta da spirito unitario e realizzata con l'appoggio istituzionale di Provincia di Firenze, Comunità ebraica e aned, rappresentò un esempio positivo di conciliazione nella concorrenza fra vittime, la testimonianza di un dialogo riuscito tra associazioni e istituzioni in grado di vincere, almeno episodicamente, diffidenze e ritrosie.41
Solo un anno dopo tuttavia la memoria della Shoah cercò e trovò a Firenze un suo spazio specifico. Ma è estremamente significativo che questo avvenisse a ben settant'anni dai fatti, segnando con plastica evidenza la tempistica di una lunga e radicata rimozione. Nel 2013 dunque la stazione di Santa Maria Novella accolse un segno commemorativo forte della sola deportazione ebraica. Fu eretta infatti una scultura corredata di un'epigrafe alla sommità del binario 16, da dove il 9 novembre 1943 oltre trecento ebrei, catturati pochi giorni prima a Firenze e a Siena, erano partiti per Auschwitz.
Nella strategia delle forze tedesche la cattura e la deportazione degli ebrei che si trovavano in Italia era di pertinenza di Judenreferenten (consiglieri per la questione ebraica) appartenenti al Reichssicherheitshauptamt-rsha (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich), dipendenti dall'ufficio berlinese IV B4 diretto da Adolf Eichmann. A rappresentare la rsha in Italia, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 fu inviato il giovane dottore in giurisprudenza Wilhelm Harster, Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD (BdS − capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza), il cui comando fu installato a Verona con il compito di coordinare le politiche contro gli ebrei e contro i nemici del Reich, attraverso «la vasta rete di comandi» da lui dipendenti sul territorio nazionale.42
La persecuzione antiebraica in un primo tempo fu affidata a un'unità mobile, lo Judenkommando comandata da Theodor Dannecker, professionista esperto di persecuzioni, che restò in carica fino all'entrata in scena di Friedrich Bosshammer, responsabile dell'Ufficio IV 4B dal gennaio 1944.43 Il teatro del primo grande rastrellamento, il 16 ottobre 1943, fu Roma. In realtà come è emerso di recente i comandi nazisti, pianificando di spazzare la penisola da sud a nord, avevano intenzione di procedere cominciando dal lembo estremo del territorio da loro occupato, vale a dire da Napoli. Ma la prevista retata campana fallì, a causa del ritirarsi dell'esercito tedesco dall'Italia meridionale, e grazie anche alla rivolta napoletana delle "Quattro giornate" (27 settembre - 1° ottobre 1943) che accelerò la partenza delle truppe.44 A Roma il referente operativo del grande rastrellamento del 16 ottobre 1943 fu Dannecker, ma in realtà la preparazione della razzia − accurata e laboriosa − fu il frutto della collaborazione fra nazisti e autorità italiane che fornirono elenchi e indirizzi degli ebrei romani da arrestare. Proseguendo la sua marcia, dopo Roma, lo Judenkommando di Dannecker tra il 5 e il 6 novembre colpì Siena, Firenze e Montecatini. Infine varcò l'Appennino e fu a Bologna nei giorni immediatamente successivi; e poi a Genova, nella Riviera di Ponente, a Torino e a Milano.45
A Firenze all'alba del 6 novembre ci fu la prima razzia: i tedeschi coadiuvati da fascisti italiani irruppero nella Sinagoga di via Farini catturando soprattutto ebrei stranieri profughi che avevano trovato rifugio nei locali del Tempio. Altri obiettivi furono poi le istituzioni di beneficenza della comunità dislocate in città, anch'esse gremite di profughi; e infine le case stesse degli ebrei fiorentini. Difficile stabilire numero e identità di questi arrestati, sia a causa della mancanza della Transportliste relativa al loro convoglio, sia a causa dell'alta percentuale di ebrei stranieri clandestini catturati, difficilmente identificabili. Non si sono dunque potuti determinare né il numero esatto né l'identità dei deportati e ci si è affidati a stime provenienti per lo più dalla memorialistica o dai testimoni del tempo. Dalla valutazione di più fonti memorialistiche ho stimato che le vittime di questa prima razzia fossero circa duecento; di molti di loro, soprattutto stranieri, forse un centinaio, non è rimasto neppure il nome.46
Tra gli ebrei italiani molti non si trovavano più nelle loro case, avvisati del pericolo dal rabbino Nathan Cassuto. Tra coloro che non erano fuggiti Gilda Genazzani, una signora sessantacinquenne, povera e gravemente sorda, fu arrestata da soldati tedeschi e militi fascisti nella camera in cui viveva in subaffitto.47 Fu «caricata su un camion dove già si trovavano altri ebrei razziati, senza nulla comprendere di ciò che le stava capitando, vestita dei soli indumenti da casa, senza essere neppure adeguatamente coperta per i rigori della stagione invernale».48
In quello stesso 6 novembre con le stesse modalità − un'irruzione in casa − furono catturati i membri della famiglia Gallico: il padre, il professor Augusto, insegnante della scuola ebraica dopo il suo licenziamento da quella pubblica nel 1938, la madre Amelia Gallico e i due figli, il giovane Sergio, laureando in matematica, e Lucio Samuele di dieci anni, anche loro arrestati «da soldati tedeschi venuti con dei camion e guidati da elementi fascisti».49 Secondo la testimonianza di una nipote, il professor Gallico, che era stato un fervente fascista, era tornato in Italia da Tunisi nel 1938, proprio in tempo per essere cacciato dall'insegnamento; e anche dopo l'8 settembre non aveva voluto lasciare casa sua e nascondersi pur avvertito del pericolo, non credendo possibile che in Italia ci sarebbero stati arresti e razzie.50 Il figlio maggiore era entrato invece in contatto con la Resistenza e specificamente con una giovane socialista, Bianca Bianchi, che sarebbe poi stata una delle ventun donne dell'Assemblea Costituente.51
Il convoglio dei Gallico e di molti altri arrestati fu formato a Firenze e a Bologna il 9 novembre, e giunse ad Auschwitz cinque giorni dopo. La studiosa Liliana Picciotto identifica fra i deportati solo 83 persone, di cui otto erano bambini nati dopo il 1930 (quindi sotto i tredici anni) e trenta gli anziani (nati prima del 1884: persone di più di sessant'anni di età). «La più giovane si chiamava Lia Vitale, nata nel 1942; la più anziana Fanny Todesco, aveva 93 anni». Ci fu un solo sopravvissuto.52
Con puntuale tempismo il 9 novembre 2003, a settant'anni di distanza, nella ricorrenza di quella partenza del 9 novembre 1943, al binario 16 da dove quel treno era partito fu inaugurato un singolare monumento. Lo realizzò Nicola Rossini, uno studente bresciano dell'Accademia delle Belle Arti di Firenze, vincitore di un concorso promosso e finanziato dal Rotary Club con il contributo dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze e il patrocinio delle amministrazioni locali. L'opera consiste in un pesante blocco di marmo giallo Sahara, proveniente da una cava al confine fra Israele ed Egitto, collocato su due binari troncati e corrosi, spaccato in quattro parti da un grosso chiodo di ferro arrugginito infisso verticalmente al centro (Figg. 2 e 3).53
Il monumento vuole forse esprimere drammaticamente gli effetti di un'immane e catastrofica violenza che ha squarciato la pietra senza tuttavia distruggerla. Appoggiata per terra, a ridosso del monumento, su una lastra di ferro si legge la seguente iscrizione:
Da questo binario partirono, in vagoni piombati, centinaia di uomini, donne, anziani e bambini ebrei verso le camere a gas e i forni crematori di Auschwitz. Un monumento non ci restituirà le loro vite innocenti, ma potrà aiutare a non dimenticare, nella speranza che tutto ciò non si verifichi mai più.
9 Novembre 1943 − 11 Cheshvan 5704
9 Novembre 2013 − 6 Kislev 5774
In una posizione di minor rilievo rispetto alla scultura, l'iscrizione non si presenta in caratteri capitali romani come si usa nelle epigrafi, bensì in un assai meno solenne stampatello minuscolo. Altrettanto poco "lapidario" è anche lo stile del dettato, che in quanto a sintassi e lessico tende a proporre una prosa pacata più che un registro aulico tradizionale, pur non sfuggendo alla retorica esortativa delle formule memoriali «non dimenticare» e «mai più».54 Ma il monumento e la lapide segnano in ogni caso una tappa importante: sono la prima espressione cittadina in cui viene commemorata fuori della Sinagoga la distruzione delle vite degli ebrei catturati in città. Molto significativo altresì che il monumento sia frutto di un'intesa larga, a ribadire una consolidata e ricca rete di relazioni esistente oggi fra minoranza ebraica e società circostante. Molti enti hanno infatti collaborato per realizzare quest'opera: l'Accademia delle Belle Arti, l'Associazione teatrale dei Teatri d'Imbarco, Grandi Stazioni spa, Rete ferroviaria italiana, Soprintendenza ai beni architettonici per la provincia di Firenze, Pistoia e Prato, e infine la stessa Comunità di Firenze. Tutto aveva avuto inizio nel novembre 2010 da una rappresentazione teatrale, Amore, tradimenti e...Woody Allen, tenutasi al Teatro della Pergola, interpretata da attori non professionisti e soci rotariani, in cui si raccolsero i fondi da destinare a un monumento in memoria dei deportati ebrei.55
4. Lapidi intelligenti?
Fino al 2020, nessuna epigrafe comparve in città nei luoghi cruciali in cui erano avvenuti arresti, razzie e detenzioni: né nelle carceri, né nei diversi conventi in cui gli ebrei si erano rifugiati e da cui furono invece trascinati via con la violenza. Merita qui una menzione l'episodio più notevole di una seconda razzia avvenuta nel terribile autunno fiorentino del 1943.56 Il pomeriggio del 26 novembre nella centralissima via de' Pucci, all'interno della sede dell'Azione Cattolica, furono arrestati quasi tutti i membri del Comitato ebraico-cristiano lì riunito, che si era costituito clandestinamente per fornire aiuti ai perseguitati; tra loro anche il rabbino Nathan Cassuto. Un giovane torinese presente alla riunione come segretario di un profugo, dopo la cattura fece immediatamente la spia e rivelò alle autorità nazifasciste l'ubicazione di diversi conventi dove gli ebrei erano rifugiati. Sfruttando l'elemento sorpresa, nella stessa notte tra il venerdì 26 e il sabato 27 novembre, partì l'assalto agli istituti religiosi, guidato da reparti tedeschi coadiuvati dai militi fascisti del "Reparto Servizi Speciali" della Milizia capeggiato da Mario Carità.57
Tra i conventi assaltati, ci fu l'Istituto delle Suore Francescane Missionarie di Maria in piazza del Carmine, dove erano alloggiate almeno cinquanta persone: tra queste anche donne ebree di nazionalità italiana e straniera, alcune con bambini piccoli, giunte al convento intorno al mese di ottobre 1943, lì indirizzate dal Comitato di soccorso che operava in città.58 Questa razzia fu uno degli episodi più feroci delle persecuzioni antiebraiche locali, sia per la presenza di tanti bambini e donne inermi, sia per l'anomala durata della loro detenzione all'interno stesso del convento e per la violenza che i militi fascisti ebbero modo di esercitare su queste donne, in una situazione resa inconsueta dal contatto prolungato con le vittime. Quella prigionia si protrasse infatti per ben quattro giorni, dal 27 fino alla sera di martedì 30 novembre, quando fra lacrime e disperazione avvenne la partenza e queste donne con i loro bambini furono stipate in un grosso camion che le portò a Verona; da lì partirono il 6 dicembre 1943 per Auschwitz dove giunsero cinque giorni dopo. Nessuna di loro tornò indietro.59
Non una lapide ricorda le venticinque vittime di questo tragico episodio, ma in compenso il 19 novembre 2014 è stata invece affissa all'interno dell'istituto religioso una targa in riconoscimento del valore e del coraggio delle suore. La targa è stata voluta non da istituzioni locali, ma dalla Fondazione Wallenberg, ong fondata dall'argentino Baruch Tenembaum, erede di ebrei russi sfuggiti ai pogrom del 1880 e dedicata a Raoul Wallenberg, diplomatico svedese che dopo aver salvato molti ebrei in Ungheria, fu catturato dai sovietici e scomparve in un gulag.60 Molto simile al gariwo italiano, questa istituzione, che ha sede a New York e in altre capitali, annovera fra i suoi membri ben oltre trecento capi di Stato, premi Nobel, personalità di diverse nazionalità e religioni, tra cui Jorge Mario Bergoglio fin dai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires.61 Lo scopo che la anima è promuovere «valori di solidarietà e coraggio civile, capisaldi etici dei soccorritori durante l'Olocausto [...] per la prevenzione di tutti i genocidi e l'educazione delle giovani generazioni».62 Uno dei recenti impegni della Fondazione è stato il programma "Case della Vita": «individuare e riconoscere edifici che, in Europa, servirono come rifugio per le vittime del nazismo e di altre persecuzioni».63
All'interno di questo programma si colloca la targa, unicamente in lingua inglese, affissa al convento del Carmine (Fig. 4):
HOUSE OF LIFE
HOUSES OF LIFE A project by the International Raoul Wallenberg Foundation
THIS BUILDING SERVED AS SHELTER TO INNOCENT PEOPLE
WHO WERE PERSECUTED BY THE NAZIS.
THE INTERNATIONAL RAOUL WALLENBERG FOUNDATION
IS PROUD TO DECLARE THIS SITE AS A HOUSE OF LIFE,
IN TRIBUTE TO THE RESCUERS WHO UPHELD
THE VALUES OF SOLIDARITY AND CIVIC COURAGE,
IN ACCORDANCE WITH THE LEGACY OF RAOUL WALLENBERG
THE INTERNATIONAL RAOUL WALLENBERG FOUNDATION.64
Se encomiabili e politicamente assai rilevanti furono le iniziative della Chiesa fiorentina per salvare gli ebrei, e instancabile la capacità dei suoi membri di collaborare con organizzazioni ebraiche internazionali e locali, e se le suore del convento del Carmine e la loro superiora suor Sandra (Ester Busnelli), secondo tutte le testimonianze coeve, furono pronte e coraggiose nel cercare di proteggere le loro ospiti, tuttavia un segno commemorativo come questa epigrafe lascia perplessi sia per la mancata focalizzazione sulle vittime, che vengono ricordate soltanto come «innocent people persecuted by the Nazis», sia per la dicitura "House of Life", quando invece da quel rifugio tutte quelle donne che partirono coi loro bambini andarono a morire. Quella del Carmine, al di là dell'encomiabile comportamento delle suore, non fu una storia a lieto fine, e se l'unica targa finora comparsa relativa a questa drammatica vicenda non ne tiene alcun conto, quel che risalta è proprio questo vuoto: la rimozione delle sofferenze patite allora dalle vittime dentro il convento e l'oblio di quelle morti e l'oscuramento di ogni responsabilità politica ed etica della razzia.
La Fondazione Wallenberg d'altro canto dichiara di avere «come scopo quello di sviluppare programmi educativi e campagne di sensibilizzazione basati sui valori della solidarietà e del coraggio civico che animarono chi salvò tante persone dall'Olocausto».65 Lo stile commemorativo si incentra dunque sui salvatori e sui valori che li animarono, rinunciando a ogni storicità, tralasciando ogni evidenza dei fatti, e senza considerazione alcuna per le dinamiche intercorse fra istituzioni, carnefici, vittime, società. Si commemorano l'etica della «solidarietà» e del «coraggio civico» nei luoghi in cui si manifestarono. In conseguenza di questa impostazione le iscrizioni sulle lapidi di «House of Life» sono ovunque del tutto identiche. A Firenze anche il Convento delle Serve di Maria in via Faentina è stato beneficiato del titolo di "House of Life" il 13 gennaio 2016, a ricordo delle monache che nascosero e salvarono dodici bambine ebree durante la guerra.66
5. Pietre d'inciampo
A parte il sopracitato monumento alla stazione di Santa Maria Novella del 2013, nessun altro luogo in città in cui gli ebrei erano stati arrestati, torturati, privati dei loro beni aveva depositato in epigrafe questa memoria. Di questa topografia del terrore, che soggiace come un palinsesto inquietante negli itinerari consueti, non era rimasto niente. I ritardi e le resistenze a esporre alla vista di tutti le tracce del genocidio antiebraico sono stati originati da molte cause: convenienze politiche, quote di beata ignoranza del passato, ma anche strategie della memoria pigre e interessate soltanto a celebrazioni di visibilità estemporanea ed effimera, in cui ci si contentava di compatire ed esecrare. In ogni caso anche se con un certo ritardo rispetto ad altre città italiane, dal 2020 le cose sono radicalmente cambiate: sono arrivate anche a Firenze le "pietre d'inciampo".
Concettualmente innovativi per assenza di monumentalità retorica e centripeta, e viceversa efficaci per concreta e capillare visibilità, gli Stolpersteine dell'artista tedesco Gunter Demnig commemorano le singole persone o i gruppi familiari vittime del nazismo fra il 1933 e il 1945 con semplici sampietrini che si incastrano dentro il selciato.67 Sul lato esterno sono ricoperti da una lamina lucida di ottone di 10 centimetri per 10 su cui l'artista incide i nomi delle vittime e, ben visibili al passante che si soffermi, poche altre informazioni essenziali. La scritta «qui abitava» scolpita nell'ottone è seguita da nome e cognome del deportato, data di nascita e, se conosciute, data e luogo della deportazione e della morte. Gli Stolpersteine rappresentano una sorta di «antimonumento»68 o monumento «per difetto» diffuso ormai su scala europea.
In polemica con la concorrenza fra vittime, ricordano tutti i perseguitati dal nazifascismo indipendentemente dalla loro appartenenza: deportati razziali, deportati politici, disabili, militari prigionieri del Reich, Rom e Sinti, Testimoni di Geova, omosessuali. Di solito vengono posizionati sul marciapiede prospicente la casa della vittima a segnalare la normalità di un'esistenza che in un luogo e in un momento precisi fu travolta dalla violenza di un regime politico. La collocazione rende materialmente percepibile la dimensione quotidiana di quelle esistenze: persone concrete ben inserite nel loro contesto sociale prima di diventare delle vittime. Emerge anche l'idea più generale di una comunità spezzata da una violazione, rievocata e simbolicamente "riparata" da questa sorta di ritorno a casa:69
Sono interrate, non emergono e non ingombrano, derogando al primo requisito del monumento, la verticalità. Sono praticamente invisibili se non a distanza ravvicinata. [...] Eppure, una volta installate, diventano parte integrante della città, del territorio, della sua toponomastica. Discrete ma radicate: questo le rende così perturbanti, spesso così intollerabili da essere profanate e imbrattate.70
Senza essere invadenti le pietre d'inciampo nella loro discrezione, «costituiscono una mappa della memoria» potente, potenzialmente capace di penetrare in ogni quartiere: un «memoriale antigerarchico e democratico»71 che evoca plasticamente l'irruzione di una violenza diffusa in ogni settore della società, tipica del sistema totalitario nazista. Un merito degli Stolpersteine è che per esistere necessitano della ricerca storica, la stimolano e la rendono comprensibile e tangibile attraverso la serialità di nomi, date e fatti veri rievocati. Fanno luce sui destini individuali e possono invitare anche alla conoscenza delle ragioni per cui quei destini furono travolti; dovrebbero servire insomma a porsi delle domande sul passato. La loro diffusione su scala europea ne ha fatto il più grande memoriale del mondo: nel gennaio 2022 più di 90 mila pietre d'inciampo risultavano posate in tutta Europa, a partire dai primi anni Novanta.72
La procedura per la posa degli Stolpersteine non prevede un committente privilegiato: enti, singoli o famiglie hanno uguale diritto ad avanzare la richiesta al comune, che da parte sua concede il permesso d'uso del suolo pubblico e si incarica della manutenzione e dell'incolumità delle pietre. Il costo dell'opera non è certo elevato (tra i 120 e i 130 euro) ed è a carico del committente. Molto spesso la richiesta parte dalle famiglie stesse delle vittime per cui
in assenza di una tomba, le pietre diventano l'unico luogo dove ricordare i propri cari, finiti in cenere o in fosse comuni. [...] Per questo, la posa delle pietre è per le famiglie un atto solenne e rituale, una vera cerimonia, [per gli ebrei] spesso accompagnata da un kaddish, la preghiera per i defunti.73
Il selciato in cui sono infisse le pietre d'inciampo diventa in qualche modo per tutti, parenti e concittadini, un luogo di memoria. L'artista Demnig è parte integrante di questo processo decisionale: accetta l'incarico, prende accordi sulla tempistica, fornisce alla committenza dettagli e delucidazioni per la realizzazione delle pietre che valgono per tutti gli esemplari da lui prodotti. Infine lui stesso le installa nel selciato. In altre parole «la committenza è privata ma la destinazione è pubblica: la municipalità assume la responsabilità della memoria dei suoi cittadini caduti».74 Durante l'installazione, contemporaneamente all'artista Demnig che lavora per collocare i memoriosi sampietrini, si tengono interventi di rappresentanti del comune e della comunità ebraica, e commosse rievocazioni dei familiari. Anche la posa ha un suo stile, volutamente sobrio e informale ma carico di una ritualità che evoca le celebrazioni funebri. Si svolge alla presenza di un pubblico mai troppo numeroso, costretto a stare in piedi e all'aperto attorno all'artista inginocchiato, che con guantoni, cazzuola e cemento incastona gli Stolpersteine nel selciato; anche la sua postura, peraltro necessaria alla collocazione dell'opera, consapevolmente intende significare un simbolico rispetto per le vittime.75
Nel territorio fiorentino le prime due pietre furono posate solo nel gennaio 2018, e non in città, ma in un paese della provincia, San Casciano Val di Pesa, a ricordare i due ebrei lì catturati e morti ad Auschwitz: Paolo Sternfeld (1888-1944) e Giacomo Modigliani (1891-1944). I due erano cognati, sfollati in Val di Pesa con le famiglie per sfuggire ai bombardamenti. Furono arrestati da fascisti italiani della Repubblica Sociale la domenica mattina del 17 ottobre 1943.76
Malgrado i costi contenuti, la facilità tecnica delle installazioni e una storiografia affidabile, fino al 2020 nemmeno uno Stolperstein era arrivato a Firenze, proprio laddove le persecuzioni antiebraiche erano state particolarmente efferate e alto il numero dei deportati. Tanto più notevole invece che nella vicina Prato le pietre d'inciampo, posate tra il 2013 e il 2014, fossero già una quarantina: una sola, in memoria dell'unico ebreo lì arrestato, e tutte le altre dedicate ai numerosi deportati politici catturati in seguito agli scioperi del marzo 1944.77 Evidentemente nel caso pratese, una compattezza istituzionale maggiore, la consapevolezza diffusa nella comunità locale che le deportazioni del 1944 furono una violenza collettivamente esecrata, e soprattutto il lavoro storico del Museo della Deportazione avevano reso più agevole l'adesione al progetto dell'artista tedesco.
Dopo molte sollecitazioni, nel 2019 infine anche a Firenze fu avviato il progetto degli Stolpersteine, appoggiato con convinzione dall'allora presidente della Comunità ebraica, Daniela Misul, che recepì le richieste di molte famiglie.78 L'assessore alla toponomastica del Comune di Firenze a sua volta accolse con favore la proposta e presi accordi con l'artista, nel gennaio 2020 si posarono in città le prime ventiquattro pietre d'inciampo.79 Nel frattempo altre richieste via via arrivarono: per il gennaio 2021 fu prevista la posa (poi procrastinata a causa della pandemia) di venticinque pietre: una in ricordo del rabbino Nathan Cassuto, e altre ventiquattro per le persone deportate dall'Ospizio Israelitico, da collocarsi tutte insieme laddove nel 1944 l'istituto sorgeva, in un villino nel viale Duca di Genova 6, oggi viale Giovanni Amendola (Figg. 5, 6, 7).80 Nel 2022 altri Stolpersteine si sono aggiunti, non più solo di ebrei ma anche di deportati politici.81
Delle pietre d'inciampo messe a Firenze nel 2020, sei furono dedicate a gruppi famiglia e due a persone singole. Una delle vicende rievocate ha riguardato la fine tragica di tre nuclei familiari ebraici rifugiati in città, arrestati da squadristi del "Reparto Servizi Speciali" di Firenze della rsi, comunemente noto come "banda" Carità per l'uso abituale di mezzi criminali − torture, intimidazioni, estorsioni − contro i nemici del fascismo repubblicano.82 La formazione era stata fondata da Mario Carità (1904-1945), già squadrista a Milano, a Firenze dal 1936, poi volontario in Albania e infine subito dopo l'8 settembre fondatore del Reparto speciale. Dotata di una rete di efficienti delatori, la "banda" era specializzata nel contrasto alla Resistenza ma si dedicò con accanimento, soprattutto a scopo estorsivo, anche ad arrestare gli ebrei.
Questi ultimi erano spesso poco adatti alle irregolarità della vita clandestina, talvolta resi maldestri e fragili dalla stessa difficoltà a misurarsi con una città dove le relazioni sociali erano state così stravolte. D'altronde dissimularsi tra sinistrati e sfollati, cambiare spesso rifugi e percorsi, trovare i contatti giusti non era per niente semplice, senza tessere annonarie, spesso senza soldi sufficienti, senza notizie dei propri cari, magari con vecchi e bambini a carico, e soprattutto in una città infestata da spie. Anche nel caso in questione, ci fu all'origine la delazione di due donne, informatrici legate sentimentalmente a due membri del reparto di Carità, uno dei quali, Natale Cardini era «devotissimo sicario del capitano Alberti»,83 comandante del Sicherheitsdienst.84
La prima cattura, a opera di Cardini e sodali, scattò la sera del 6 febbraio 1944 per il nucleo familiare degli Orvieto, che rifugiati a Firenze da Gorizia erano privi di carte annonarie e avevano vissuto con quanto potevano procurarsi alla borsa nera. Erano stati costretti a intrattenere rapporti pericolosi: con i fornitori di generi di primo consumo e anche con chi affittava loro gli alloggi. Dopo l'8 settembre avevano cambiato domicilio tre volte, e proprio in queste peregrinazioni erano stati notati dalle due spie, per un periodo loro vicine di casa. Le stesse reti di rapporti informali di vicinato, se talvolta significarono la salvezza, in altri casi invece si rovesciarono di segno portando alla rovina gli ebrei ricercati. Fu così che Elena Pescucci, pigionante nella stessa casa di via Ghibellina che per un periodo era servita agli Orvieto da rifugio, frequentandoli assiduamente riuscì a carpire la loro fiducia, mirando soprattutto a conoscere − cosa che le riuscì in breve e compiutamente − dove e a chi gli Orvieto avessero affidato in deposito i loro beni. E un'altra vicina di casa, Maria Lelli, fece giungere le informazioni a Cardini, che il giorno stesso dell'arresto iniziò la scrupolosa ricerca dei beni degli Orvieto disseminati in città e li razziò via via presso tutti i differenti affittuari che li avevano custoditi.85
Ma gli arresti non si fermarono. La mattina dopo la cattura degli Orvieto anche il rabbino capo di Modena Rodolfo Levi fu preso, proprio mentre del tutto ignaro dell'accaduto, stava suonando alla porta del suo coetaneo e amico Arturo Adolfo Orvieto con cui era solito incontrarsi. Rodolfo Levi con la moglie Rina Procaccia, la loro figlia Noemi Levi e la famiglia della cognata − i Sinigaglia, con la loro figlioletta − avevano trovato rifugio in via del Gelsomino, in zona Due Strade, presso la famiglia Morandi. Proprio lì il rabbino Levi fu costretto a condurre i suoi arrestatori e furono catturati tutti. Alda Sinigaglia aveva compiuto da pochi giorni undici anni. Nessuna delle dieci persone di queste tre famiglie tornò indietro. Nel frattempo i loro beni a Firenze furono depredati fino all'ultima valigia.86 Angelo Sinigaglia, che di mestiere faceva l'infermiere, proveniva da un'intera famiglia di fascisti ferventi. Lui stesso era iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1921. Inoltre Duilio Sinigaglia, caduto a Modena fucilato in tumulti di strada dalla Guardia Regia il 26 settembre 1921, e poi consacrato "martire" della causa fascista, era suo fratello.87
Dal gennaio 2020 davanti alla casa di via del Gelsomino al n. 29 ci sono sei pietre d'inciampo volute da Giulio Pacifici, nipote per parte materna del rabbino Rodolfo Levi, e dedicate ai suoi nonni, alla loro figlia e ai parenti − Angelo, Amelia e Alda Sinigaglia − che insieme lì avevano trovato rifugio e insieme erano stati catturati. Altre indagini condotte da Pacifici non solo hanno confermato le informazioni già emerse nella ricerca precedente, ma hanno raggiunto un membro della famiglia Morandi, la cui nonna, pigionante dei Levi e dei Sinigaglia, raccontava sempre in famiglia quanto rapidi e brutali fossero stati l'irruzione e l'arresto in via del Gelsomino: «arrivarono e li buttarono fuori senza far loro prendere niente, e poi li portarono alle Murate» (Fig. 8).88 Per la terza famiglia distrutta, gli Orvieto amici dei Levi, arrestati in quattro, non ci sono state almeno per ora pietre d'inciampo, dato che avevano peregrinato altrove.
Al di là del segno artistico essenziale che rende sobriamente presenti le vittime nel nostro spazio urbano, se c'è un limite nel minimalismo e nella demonumentalizzazione che le pietre d'inciampo rappresentano è proprio il rischio di costruire una memoria suggestiva ma frantumata, a partire dalla scelta della committenza familiare, parziale per eccellenza. La diffusione policentrica delle pietre d'inciampo nella topografia cittadina, se indubbiamente rende evidente la contaminazione capillare del tessuto urbano da parte del nazifascismo e le lacerazioni che le singole esistenze hanno subito nella loro quotidianità violata, dall'altra non ci dice niente di quel passato, del fascismo, del nazismo, niente delle dinamiche della violenza messe in atto da quei regimi, né dei contesti che le resero possibili. Al di là del compianto luttuoso per le vittime, le pietre d'inciampo in un certo senso sanciscono un dato di fatto: la rinuncia alla costruzione di una memoria pubblica, fondata su un'articolata cognizione del passato comune. A essere ottimisti c'è da augurarsi che inciampando nelle pietre di Demnig, muovendo dalla pietà per quelle singole vite spezzate di cui resta una traccia così piccola nel selciato delle nostre strade, dopo la compassione, si possa approdare a interrogarsi sul passato, a farlo fare in modo intelligente agli studenti,89 a voler capire «la disuguaglianza, l'oppressione, il terrore»90 dei totalitarismi del Novecento.
Ma non è detto che questa virtuosa sequenza funzioni sempre.
M. B.
Note
*Il saggio si ricollega a due articoli dell'autrice pubblicati nei numeri 11 (2017) e 12 (2018) di «Margini»: Le tavole del ricordo. Shoah e guerre nelle lapidi ebraiche a Firenze e dintorni: https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_11/saggi/articolo1/baiardi.html (I) e https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_12/saggi/articolo2/baiardi.html (II). Alcune parti riprendono e approfondiscono osservazioni proposte dall'autrice nel suo recente volume Le tavole del ricordo. Guerre e Shoah nelle lapidi ebraiche a Firenze (1919-2020), Roma, Viella, 2021 (Premio Anci-Sissco 2022).
1 P. Levi, Anniversario, in Id., Così fu Auschwitz, con L. De Benedetti, a cura di F. Levi e D. Scarpa, Torino, Einaudi, 2015, pp. 51-53, la cit. è a p. 51 (cfr. anche p. 216).
2 L'espressione fu usata dall'aned in occasione di un'inchiesta: Un mondo fuori dal mondo. Indagine Doxa fra i reduci dei campi nazisti, presentazione di P. Caleffi, Firenze, La Nuova Italia, 1971.
3 I. Calvino, Prefazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 1993 (1a ed. 1947), pp. v-xxv, la cit. è a p. vi.
4 P. Levi, Cromo, in Id., Il sistema periodico, in Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016, vol. i, pp. 968-77, la cit. è a p. 971.
5 Id., Il canto del corvo (I), in Id., Ad ora incerta, Milano, Garzanti, 2004, p. 16 (la poesia è datata 9 gennaio 1946).
6 E. Morante, La Storia. Romanzo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 376-77.
7 M. R. Marrus, L'Olocausto nella storia, trad. di E. J. Mannucci (The Holocaust in History, Waltham, USA, Brandeis University Press, 1987), Bologna, il Mulino, 1994, p. 175.
8 J. T. Gross, I carnefici della porta accanto. Il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, trad. di L. Vanni (Neighbors. The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland, Princeton, USA, 2001; I ed. polacca: Sasiedzi. Historia zaglady zydowskiego miasteczka, Sejny, Polonia, Pogranicze, 2000) Milano, Mondadori, 2002; Id., Un raccolto d'oro. Il saccheggio dei beni ebraici, trad. di L. Ryba (Zlote zniwa. Rzecz o tym, co sie dzialo na obrzezach zaglady Zydów, Kraków, Znak, 2011), Torino, Einaudi, 2016.
9 D. Diner, «Zivilisazionsbruch»: la frattura di civiltà come epistemologia della Shoah, in Storia della Shoah. La crisi dell'Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. i: La crisi dell'Europa e lo sterminio degli ebrei, a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E., Traverso, Torino, utet, 2005-2006, pp. 15-37, la cit. è a p. 15.
10 E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 10-11 e spec. il paragrafo «Segnalatori d'incendio»: intellettuali in esilio, pp. 31-35; specifici capitoli sono dedicati a Hannah Arendt, Günther Anders, Theodor W. Adorno, Paul Celan, Jean Améry e Primo Levi, Jean-Paul Sartre. L'espressione «segnalatore d'incendio» (v. ivi, nota 5 a pag. 41) è una citazione, pur non letterale, da W. Benjamin, Strada a senso unico, a cura di G. Schiavoni, trad. di B. Cetti Marinoni (Einbahnstrasse, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955 e 1972-1989), Torino Einaudi, 2006 (1a ed. it. Torino 1983), pp. 43-44.
11 Cfr. F. Neumann, Perché Behemoth, in Id., Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, a cura e traduzione di M. Baccianini, Introduzione di E. Collotti (The Structure and Practice of National Socialism, New York, Oxford University Press, 1942), Milano, Bruno Mondadori, 1999 (1a ed. it. 1977), p. 3: «Nell'escatologia ebraica [...] Behemoth e Leviathan designano due mostri. Poiché noi crediamo che il nazionalsocialismo sia − o tenda a divenire − un non-stato, un caos, un regno dell'illegalità e dell'anarchia che ha "soffocato" i diritti e la dignità dell'uomo e sta per trasformare il mondo in un caos [...], abbiamo ritenuto appropriato designare il sistema nazionalsocialista col nome di BEHEMOTH».
12 Furono circa 650.000 mila i soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943 e deportati nei campi di prigionia situati in Germania, Austria ed Europa Orientale. Il regime nazista non considerò i soldati italiani catturati come prigionieri di guerra, ma li classificò come "internati militari italiani" (imi), privandoli così delle tutele garantite ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra, sottraendoli alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligandoli al lavoro. L'obiettivo principale della politica del Reich dopo il 1941 fu di sfruttare la manodopera schiavile per incrementare la produzione bellica. Tra gli studi più recenti: G. Bassi, N. Labanca, F. Masina, Una straziante incertezza. Internati militari italiani fra guerra, morte e riconoscimenti da parte della Repubblica, Roma, Viella, 2022; N. Labanca, Prigionieri, internati, resistenti. Memorie dall'"altra Resistenza", Roma-Bari, Laterza, 2022; M. Avagliano, M. Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz'armi (1943-1945), Bologna, il Mulino, 2020; G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, 1943-1945, traduzione di E. Morandi (Zwangsarbeit für den "Verbündeten". Die Arbeits- und Lebensbedingungen der italienischen Militärinternierten in Deutschland 1943-1945, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2002), Bologna, il Mulino, 2004.
13 Tante braccia per il Reich! Il reclutamento di manodopera nell'Italia occupata 1943-1945 per l'economia di guerra della Germania nazionalsocialista, a cura di B. Mantelli, prefazione di G. Perona, nota di E. Orlanducci, 2 voll., Milano, Mursia, 2019 (per un'accurata disamina della situazione in Toscana: F. Cavarocchi, Firenze e la Toscana settentrionale. Dal difficile arruolamento autunnale alle razzie d'estate, ivi, vol. ii, pp. 1205-390).
14 Le vittime della Shoah in Italia identificate finora ammontano a 7579 persone (cdec − Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Statistica generale degli ebrei vittime della Shoah in Italia, 1943-1945: https://www.cdec.it/formazione/percorsi/per-la-storia-della-shoah/statistica-generale-degli-ebrei-vittime-della-shoah-in-italia-1943-1945/, agosto 2022). Gli internati militari furono circa 650 mila (cfr. infra, nota 12). I cittadini italiani, uomini e donne, utilizzati come manodopera bellica furono circa un milione e duecentomila (cfr. infra nota 13); cfr. anche anrp − Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall'Internamento, dalla Guerra di liberazione e loro familiari, Tante braccia per il Reich. Lavoratori italiani nella Germania nazista, 1938-1945, Mostra virtuale, a cura di B. Mantelli, S. Bergamasco, C. Boscarol, 2022: https://tantebracciaperilreich.eu/ (agosto 2022). Gli uomini e le donne deportati nei kz dall'Italia furono almeno 23.826 (22.204 uomini e 1.514 donne); per i loro nomi, i dati bio-bibliografici e lo studio dei contesti: Il libro dei Deportati, ricerca del Dipartimento di Storia dell'Università di Torino, diretta da B. Mantelli e N. Tranfaglia, promossa da aned − Associazione Nazionale Ex Deportati, 4 voll., Milano, Mursia, 2009-2015.
15 L. Beccaria Rolfi, Taccuini del Lager, in B. Maida, Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi, Torino, utet, 2008, p. 171.
16 Per i primi scritti della deportazione italiana, v. Una misura onesta, a cura di A. Bravo e D. Jalla, Milano, Angeli, 1994; Le parole e la memoria. La memorialistica della deportazione dall'Italia 1993-2007, a cura di G. Vaglio, con la collaborazione di N. Zito, Torino, ega, 2007; A. Chiappano, Memorialistica della deportazione e della Shoah, Milano, Unicopli, 2009; Shoah e deportazione. Guida bibliografica, a cura di E. Collotti e M. Baiardi, Roma, Carocci, 2011; M. Consonni, L'eclisse dell'antifascismo. Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, prefazione di A. Foa, Roma-Bari, Laterza, 2015.
17 B. Maida, Il mestiere della memoria. Storia dell'Associazione nazionale ex deportati politici, 1945-2010, Verona, Ombre corte, 2014 (cfr. in partic. i due capitoli iniziali, pp. 19-73).
18 A. Bravo e D. Jalla, Introduzione, in La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, a cura di Ead. e Id., pref. di P. Levi, Milano, Angeli, 1986, pp. 17-56; Ead. e Id., Introduzione, in Una misura onesta cit., pp 15-92; A. Rossi-Doria, Memoria e storia. Il caso della deportazione, pres. di P. Jedlowski, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 1998. Cfr. anche: Consiglio Regionale del Piemonte-Aned, Il ritorno dai lager, a cura di A. Cavaglion, introduzione di G. Quazza, Milano, Angeli, 1993; Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Cinquantennale della Repubblica e della Costituzione − Aned-Sezione di Roma-Biblioteca di Storia moderna e contemporanea, Un silenzio della storia. La liberazione dai campi e il ritorno dei deportati, a cura di C. Vighy, Roma, Sabbadini, 1997.
19 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 162.
20 P. Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, vol. ii: Memorie, rappresentazioni, eredità, a cura di M. Flores, S. Levis Sullam, M. A. Matard-Bonucci, E. Traverso, Torino, UTET, 2010, pp. 59-112, la cit. è a p. 71. Cfr. per i tratti analoghi, la situazione francese: A. Wieviorka, Déportation et génocide. Entre la mémoire et l'oubli, Paris, Fayard, 2003.
21 Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria cit., p. 77. Per il processo Eichmann e le sue importanti conseguenze: H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, traduzione di P. Bernardini (Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963), Milano, Feltrinelli, 1999 (1a ed. it. 1963); A. Wieviorka, L'era del testimone, traduzione di F. Sossi (L'ère du témoin, Paris, Plon, 1988), Milano, Cortina, 1999; D. Cesarani, Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale, traduzione di N. Lamberti (Eichmann. His Life, Crimes and Legacy, London, Heinemann, 2004), Milano, Mondadori, 2006; Id., Becoming Eichmann. Rethinking the Life, Crimes and Trial of a "Desk Murderer", Cambridge, Da Capo Press, 2006; After Eichmann. Collective Memory and the Holocaust since 1961, a cura di D. Cesarani, London, Routledge, 2005; I. Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, traduzione di P. Arlorio (Ha' Umah ve Ha' Mavet, Historia, Zikaron, Politika, Or Yehuda, Israele, Dvir, 2002), Torino, Einaudi, 2002; D. E. Lipstadt, Il processo Eichmann, traduzione di M. L. Chiesara (The Eichmann Trial, New York, Random House, 2011), Torino, Einaudi, 2014. Cfr. inoltre: i saggi contenuti in Der Prozess − Adolf Eichmann vor Gericht / Facing Justice − Adolf Eichmann on Trial. Katalog zur Ausstellung / Catalogue to the Exhibition, hrsg. B. Scherer, Berlin, Gedenk- und Bildungsstätte Haus der Wannsee-Konferenz, Stiftung Topographie des Terrors und Stiftung Denkmal für die ermordeten Juden Europas, 2011. Questa mostra berlinese ha avuto a Firenze, nel gennaio 2012, l'unica edizione italiana, arricchita da una nuova sezione sulla ricezione del processo Eichmann nella stampa italiana, curata da Valeria Galimi: http://www.museodelladeportazione.it/2018/04/20/mostra-il-processo-adolf-eichmann-a-giudizio/ (agosto 2022); tematica ripresa in V. Galimi, Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e le persecuzioni contro gli ebrei, Firenze, Le Monnier, 2018 (in partic. nel cap. 4, Il processo Eichmann in Italia. Ricezioni e reazioni, pp. 89-111). Cfr. anche: P. Levi, Deposizione per il processo Eichmann, in Id., Così fu Auschwitz cit., pp. 66-68 e pp. 219-21; Id., Testimonianza per Eichmann, ivi, pp. 69-74 e pp. 221-22.
22 Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria cit., p. 77.
23 Ibid.
24 M. Flores - V. Galimi, La Shoah in tribunale. Giustizia postbellica e memoria delle persecuzioni, in Storia della Shoah in Italia cit., vol. i: Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio, pp. 37-56, la cit. è a p. 50.
25 E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, il Mulino, 2002, p. 180.
26 Diner, «Zivilisazionsbruch» cit., p. 15.
27 Ivi, p. 19.
28 E. Traverso, Introduzione, ivi, pp. 3-13, la cit. è a p. 4.
29 Per una descrizione più approfondita di questo processo, si fa riferimento a: M. Baiardi, Le tavole del ricordo. Shoah e guerre nelle lapidi ebraiche a Firenze e dintorni. Parte II, in «Margini. Giornale della dedica e altro», 2018, 12 (in partic. § 1. La parabola ascendente della Shoah nello spazio pubblico, https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_12/saggi/articolo2/baiardi.html).
30 Traverso, La violenza nazista cit., p. 22; Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 160; R. S. C. Gordon, Scolpitelo nei cuori. L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Torino, Bollati Boringhieri, 2013.
31 V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Milano, Mondadori, 2012; Ead., I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Milano, Bompiani, 2020; Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, a cura di F. Recchia Luciani − C. Vercelli, Genova, il Nuovo Melangolo, 2016.
32 Tra le più significative organizzazioni internazionali c'è la itf (Task Force for the International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research), nata nel 1998 su impulso del primo ministro svedese Göran Persson, per promuovere formazione, memoria e ricerca sull'Olocausto. A essa aderirono rappresentanti di governi, organizzazioni governative e non. Yehuda Bauer, ex direttore dell'Istituto di ricerca di Yad Vashem di Gerusalemme, è stato consulente scientifico della itf. Nel 2007 l'itf ha ampliato il suo mandato includendo il genocidio di Sinti e Rom e altre tematiche: la lotta all'antisemitismo e la prevenzione dei genocidi. Si chiama attualmente ihra (International Holocaust Remembrance Alliance) e comprende trentacinque paesi membri: https://www.holocaustremembrance.com/about-us/our-structure (agosto 2022). Per Yehuda Bauer «founding father» dell'ihra: cfr. D. Porat and M. Weitzman, Yehuda Bauer and the International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), in «The Journal of Holocaust Research», 36, 2022, 1, pp. 24-29: https://www.tandfonline.com/doi/epdf/10.1080/25785648.2021.2020473?needAccess=true&role=button (agosto 2022).
33 Articolo 2 della Risoluzione onu, 1° novembre 2005, https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N05/487/96/PDF/N0548796.pdf?OpenElement (agosto 2022), cit. in Pisanty, I guardiani della memoria cit., p. 12.
34 Per la questione dell'Holocaust fatigue, effetto di saturazione prodotto da una sovraesposizione ai temi dell'Olocausto, ivi, p. 122, nota 16.
35 P. Levi, Prefazione, in Id., La vita offesa cit., pp. 7-9, la cit. è a p. 7.
36 A. Cavaglion, Sopra alcuni contestati giudizi, in Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei dopo la seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Firenze, Giuntina, 1998, pp. 151-65, la cit. è a p. 154. Per l'impegno istituzionale su queste tematiche, cfr. almeno i convegni che aprirono la stagione di questi studi: Camera dei Deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del convegno nel cinquantenario delle leggi razziali (Roma, 17-18 ottobre 1988), Roma, Camera dei Deputati, 1989; Senato della Repubblica, L'abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943-1987), introduzione di G. Spadolini, Roma, Senato della Repubblica, 1989. Per un bilancio sulla storiografia: Y. Bauer, Ripensare l'Olocausto. Una sintesi illuminante di tutta la storiografia della Shoah, traduzione di G. Balestrino (Rethinking the Holocaust, New Haven and London, Yale University Press, 2001), Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009; E. Collotti, La storiografia sulla Shoah, in Sterminio e stermini. Shoah e violenze di massa nel Novecento, a cura di D. D'Andrea e R. Badii, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 65-91; M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in Storia della Shoah cit., vol. ii, pp. 81-123; M. Sarfatti, Hanno fatto tutto i tedeschi? La Shoah italiana nella storiografia internazionale, 1946-1986, in Dopo i testimoni. Memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale, a cura di M. Baiardi e A. Cavaglion, Roma, Viella, 2014, pp. 71-82.
37 Su questo tema, cfr. la recente riflessione di G. Schwarz, Il 27 gennaio e le aporie della memoria, in «Italia contemporanea», xii, 2021, 296, pp. 100-23.
38 Tra i principali testi critici sul tema della memoria europea: R. Robin, La mémoire saturée, Paris, Stock, 2003 (in partic. l'intera Seconda Parte: Une mémoire menacée: la Shoah. Représenter, figurer la Shoah, pp. 219-375, e il cap. 4, Mémoire prothèse ou mémoire critique?, pp. 337-75); Ead., Luoghi della memoria, luoghi del lutto: istituzioni e commemorazioni, in Storia della Shoah cit., vol. ii, pp. 249-78; O. Bartov, La memoria della Shoah: la questione del nemico e della vittima, ivi, pp. 15-78. Per una sintetica e circostanziata disamina dell'«eccesso compensativo di memoria» nell'Europa attuale: T. Judt, Epilogo. Dalla casa dei morti. Un saggio sulla memoria dell'Europa moderna, in Id., Postwar. La nostra storia 1945-2005, trad. di A. Piccato (Postwar. A History of Europe Since 1945, New York, The Penguin Press, 2005), Roma-Bari, Laterza, 2017 (1a ed. it. Milano, 2007), pp. 989-1023, la cit. è a p. 1021; E. Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Milano, Feltrinelli, 2012 (in partic. il cap. VIII, Le memorie dell'Europa. La fine del "principio speranza", pp. 168-88). Per una panoramica continentale degli assetti memoriali post 1989: L'Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, a cura di F. Focardi e B. Groppo, Roma, Viella, 2013; G. Bensoussan, L'histoire confisquée de la destruction des Juifs d'Europe. Usages d'une tragédie, Paris, puf, 2016. Per le strumentalizzazioni della memoria storica e il conflitto fra memoria e storia: Pisanty, I guardiani della memoria cit. (in partic. pp. 39-48 e l'intero cap. 2, Il discorso della storia, pp. 49-56). Sui "luoghi di memoria": P. Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Milano, Bompiani, 2014.
39 L. Febvre, Vers une autre histoire, in «Revue Métaphysique et de morale», liv, 1949, 3/4, pp. 225-47, cit. in J. Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia Einaudi, Divino-Fame, vol. v, Torino, Einaudi, 1978, pp. 38-43, la cit. è a p. 43.
40 E. Collotti, Introduzione, in Id. (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), vol. i: Saggi, Roma, Carocci, 2007, pp. 10-41, la cit. è a p. 28. Per la depredazione dei beni ebraici a livello nazionale, cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Rapporto generale, a cura della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività d'acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2001.
41 J. M. Chaumont, La concurrence des victimes. Génocide, identité, reconnaissance, Paris, La Découverte, 1997. Per i contrasti che hanno preceduto la lapide dei "Nomi della deportazione toscana" cfr. M. Baiardi, Le tavole del ricordo. Guerre e Shoah nelle lapidi ebraiche a Firenze (1919-2020), Roma, Viella, 2021, pp. 244-48.
42 C. Saletti, Introduzione, in I signori del terrore. Polizia nazista e persecuzione antiebraica in Italia (1943-1945), a cura di S. Berger, Caselle di Sommacampagna (Verona), Cierre, 2016, pp. 11-17, la cit. è a p. 12. Come emerge dagli studi presenti in questo volume, Harster e gli altri esponenti nazisti che operarono a Verona − giovani, colti, fortemente partecipi della Weltanschauung e delle politiche naziste − appartenevano a «un'élite altamente competente e motivata, percorsa da tensioni utopiche e omicide», ivi, p. 14.
43 S. Berger, Il BdS, l'ufficio IV B4 e la persecuzione degli ebrei, ivi, pp. 93-118; cfr. L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall'Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 2002 (1a ed. 1991), pp. 858-66; L. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia (1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993 (in partic. pp. 84-93 e 399-411); A. Minerbi, Le carte del processo Bosshammer, in Enzo Collotti e l'Europa del Novecento, a cura di S. Soldani, Firenze, University Press, 2011, pp. 121-32. Cfr. P. Levi, Deposizione per il processo Bosshammer, in Id., Così fu Auschwitz cit., pp. 102-9 e pp. 226-27.
44 L. Picciotto, The Decision-Making Process of the Roundup of the Jews of Rome (October 1943). A Historiographic Revisitation Based on OSS (Office of Strategic Services) Documents, in «Yad Vashem Studies», 48, 2020, pp. 137-72 (per la mancata razzia a Napoli, p. 156; per un'esauriente e recente bibliografia sulla retata romana cfr. ivi, p. 137, nota 1).
45 Picciotto, Il libro della memoria cit., pp. 884-85.
46 Per la valutazione del numero delle vittime della razzia fiorentina del 6 novembre 1943 v. M. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze: razzie, arresti, delazioni, in Ebrei in Toscana cit., vol. i, pp. 45-140, in partic. p. 55. Per informazioni anagrafiche dei deportati, cfr. il sito cdec-Digital Library (ad nomen).
47 Gilda Genazzani, figlia di Amedeo e Elvira Procaccia, era nata a Lucca il 6 settembre 1878. Fu deportata da Firenze ad Auschwitz il 9 novembre 1943 (cdec-Digital Library: http://digital-library.cdec.it/cdec-web/persone/detail/person-3078/genazzani-gilda.html, agosto 2022).
48 Archivio Comunità Ebraica di Firenze (da qui: acefi), b. D. 14.1, fasc. 103, "Esposto di Enrico Cammeo e di Emma Genazzani, oggetto: Scomparsa per ratto di Gilda Genazzani", diretto alla Comunità israelitica di Firenze, 28 agosto 1944, p. 1.
49 Ivi, fasc. 52, "Gallico Virginia", lettera alla Comunità israelitica di Firenze, 22 agosto 1944, p. 2.
50 Cfr. N. Gallico Spano, Mabrúk. Ricordi di un'inguaribile ottimista, prefazione di S. Portelli, Cagliari, AM&D, 2005, pp. 120-21; cfr. anche, ivi, il capitolo Lo zio Augusto, pp. 117-23.
51 Ivi, p. 121. Per Bianca Bianchi (1914-2000), cfr. S. Salvatici, A. Scattigno, Una ragazza dai capelli color del rame, in Eaed., In una stagione diversa. Le donne in Palazzo Vecchio, 1946-1970, Firenze, Comune aperto, 1998, pp. 89-112.
52 Il convoglio è identificato con il n. 3 (Picciotto, Il libro della memoria cit., p. 45).
53 Per una presentazione del monumento, cfr. il blog dell'artista Nicola Rossini, Monumento alla memoria dei deportati fiorentini dal binario 16 [s.d.]: https://www.nicolarossini.com/artworks/monumento-alla-memoria-dei-deportati-fiorentini-dal-binario-16/ (agosto 2020).
54 Per la tradizionale presenza del registro aulico nell'epigrafia commemorativa italiana: P. D'Achille, Parole: al muro e in scena. L'italiano esposto e rappresentato, Firenze, Franco Cesati, 2012 (in partic. pp. 121, 130 e 185-86). Per l'usurata retorica del "Mai più" nelle politiche memoriali, cfr. Pisanty, I guardiani della memoria cit., pp. 8 e 15-20.
55 Rotary Club Firenze, Progetto Binario 16. Un monumento alla memoria dei deportati fiorentini, febbraio 2013, p. 2: http://rotaryfirenze.org/wp-content/uploads/2017/10/5-Febbraio-2013-1.pdf (agosto 2020).
56 Per questa seconda razzia fiorentina (fonti, fatti e protagonisti), cfr. Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze cit., pp. 57-67.
57 La cosiddetta "banda Carità", fondata nel settembre 1943 e comandata da Mario Carità, era in realtà una formazione della rsi (denominata "Reparto dei Servizi Speciali", poi "upi-Ufficio Polizia Investigativa"), che dipendeva formalmente dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, e che operò con violenza estrema e metodi criminali nel capoluogo toscano e poi a Padova (R. Caporale, La "Banda Carità". Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-1945), Capannori, Lucca, San Marco Litotipo, 2005).
58 Per una precisa e articolata scheda informativa sulle persone rifugiate nel convento del Carmine: F. Cavarocchi e E. Mazzini, Appendice. I luoghi di rifugio, in Eaed. (a cura di), La Chiesa fiorentina e il soccorso agli ebrei. Luoghi, istituzioni, percorsi (1943-1944), Roma, Viella, 2018, pp. 279-87.
59 Per la ricostruzione della razzia al convento del Carmine: Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze cit., pp. 61-66. Cfr. anche le testimonianze di E. Pacifici, Non ti voltare. Autobiografia di un ebreo, prefazione di E. Toaff, Firenze, Giuntina, 1993, e M. L. Reuveni, Dedizione, a cura di G. Tagliacozzo, Aosta, Le Château, 2005.
60 Per una breve biografia di Raoul Wallenberg: Yad Vashem - The World Holocaust Remembrance Center, Raoul Wallenberg. A Swedish Rescuer in Budapest: https://www.yadvashem.org/righteous/stories/wallenberg.html (agosto 2022). Per informazioni sulla Fondazione Wallenberg: The International Raoul Wallenberg Foundation: https://www.raoulwallenberg.net/ (agosto 2022); per informazioni sul suo fondatore, Baruch Tenembaum, ivi: https://www.raoulwallenberg.net/Tenembaum/english/biographical.htm (agosto 2022).
61 Il gariwo, acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide, è una onlus con sede a Milano che dal 1999 lavora a scopo educativo creando giardini commemorativi in tutto il mondo, per far conoscere i "Giusti", coloro che «in ogni parte del mondo hanno salvato vite umane in tutti i genocidi e difeso la dignità umana durante i totalitarismi»: https://it.gariwo.net/ , agosto 2022; cfr. Gariwo, La Fondazione Wallenberg ospite di Gariwo a Milano per parlare di futuro, 22 marzo 2013: https://it.gariwo.net/persecuzioni/prevenzione-persecuzioni/la-fondazione-wallenberg-ospite-di-gariwo-8364.html (agosto 2022).
62 Ibid.
63 M. Roncalli, Palermo, la Fondazione Raoul Wallenberg premia l'arcivescovo Lorefice, in «La Stampa», 7 marzo 2017, https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2017/03/07/news/palermo-la-fondazione-raoul-wallenberg-premia-l-arcivescovo-lorefice-1.34630958 (agosto 2022).
64 La formula dedicatoria dell'epigrafe è: «Questo edificio servì da riparo per persone innocenti che erano perseguitate dai nazisti. La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg è orgogliosa di proclamare questo luogo una "Casa di Vita", in omaggio ai soccorritori che sostennero i valori della solidarietà e del coraggio civico, in accordo con l'eredità di Raoul Wallenberg». Cfr. J. Colina, "Casa di vita" (House of Life) in the Monastery of the Franciscan Missionaries of Mary in Piazza del Carmine (Florence), in «The International Raoul Wallenberg Foundation», 12 dicembre 2014,
https://www.raoulwallenberg.net/news/casa-di-vita-house-of-life-in-the-monastery-of-the-franciscan-missionaries-of-mary-in-piazza-del-carmine-florence/ (agosto 2022).
65 [s.n.], Il convento delle suore diventa "House of Life": salvò 12 bambine ebree, in Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, 16 gennaio 2016: https://www.raoulwallenberg.net/es/casas-de-vida/prensa-casas-de-vida/il-convento-delle-suore-diventa-house-of-life-salvo-12-bambine-ebree/ (agosto 2022).
66 [s.n.], Firenze, il convento delle Serve di Maria SS. Addolorata dichiarato "House of life", in «Toscana oggi.it», 7 gennaio 2016: https://www.toscanaoggi.it/Toscana/Firenze-il-convento-delle-Serve-di-Maria-SS.-Addolorata-dichiarato-House-of-life (agosto 2022); R. Bigi, Una targa sul convento che fu «casa di vita» per le bambine ebree, ivi, 14 gennaio 2016: https://www.toscanaoggi.it/Edizioni-locali/Firenze/Una-targa-sul-convento-che-fu-casa-di-vita-per-le-bambine-ebree (agosto 2022). Grazie al crescente successo riscosso dalle commemorazioni dei "Giusti", un busto è stato dedicato allo stesso Raoul Wallenberg al primo piano del terminal dell'aeroporto di Firenze il 5 novembre 2019, voluto dalla Fondazione Wallenberg e dalle istituzioni locali: s.n., Inaugurata all'aeroporto di Firenze la statua in onore di Raoul Wallenberg, in «Toscana Aeroporti-Firenze», 5 novembre 2019: https://www.aeroporto.firenze.it/it/i-passeggeri/news/1254-inaugurata-all%E2%80%99aeroporto-di-firenze-la-statua-in-onore-di-raoul-wallenberg.html (agosto 2022).
67 Gunter Demnig: artista berlinese nato nel 1947 (cfr. il suo sito: http://www.gunterdemnig.de/; agosto 2022). Per maggiori informazioni sugli Stolpersteine, ivi: http://www.stolpersteine.eu/start/ (agosto 2022)
68 A. Zevi, Monumenti per difetto dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo, Roma, Donzelli, 2014, p. 174. Cfr. anche il progetto «Memorie d'inciampo», a cura di Ead.: http://www.arteinmemoria.it/index.htm (maggio 2020).
69 Ead., Monumenti per difetto cit., p. 172.
70 Ibid.
71 Ead., Quale memoriale?, ivi, p. 159.
72 Per informazione sugli Stolpersteine in Italia: cfr. Pietre d'inciampo, la mappa italiana. Giorno della Memoria 2022, a cura di l. Salvioli et alii, in «Il Sole 24 ore. Lab 24» (s.d.): https://lab24.ilsole24ore.com/pietre-inciampo/ (agosto 2022).
73 A. Zevi, Pietre d'inciampo. La forza di un monumento scomposto, in «Ytali. Rivista plurale online», 10 dicembre 2018, https://ytali.com/2018/12/10/pietre-dinciampo/ (agosto 2022).
74 Ivi. Cfr. anche: Ead., Shoah, le pietre che diffondono la memoria, ivi, 27 gennaio 2016, https://ytali.com/2016/01/27/shoah-le-pietre-che-diffondono-la-memoria/ (agosto 2022).
75 Ibid.
76 Per ulteriori notizie su questi arresti sancascianesi e Stolpersteine relativi si veda Baiardi, Le tavole del ricordo cit., https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_12/saggi/articolo2/baiardi.html e https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_12/saggi/articolo2/immagini.html (agosto 2022).
77 Per una mappa delle pietre d'inciampo pratesi e una rassegna biografica dei deportati: Museo della Deportazione di Prato, Pietre d'inciampo a Prato [s.d.]: http://www.museodelladeportazione.it/le-pietre-dinciampo/ (agosto 2022).
78 R. Bandinelli, Il progetto delle pietre d'inciampo a Firenze, in «Toscana ebraica», xxxii, settembre-ottobre 2019, 5, pp. 42-43. L'arrestato era un orologiaio fiorentino, Mario Belgrado (1905-1944), la cui storia è in via di pubblicazione (da parte di chi scrive).
79 C. Adinolfi, Pietre d'inciampo a Firenze, l'itinerario, in «La Repubblica, Firenze», 26 gennaio 2020:
https://firenze.repubblica.it/cronaca/2020/01/26/news/pietre_d_inciampo_a_firenze_l_itinerario-246246624/ (agosto 2022).
80 [s.n.], A Firenze posate 25 "pietre d'inciampo" davanti alle abitazioni delle vittime del nazifascismo, in «Intoscana.it», 18 gennaio 2022:
https://www.intoscana.it (agosto 2022). La ricerca per stabilire con la massima attendibilità possibile circostanze e nomi dei deportati/e dall'Ospizio Israelitico "Settimio Saadun", affidata dalla Comunità ebraica di Firenze all'isrt, è in via di pubblicazione (realizzata da chi scrive): Comune di Firenze, Pietre d'inciampo-Viale Amendola nei pressi del civico 2, a cura di M. Baiardi: https://cultura.comune.fi.it/pietre-inciampo/amendola (agosto 2022). Per un prospetto generale delle varie pose fiorentine degli Stolpersteine: [s.n.], Pietre d'inciampo. Le opere dell'artista Gunter Demnig a memoria dei martiri della Shoah: in «Città di Firenze», s.d.: https://cultura.comune.fi.it/pietre-inciampo ; per alcune testimonianze di parenti delle vittime commemorate: cfr. ivi: https://cultura.comune.fi.it/system/files/2022-04/pietre4%20%281%29.pdf (agosto 2022).
81 [s.n.], Shoah, altre 25 "pietre d'inciampo" a Firenze. Per non dimenticare, in «La Nazione. Firenze», 17 gennaio 2022: https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/shoah-pietre-inciampo-1.7257741 (agosto 2022).
82 Per la "banda Carità", cfr. supra, nota 55. Per la ricostruzione di questa specifica vicenda di arresti a catena (e relativa documentazione d'archivio): Baiardi, Persecuzioni antiebraiche a Firenze cit., pp. 86-88. Per i dati sulle vittime: cdec-Digital Library, ad nomina.
83 Archivio Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea in provincia di Lucca (da qui aisreclu), fpc, b. 2/1, fasc. 7, "Istruttoria Tribunale di Firenze. Documento della squadra investigativa dei carabinieri di Firenze", 5 aprile 1945. L'ufficio di Firenze, responsabile per l'intera Toscana, fu retto dal capitano Emil Goebel fino al novembre 1943, poi, con interruzioni, dal capitano Otto Alberti, funzionario di polizia di carriera che giunse in Italia dopo aver prestato servizio all'Est. Dopo la guerra egli rientrò tra i ranghi della polizia prendendo servizio a Kiel, dove fu commissario capo della polizia criminale fino agli anni Sessanta (Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, in Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45, vol. iv, a cura di C. Gentile, prefazione di E. Collotti, Roma, Carocci, 2005, p. 80).
84 Il Sicherheitsdienst-SD, servizio di sicurezza e intelligence delle ss, deputato alla lotta contro la Resistenza e alla caccia agli ebrei, a Firenze operò «in stretto collegamento con la formazione di Carità fin dal novembre 1943» (ivi, p. 81). In questa catena di arresti, inizialmente ci fu molto probabilmente da parte dei persecutori un errore di omonimia: i sicari di Carità stavano infatti cercando con grandissimo accanimento il gappista fiorentino Alessandro Sinigaglia (1902-1944), ma equivocando si imbatterono invece in Angelo Sinigaglia (1902-1945), ebreo modenese rifugiatosi a Firenze con la famiglia. L'ipotesi è presentata con i debiti riscontri documentari dallo storico Federico Maistrello, che ringrazio per avermi concesso di consultare in anteprima il suo approfondito lavoro in corso sulla "banda" Carità, in cui questa precisazione compare.
85 Un'affittuaria, che si rifiutava di consegnare i beni degli Orvieto, fu sottoposta a estorsione, minacciata e arrestata fino a che non cedette (aisreclu, b. 3/3, fasc. 16, doc. 3, Verbale di testimonianza di Giovanna Iacomini, 9 novembre 1944).
86 Fu asportato anche il gabinetto medico di Elio Levi, che era entrato nella Resistenza come tenente medico e faceva parte del 7° raggruppamento partigiani Amiata (aisreclu, fpc, b. 2/2, fasc. 4, doc. 147, Verbale di testimonianza di Elio Levi, 28 dicembre 1946).
87 C. Silingardi, La memoria dei "martiri fascisti" a Modena: il caso di Duilio Sinigaglia, in «Annale 2010», Istituto Storico Modena, 2010, n. 0, pp. 8-18.
88 Testimonianza di Giulio Pacifici (che qui si ringrazia per la gentile disponibilità), 18 novembre 2020.
89 Per laboratori didattici di storia basati sugli Stolpersteine, avviati a Roma, Reggio Emilia e Torino, cfr. M. L. Granzotto et alii, Pietre d'inciampo in Italia: dossier, in «Novecento.org», 18 novembre 2015: http://www.novecento.org/didattica-in-classe/pietre-dinciampo-in-italia-introduzione-1486/ (agosto 2022).
90 A. Zargani, La mia storia della mia memoria della Shoah, in Dopo i testimoni cit., pp. 287-97, la cit. è a p. 288.