15, 2021
 
Saggi    
 
Abstract


Muriel Maria Stella Barbero

Ut pictura poesis: il margine figurativo del sonetto della Sistina di Michelangelo




1. Il dialogo tra parola e immagine nell’opera di Michelangelo
Analizzando l’opera grafica e letteraria di Michelangelo Buonarroti non è raro imbattersi in carte in cui le due attività convivono, in una sorta di magmatico tutt’uno plurimediale in cui predomina lo stato di frammento. In questa moltitudine di materiali “misti”, dove parola e figurazione sono accostate in modo disordinato e portate avanti parallelamente, in un’alternanza continua di ispirazioni e intuizioni ora visuali ora verbali, sono però rare le occasioni in cui i due mezzi espressivi vengono fatti deliberatamente dialogare tra loro.1 E la natura e l’intento di tali occasioni è profondamente disomogenea.
Prima di affrontare il caso eccezionale dell’autografo del celebre sonetto caudato I’ho già fatto un gozzo in questo stento e dello schizzo che lo accompagna (Fig. 1; corpus 174r)2 − che sarà l’oggetto di questo saggio − vale quindi la pena di effettuare una breve ricognizione delle più rilevanti occorrenze e dei diversi significati che la collaborazione tra parola e immagine assume sui fogli michelangioleschi. In particolare, elencherò e analizzerò qui alcuni casi in cui il dato verbale e quello figurativo sono collegati in modo evidente sia dal punto di vista tematico sia da quello visuale, condividendo non solo lo stesso spazio figurativo ma anche la medesima direzione di lettura. Negli esempi proposti, tuttavia, il rapporto di forza tra i due mezzi espressivi varia, privilegiando ora la parola ora l’immagine.3 Il primo esempio di dialogo tra parola e immagine sui fogli manoscritti dell’artista risale ai primissimi anni della sua attività letteraria, ed è da ricondurre al periodo di progettazione e realizzazione di uno dei suoi chefs-d’oeuvre, ovvero la statua del David (1501-1502). Sul recto del foglio (corpus 19r) oggi conservato al Louvre di Parigi, sono presenti quattro elementi tra loro chiaramente separati e distinti (Fig. 2): al centro, con un orientamento opposto rispetto agli altri, è tratteggiato un braccio destro, collegato a un busto appena accennato. Si tratta probabilmente di uno studio per il braccio del David marmoreo. Sul margine sinistro del foglio si vede un altro schizzo, di dimensioni minori, raffigurante un David trionfante, l’imponente testa recisa di Golia ai suoi piedi. In questo schizzo gli studiosi sono concordi nel riconoscere un progetto per il David bronzeo commissionato in questi stessi anni a Michelangelo da Pierre de Rohan.4 Sul margine destro del foglio sono infine appuntate due frasi ben distinte dalla loro collocazione: in alto, all’altezza delle spalle del David disegnato sul lato opposto del foglio, e con lo stesso orientamento di lettura, si legge il celebre endecasillabo «Davitte colla fromba e io coll’arco» direttamente seguito dalla firma dell’autore, «Michelagnolo».5 In basso, all’altezza degli stinchi della figura di David, si legge invece parte di un incipit petrarchesco (RVF 269): «Rott’è l’alta colonna e ’l verd[…]» (Rime, Ap. 4), bruscamente interrotto dal margine della pagina. La presenza sullo stesso supporto materiale di immagini che rinviano alla rappresentazione figurativa di Davide e Golia e di un frammento («Davitte colla fromba e io coll’arco») che evoca il medesimo soggetto è chiaramente significativa e intenzionale. Il rapporto tra i due codici, tuttavia, è meramente concettuale: il testo non rappresenta infatti in alcun modo un corrispettivo dell’immagine, e neppure ne dà una descrizione o interpretazione; viceversa, l’immagine non contribuisce in modo significativo all’amplificazione del significato del testo, che è totalmente comprensibile senza il contributo visuale. L’endecasillabo sembra piuttosto fissare sulla pagina una riflessione autobiografica scaturita dalla confrontazione artistica con la vicenda dell’eroe biblico, caricando l’immagine di un significato personale e aprendo una finestra sull’intimo rapporto tra l’artista e la sua opera.6 Il foglio è quindi anzitutto interessante in quanto dimostrazione della necessità di Michelangelo, dato un tema, di ponderarlo, plasmarlo e svilupparlo attraverso diversi codici espressivi, testandone le potenzialità. Esso mette inoltre in luce la tendenza dell’artista a proiettarsi nelle proprie figure. Il messaggio complessivo del foglio va dunque interpretato come un documento privato, e non, come vorrebbero alcuni studiosi,7 come uno statement da apporre sul piedestallo della statua bronzea del David. Il secondo caso in cui parola e immagine entrano in dialogo tra loro in modo rilevante, è rappresentato da un foglio conservato al British Museum di Londra e databile ai primi anni Venti del Cinquecento (Fig. 3; corpus 189r). Sotto quello che è chiaramente riconoscibile come uno schizzo per il monumento funebre dei Medici in San Lorenzo, a cui Michelangelo lavorava in questi anni, si leggono le seguenti parole «La fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né innanzi né indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo» (Rime 13). In questo caso, la parola, sussidiaria all’immagine, fornisce una sorta di enigmatica e lacunosa interpretazione di una parte del disegno sovrastante.8 In effetti, come nota Erwin Panofsky, il testo sembra riferibile alla figura − appena accennata con pochi tratti di penna, come se fosse stata aggiunta in un secondo momento − seduta al centro della struttura architettonica, nel registro superiore ai due sarcofagi.9 Questa figura sembra tenere le braccia allargate e distese verso le due lastre di marmo che la affiancano e che erano con ogni probabilità destinate a ospitare gli epitaffi mortuari dei due defunti. Questo gesto entra in risonanza con l’atto di tenere gli epitaffi «a giacere» descritto nel testo, permettendoci quindi di riconoscere nella figura una personificazione della Fama, nonché di interpretare la sua postura come una promessa di eternità, una sorta di ancoraggio della memoria nella pietra. L’elemento testuale, sia che venga letto come una spiegazione dell’immagine destinata a terzi o come parte del processo creativo, in cui l’artista affida alla parola il compito di fissare provvisoriamente un concetto destinato poi a essere sviluppato nel disegno, entra qui in forte collaborazione con l’immagine, venendo a compensarla e integrarla in modo sostanziale. Come nota Leonard Barkan, comunque, l’oscurità del testo sembra suggerire che il suo messaggio fosse destinato ai soli occhi dell’artista.10 Un caso singolare, estraneo al contesto artistico e poetico, ma comunque illustrativo dell’approccio disinvolto di Michelangelo nei confronti dell'intermedialità, è quello dei giocosi “rebus” inseriti nelle firme di due missive, dove l’immagine viene a sostituire la parola, in un rapporto di perfetta equivalenza semantica (cfr. Figg. 4-5). In calce alla prima, datata tra il 1522 e il 1523, e indirizzata a Giovan Francesco Fattucci, si legge l’indirizzo del mittente, monco dell’ultima parola: «Vostro fedelissimo schultore in Via Moza, presso al Canto alla …».11 La frase è terminata dal disegno di una forma cilindrica appiattita con un foro quadrato al centro, che solo chi era già familiare con il luogo di residenza di Michelangelo poteva interpretare correttamente come una macina, ottenendo così l’indicazione completa dell’indirizzo “Canto alla Macina”. Lo stesso avviene in una missiva indirizzata negli anni Quaranta del Cinquecento a Luigi del Riccio, dove l’indirizzo del mittente («Vostro Michelangelo al Macel de…»)12 è nuovamente completato con uno schizzo rappresentante questa volta un uccello. Anche in questo caso, solo chi conosceva già l’indirizzo romano dell’artista poteva identificare correttamente l’indicazione del luogo come il “Macel de’ corvi” − anche perché di corvo, Michelangelo, ne disegna uno solo. Sebbene parola e immagine vengano utilizzate qui come mezzi espressivi interscambiabili tra loro, dunque, tale possibilità resta dipendente dalla conoscenza preliminare di dati esterni al messaggio stesso da parte dei destinatari. Senza tale “familiarità” la decifrazione risulterebbe difficile, se non impossibile.13 Un caso simile, in cui la problematica dell’interscambiabilità dei linguaggi emerge in modo evidente, è quello dei cosiddetti “menù” conservati su un foglio dell’Archivio Buonarroti (Fig. 6; corpus 117v). Qui, di fianco a una dettagliata lista di cibi, l’artista schizza approssimativamente e quasi giocosamente le illustrazioni delle vivande nominate. La funzione di questo esercizio è poco chiara: come nota Leonard Barkan, infatti, se i disegni avessero avuto l’intento di rendere “leggibile” l’ordinazione a un servitore analfabeta, come verrebbe naturale pensare, come poteva questi riconoscere nelle due ciotole in basso le «dua minestre di finochio» nominate nella lista?14 La diretta giustapposizione di parola e immagine porta così a un’impasse apparentemente insormontabile: un limite che non sarà certo sfuggito all’attenzione e alla sensibilità di un artista che, come Michelangelo, padroneggiava entrambe queste forme espressive.
2. Un caso eccezionale: l’autografo del sonetto della Sistina
Tra i fogli autografi di Michelangelo in cui l’elemento figurativo convive ed entra in dialogo con quello testuale, l'autografo del celebre sonetto caudato I’ ho già fatto un gozzo in questo stento rappresenta certamente il caso più interessante e degno di nota.15
Qui Michelangelo appone, a fianco del sonetto autobiografico e autocaricaturale in cui descrive grottescamente le penose torsioni cui il proprio corpo è sottoposto durante l’affrescatura della volta della Sistina, un rapido schizzo nel quale è rappresentato un pittore intento a dipingere una figura al di sopra della propria testa (Fig. 1; corpus 174r).16 Prima di riflettere sui legami tra testo e immagine in questo straordinario documento ed effettuare un confronto approfondito con i casi elencati sopra, leggiamo il testo del sonetto (Rime 5):
      I’ho già fatto un goz[z]o in questo stento,
come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre apic[c]a sotto ’l mento.
    La barba al cielo, e·lla memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
    E lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e ’ passi senza gli oc[c]hi muovo invano.
    Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
    Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
    La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.
La prima cosa da notare è che, con questo documento, non siamo nell’ambito dei fogli di lavoro su cui l’artista annota pensieri e considerazioni private, senza un destinatario preciso, più o meno ricollegabili − non senza un certo sforzo interpretativo da parte di chi li decifra − agli schizzi che li accompagnano, come nel caso dei fogli del Louvre e del British Museum visti sopra (Figg. 2 e 3). Questo foglio infatti costituisce una bella copia, non un brogliaccio di lavoro, ed è indirizzato a un destinatario preciso, indicato sul verso come «Giovanni, quel proprio da Pistoja», un amico la cui identità resta ad oggi ancora sconosciuta.17 Contrariamente a quanto accade con i fogli del Louvre e del British Museum, inoltre, il legame tra lo schizzo e il sonetto è chiaro, immediatamente percepibile, e sembra, almeno in apparenza, non presentare particolari problemi interpretativi. Come nel caso dei “menù”, infatti, lo schizzo sembra essere la diretta illustrazione del testo. Ma il contenuto di questo foglio non si può tuttavia porre sullo stesso piano dei “menù”, per via della ben diversa ambizione artistica ed espressiva che vi si rintraccia. E se il contesto giocoso e la presenza di un destinatario lo rende in qualche modo associabile ai “rebus”, il tipo di connubio tra testo e immagine qui è di tutt’altra natura. I due codici non sono affatto interscambiabili: se ne mettono anzi fortemente in evidenza le rispettive peculiarità. Qui, più che altrove, l’accostamento di parola e immagine sembra essere riconducibile a un preciso e ponderato intento espressivo ed estetico. Non c’è niente di spontaneo e casuale nel modo in cui i due codici sono affiancati. Se infine prendiamo in considerazione il fatto che Michelangelo, al contrario di molti artisti coevi, è riluttante a usare la parola come sussidio e sostegno dell’immagine anche nella sua opera pittorica e scultorea, e che, persino nei casi in cui questo avviene, il rapporto tra i due linguaggi si rivela problematico e discordante,18 l’autografo del sonetto della Sistina acquista ancora maggiore rilevanza, al punto da poter essere considerato l’unica opera finita nell’intera produzione michelangiolesca in cui testo e figurazione vengono fatti collaborare con un preciso intento artistico ed espressivo.
3. Ut pictura poesis
Sebbene la raffigurazione presente sull’autografo del sonetto della Sistina abbia, come si è detto, un’ovvia e stretta attinenza con il tema trattato nel testo, essa non può tuttavia esserne considerata una mera illustrazione, come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Come nota Charles de Tolnay, infatti, la figura del pittore rappresentata nel disegno è ben lungi dal raggiungere le vette umoristiche e caricaturali del testo poetico. Anche se tutti gli elementi menzionati nei versi (il «gozzo», la nuca che tocca la gobba, il petto sporgente, la schiena inarcata ecc.), sono presenti anche nel disegno, la loro resa figurativa appare molto più realistica e plausibile di quella iperbolica e grottesca suggerita dal sonetto.19
D’altra parte, non si può neanche ridurre il ruolo di questa immagine a una semplice ricapitolazione sintetica ed essenziale del significato dei versi, come fa De Tolnay.20 In effetti, la figura del pittore nello schizzo, non solo non corrisponde stilisticamente a quella delineata nei versi, ma si pone anzi in aperto contrasto con essa, quasi smentendola, presentando un’immagine eroicizzata del pittore, nudo, muscoloso, eretto.21 Alla torsione fisica, colpevole nel sonetto di compromettere la capacità di giudizio dell’artista (vv. 15-17), si contrappone nello schizzo il braccio teso, che forma una linea perfettamente diritta tra l’artefice e la propria opera, quasi a negare la metafora della «cerbottana torta» (v. 17). In questo senso, l’immagine sembrerebbe confermare l’interpretazione in chiave antifrastica e ironica dei versi finali che compongono la coda del sonetto.22 L’accostamento di testo e immagine su questo foglio non è dunque fine a sé stesso, ma contribuisce alla creazione di significati ulteriori: dal confronto tra i due mezzi espressivi, che siamo automaticamente portati a fare, emergono interessanti divergenze la cui interpretazione porta a una comprensione più approfondita del messaggio complessivo. Il sonetto e lo schizzo formano insomma un tutt’uno, un atto comunicativo composito ma unico e indivisibile, il cui significato può essere compreso soltanto dalla somma, dall’interazione e dal confronto delle sue parti. Se osserviamo nuovamente da vicino il testo del sonetto lasciando da parte tutte le informazioni biografiche attraverso le quali siamo portati a leggerlo, ci accorgeremo di un fatto sconvolgente: in nessun luogo Michelangelo dichiara in modo esplicito che sta dipingendo una volta. A ben vedere, gli unici indizi utili a comprendere il contesto in cui si colloca l’azione sono costituiti dal riferimento, nella seconda quartina del sonetto, al capo reclinato all’indietro e al pennello tenuto sospeso sopra il volto dell’artista (vv. 5-8):
      La barba al cielo, e·lla memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento
                                             (vv. 5-8).
La descrizione anatomica e dettagliata fornita dal sonetto tende in effetti a isolare completamente la figura del pittore senza collocarlo in alcun modo in un contesto spaziale. Facendo del corpo umano il protagonista assoluto e affidando unicamente alla sua attitudine l’intelligibilità della scena, il modus operandi dello scrittore Michelangelo corrisponde in questo pienamente a quello del pittore.23 La «lacuna informativa» del testo viene però colmata dallo schizzo a margine, che svolge in questo senso una funzione complementare rispetto al sonetto.24 Emerge così una seconda, macroscopica differenza tra il sonetto e il disegno: se nel testo poetico il focus principale è sul corpo dell’artista, inquadrato in un close-up così ravvicinato da escludere qualsiasi riferimento all’ambientazione in cui si trova nonché all’opera che sta realizzando,25 il disegno non solo chiarisce in modo sintetico le coordinate spaziali entro cui si colloca l’azione, ma ci informa anche sul soggetto del dipinto in fieri. Si tratta di una figura umana seduta, rappresentata in modo comicamente abbreviato e infantile. La figura rappresentata sulla volta viene così a trovarsi in contrasto con quella sottostante del pittore che, malgrado l’essenzialità dello schizzo, offre nel complesso una resa realistica del corpo. Viceversa, la grottesca esagerazione e semplificazione dei tratti di questa figura rinvia alla descrizione che nel sonetto viene fatta del pittore. Nel passaggio dal testo alla figurazione, dunque, i connotati comici e grotteschi vengono come trasferiti dalla figura del pittore a quella ritratta sulla volta.26 Questo fatto induce a ripensare i termini del confronto tra immagine e testo su questo foglio: a essere paragonate non sono più le due rappresentazioni del corpo del pittore, rispettivamente testuale e figurativa, come siamo intuitivamente indotti a credere, ma i due prodotti della creazione rispettivamente del poeta (ovvero la figura descritta nel sonetto) e del pittore (la figura rappresentata sulla volta). Il confronto messo in scena sul foglio è quindi sì quello tra i due mezzi espressivi, letterario e figurativo, ma i termini del paragone e il suo risultato finale sono ben più complessi e articolati di quanto sembri. Ciò che, in ultima analisi, viene messo in luce è infatti l’identica capacità di deformazione comico-grottesca dei due linguaggi e, quindi, la stessa libertà e licenza creativa attribuibile al poeta e all’artista. Si tratterebbe, insomma, di un’originale illustrazione del concetto espresso nella celebre formula oraziana «ut pictura poesis», riferimento fondamentale e onnipresente nel dibattito teorico-artistico rinascimentale sulla nobiltà e dignità delle arti.27 Questo tema sarà del resto oggetto di una lunga e dettagliata disquisizione messa in bocca circa quarant’anni più tardi proprio al personaggio di Michelangelo nei Diálogos em Roma di Francisco de Hollanda: Sono contento, disse Michele, di dirvi perché si usi dipingere quello che mai si è visto al mondo, e quanta ragione abbia una licenza tanto grande, e come sia molto veritiera, e perché alcuni che li intendono, usano dire che Orazio, poeta lirico, scrisse in vituperio dei pittori quei versi:
   «Pictoribus atque poetis
   Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas:
   Scimus et hanc veniam petimusque damusque vicissim»
Perché in tali versi non c’è niente che insulti i pittori, anzi li lodano e favoriscono, poiché dicono che i poeti ed i pittori hanno il potere di osare, dico osare ciò che loro sembri giusto. E questa capacità di vedere bene e questo potere sempre li hanno sempre [sic] avuti; giacché ogni volta che un grande pittore (cosa che succede molte poche volte) fa qualche opera che sembri falsa e bugiarda, quella tale falsità è molto veritiera; e se allora egli impiegasse più verità, sarebbe una menzogna.28
In questo passo, il personaggio di Michelangelo si riallaccia al topos umanistico e rinascimentale della similarità tra arte e poesia, per affermare, sulla base di tale equivalenza, la totale fiducia nella capacità di giudizio e nella “discrezione” dell’artista − capacità che, si ricorda, nel sonetto della Sistina veniva parodicamente negata (vv. 15-16).29 Del resto, alla luce di queste considerazioni, lo stesso giudizio «fallace e strano» (v. 15) dell’artista può essere rivalutato come espressione orgogliosa della sua totale libertà creativa, che viene dunque doppiamente rivendicata da Michelangelo su questo foglio, nella poesia e nel disegno. Il fatto che il corpo del pittore rappresentato nel disegno non abbia la stessa connotazione caricaturale che ha invece nei versi, costituisce un’affermazione indiretta del processo di deformazione del reale attuato dalla fantasia creatrice del poeta grazie appunto alla sua speciale “licenza”. In questo senso, dunque, la deformazione grottesca del corpo del sé-pittore attuata da Michelangelo-poeta nel sonetto, costituisce, in base al principio dell’ut pictura poesis, una giustificazione teorica della deformazione della figura che il sé-pittore figurato nello schizzo sta rappresentando. L’interpetazione del messaggio complessivo di questo foglio come riflessione teorica sulle rispettive possibilità creative di poesia e pittura sembrerebbe infine confermata anche dalla forte componente visuale del sonetto. Questo è in effetti uno dei pochi testi poetici in cui Michelangelo pone al centro la descrizione fisica, di un corpo umano, offrendo una dettagliata rappresentazione verbale, quasi un’«ekphrasis», del proprio corpo straziato.30 In questo senso, il sonetto della Sistina costituisce già di per sé un paragone tra parola e immagine. La presenza dello schizzo non fa che incrementare, complicare e sottolineare questo messaggio.
4. L’artista si fa opera d’arte
Se il sonetto della Sistina può essere letto come una sorta di «ekphrasis», come suggerisce Leonard Barkan, allora l’opera descritta è l’artista stesso. In effetti, nella sua interessante lettura di questo foglio, Barkan parla proprio di una metamorfosi dell’artista in opera d’arte.31
Questa interpretazione, sembra trovare conferma nelle stesse parole di Michelangelo, che ai versi 7-8 del sonetto paragona il proprio viso macchiato di pittura a un pavimento decorato («e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia / mel fa, gocciando, un ricco pavimento»). Proprio il fatto di trovarsi ricoperto di schizzi di pittura potrebbe in effetti aver scaturito la visione di sé come figura dipinta, quasi un bizzarro e grottesco personaggio frutto della fantasia di un artista deviato, meritevole di un’altrettanta grottesca ekphrasis poetica. L’idea di sé come opera di fantasia, e in particolare proprio come personaggio di quell’universo figurativo che stava prendendo forma sulla volta della Sistina, è rintracciabile a ben vedere anche nello schizzo marginale. Qui il personaggio dell’artista è rappresentato nudo ed eretto sotto la volta, quasi come uno dei putti-cariatidi rappresentati sui plinti che affiancano i ritratti dei profeti (Fig. 7). E proprio alla figura di un profeta, Gioele, sembra alludere in modo scherzoso l’immagine rappresentata sulla volta nello schizzo (Fig. 8).32 Oltre all’elemento comune della capigliatura scompigliata, resa nel disegno in maniera schematica con pochi tratti di penna, infatti, le due figure sono accomunate dalla posizione delle mani e dall’accentuata rotondità della fronte calva. Un ulteriore elemento a conferma di questa identificazione potrebbe infine essere il braccio destro del giovane assistente rappresentato sullo sfondo. Se infatti ruotiamo l’immagine di 90°, per ottenere lo stesso orientamento dell’immagine raffigurata sulla volta nello schizzo (Fig. 9), e confrontiamo le due rappresentazioni, noteremo che questo braccio viene a trovarsi esattamente nella medesima posizione in cui si trova il braccio teso del pittore nel disegno: il dito indice del fanciullo è puntato verso l’occhio del profeta, proprio come la punta del pennello sfiora l’occhio sinistro della figura raffigurata sulla volta nello schizzo. Michelangelo, nell’atto di dipingere la volta, potrebbe dunque aver proiettato il proprio gesto creativo nel dipinto, ed averlo replicato successivamente nello schizzo, creando così un complesso gioco di rimandi, in cui realtà e figurazione si intersecano e si mescolano. Ma il gesto del pittore rappresentato sul foglio non riecheggia solo quello del fanciullo dietro al profeta Gioele: la postura di questa figura apparentemente modesta sembrerebbe infatti riprodurre (o anticipare) addirittura quella del Dio creatore nella Creazione di Adamo (Fig. 10), proponendo così un’ardita assimilazione tra creazione artistica e creazione divina.33 Questa somiglianza, introdotta più o meno coscientemente nello schizzo, lascia pochi dubbi, se ancora ce ne fossero, sull’ironia delle affermazioni di insicurezza riguardo il proprio valore artistico espresse da Michelangelo nel sonetto contiguo.

M. M. S. B.



  Immagini

Note

1 Alle modalità di interazione tra parola e immagine sui fogli autografi di Michelangelo sono stati dedicati, nell’ultimo ventennio, vari studi tra cui segnalano in particolare la fondamentale monografia di Leonard Barkan (Michelangelo. A Life on Paper, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2011), gli studi di Oscar Schiavone (Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere, Livorno, Polistampa, 2013, in partic. pp. 81-104; Michelangelo Buonarroti. Saggio sulla creazione poetica e figurale, in «Schifanoia», 36/37, 2009, pp. 165-86, in partic. pp. 170 ss.), e il recente contributo di Uberto Motta (Parole e immagini nel mondo di Michelangelo, in Letteratura e arti visive nel Rinascimento, a cura di G. Genovese e A. Torre, Roma, Carocci, 2019, pp. 235-60) con ulteriore bibliografia. torna su
2 Per i disegni di Michelangelo si riporta sempre il numero identificativo relativo al corpus di riferimento (Michelangelo Buonarroti, Corpus dei disegni, a cura di C. De Tolnay, 4 voll., Novara, De Agostini, 1975-1980). torna su
3 Si tratta quindi di quei casi che Schiavone, nella sua proposta di classificazione dei tipi di interazione tra i due mezzi espressivi, verbale e visuale, sui fogli michelangioleschi, inserisce nella categoria della reciproca dipendenza tra i codici (cfr. Schiavone, Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere cit., pp. 85-86). Si è tuttavia ritenuto più prudente non applicare l’ulteriore distinzione adottata da Schiavone tra relazioni di «subalternità» ed «equilibrio», esistendo a mio parere sempre e comunque una prevaricazione, seppur minima, di un codice sull’altro. torna su
4 Sulla commissione di questa statua oggi perduta cfr. G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, curata e commentata da P. Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, vol. i, p. 23, e vol. ii, p. 217, n. 180. torna su
5 Si tratta del frammento 3 riportato in Appendice in Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di E.N. Girardi, Bari, Laterza, 1960, p. 143 (da cui si cita qui e nel seguito, indicando solo il numero del testo secondo la numerazione di quest’edizione e facendo precedere i testi in appendice dall’indicazione Ap.).torna su
6 Sull’interpretazione complessiva del messaggio di questo foglio si veda I. Lavin, David’s Sling and Michelangelo’s Bow. A Sign of Freedom, in Id., Past – Present. Essays on Historicism an Art from Donatello to Picasso, Berkley-Los Angeles-Oxford, University of California Press, 1993, pp. 29-61; già in L’Art et les Révolutions. Conférences plénières, Actes du XXVIIe Congrès international d’Histoire de l’Art (Strasbourg, 1-7 septembre 1989), Strasbourg, 1990, pp. 107-46. Cfr. anche Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., pp. 107-26; Schiavone, Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere cit., pp. 96-97. torna su
7 Cfr. ad esempio R. J. Clements, The Poetry of Michelangelo, New York University Press, 1965, p. 158. torna su
8 Come nota Schiavone: «La scritta in calce si integra nella illustrazione completando il medesimo concetto, è più che didascalica, perché rappresenta di per sé una prima interpretazione iconologica della figura» (Schiavone, Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere cit., p. 94). Non si può comunque, a mio parere, parlare di equilibrio tra i due mezzi espressivi: la parola ha in questo caso una funzione di commento all’immagine, dipendendo completamente da essa. torna su
9 Cfr. E. Panofsky, The Neoplatonic Movement and Michelangelo, in Id., Studies in Iconology. Humanistic Themes in the Art of Renaissance, New York-Evanston-London, Harper & Row, 1962 (1a ed. 1939), pp. 171-230, in partic. p. 200. Per altre interpretazioni del foglio in questione (tutte comunque concordi nell’associare il testo all’immagine, identificando la figura centrale come personificazione della Fama) si veda Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., pp. 26-28, 33-34; Schiavone, Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere cit., pp. 93-94. torna su
10 Cfr. Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., p. 28: ««the obscurity of the statement is as fundamental as any possible clarification; in other words, the text was neither composed for explanatory purposes, nor probably for any eyes other than the artist’s own». torna su
11 Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze, Sansoni, 1967, vol. ii, p. 344. torna su
12 Si cita da Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., p. 77. Il foglio è raccolto nel Corpus (f. 367r).torna su
13 Ivi, pp. 77-79. torna su
14 Ivi, pp. 84-85. torna su
15 Schiavone lo definisce «forse l’episodio di massimo incontro tra i due codici» (cfr. Schiavone, Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere cit, p. 97). torna su
16 Per l’interpretazione del testo di questo sonetto mi permetto di rinviare a un mio precedente contributo (cfr. Ai margini del discorso artistico: il sonetto della Sistina di Michelangelo Buonarroti, in «Margini», 14, 2020, https://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_14/saggi/articolo3/barbero.html. torna su
17 E. N. Girardi, Note alle Rime, in Michelangelo Buonarroti, Rime [1960] cit., p. 159. L’identificazione suggerita da Enzo Noè Girardi con tale «Giovanni di Benedetto da Pistoia, letterato, funzionario del governo ducale e nel 1540 cancelliere dell’Accademia fiorentina» (ibid.) si è rivelata errata: Giovanni di Benedetto, infatti, sarebbe nato soltanto nel 1509 (cfr. C. Reggioli, Giovanni da Pistoia, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, vol. 56, pp. 180-82, in partic. p. 181; A. Corsaro, La poesia comica di Michelangelo. Per una nuova edizione dei testi, in «Italique», xvi, 2013, pp. 195-230, in partic. p. 201). torna su
18 Cfr. Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., pp. 69-77. torna su
19 Cfr. C. De Tolnay, Die Handzeichnungen Michelangelos im Archivio Buonarroti, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», xviii, 5, 1928, pp. 377-476, in partic. p. 428. torna su
20 «Es ist ein allgemeines Bildzeichen das den Sinn der Verse nicht charakterisierend auslegt, sondern bloß abbreviierend begleitet und in eine knappe, sinnlich anschauliche Schlussformel zusammenfasst» (Ibid.).torna su
21 Condivido pienamente l’opinione di Antonio Corsaro secondo cui lo schizzo, in cui la figura si presenta «bene eretta, non deforme, quasi disinvolta nella sua fatica», «non pare accentuare la modalità grottesca e iperbolica della sofferenza» espressa nei versi, come sostiene invece Paola Barocchi (cfr. P. Barocchi, Michelangelo e la sua scuola. I disegni dell’Archivio Buonarroti, Firenze, Leo S. Olschki, 1964, p. 7), e i due codici «quello testuale e quello figurativo, non sono leggibili nell’identico segno ma rinviano l’uno all’altro entro una cifra sfasata e allusiva» (cfr. A. Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e Michelangelo, in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del convegno di Firenze, 7-8 novembre 2002, a cura di A. Galli, C. Piccinini, M. Rossi, Firenze, Leo S. Olschki, 2007, pp. 117-36, cit. a p. 127). Anche Barkan percepisce un forte contrasto tra le due figure, notando come «the “artist” as represented in this image hardly seems a visual icon for inadequacy» in quanto «he is nude, he is muscular, and he appears to balance himself exquisitely on the teeter-totter of the angled scaffolding» (Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., pp. 90-91). torna su
22 A sostegno di questa interpretazione si veda Corsaro, Appunti sull’autoritratto cit., pp. 126-27; Id., La poesia comica di Michelangelo. Per una nuova edizione dei testi, in «Italique», xvi, 2013 (http://italique.revues.org/376), pp. 195-230, in partic. p. 202. Di questo tema si è occupata anche chi scrive in Ai margini del discorso artistico cit., pp. 13-19. torna su
23 Questa particolare “figuratività” del sonetto e vicinanza all’opera pittorica michelangiolesca è notata anche da Barkan (cfr. Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., pp. 85-87). torna su
24 Si veda a questo proposito O. Schiavone, Michelangelo Buonarroti. Per un’immaginario comune tra letteratura e arte nel Rinascimento, in «Letteratura e Arte», 7, 2009, pp. 43-77, in partic. pp. 53-54 (la cit. è a p. 53); Id., Michelangelo Buonarroti. Forme del sapere cit., pp. 99-100. torna su
25 In questo senso Barkan definisce l’operazione del sonetto come «the opposite of ekphrasis» (Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., p. 88) torna su
26 A questo proposito Paola Barocchi parla di una «polisemica equivalenza del fantoccio sulla volta e del deformato pittore» (Barocchi, Michelangelo e la sua scuola cit., p. 7). Già Tolnay nota come «die Karikatur sich bloß auf das Dekenbild beschränkt» (cfr. De Tolnay, Die Handzeichnungen Michelangelos cit., p. 428). torna su
27 Su questo tema si veda R. W. Lee, Ut pictura poesis. The humanistic Theory of Painting, New York, Norton, 1967; M. Baxandall, Giotto and the Orators: Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition 1350-1450, Oxford, Clarendon, 1971; H. Markiewicz, Ut Pictura Poesis…A History of the Topos and The Problem, in «New Literary History», 18, 3, 1987, pp. 535-58; É. Passignat, Il Cinquecento: fonti per la storia dell’arte, Roma, Carocci, 2017, pp. 76-78. torna su
28 F. D’Olanda, Dialoghi romani o Della pittura antica. Libro secondo, in Id., I trattati d’arte, a cura di G. Modroni, Livorno, Sillabe, 2003, pp. 101-60, la cit. è a p. 134; mio il corsivo. I Diálogos em Roma furono scritti da Francisco d’Olanda, pittore portoghese, in seguito al suo soggiorno romano, avvenuto tra il 1538 e il 1541 circa, durante il quale conobbe e frequentò Michelangelo (cfr. G. Modroni, Nota introduttiva, in D’Olanda, I trattati d’arte cit., pp. 7-11, in partic. pp. 7-8). Completati intorno al 1548, i Diálogos mettono in scena una serie di conversazioni sulla creazione artistica (in particolare pittorica), avvenute durante gli incontri tra l’autore, Vittoria Colonna, Michelangelo e Lattanzio Tolomei nella chiesa di San Silvestro. Sebbene questi dialoghi abbiano effettivamente avuto luogo, è difficile ricostruire con esattezza in che misura essi riflettano le idee dei personaggi coinvolti e quanto si debba invece attribuire alla finzione letteraria. Per una panoramica generale dei principali contributi critici a favore o contro l’assunzione dei Diálogos come fonte attendibile delle idee di Michelangelo si veda M. Frings, Rezension von ‘F. De Hollanda, Diálogos em Roma (1538). Conversations on Art with Michelangelo Buonarroti, ed. by G. Folliero-Metz, with a preface by W. Drost, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 1998’, in «Journal für Kunstgeschichte», 3, 1999, pp. 264-67, in partic. pp. 264-65. Per quanto riguarda il passo citato, data la diffusione del topos dell’ut pictura poesis nel Rinascimento e la tendenza riscontrabile anche in alcune poesie di Michelangelo a considerare le due arti, pittura e scrittura, come equivalenti (cfr. in partic. Rime 84 e 90), si può presumere che queste affermazioni non siano troppo lontane dal pensiero di Michelangelo. torna su
29 Cfr. Barbero, Ai margini del discorso artistico cit., pp. 13-18. torna su
30 Barkan, Michelangelo. A Life on Paper cit., p. 85. torna su
31 «He is himself becoming the metamorphosed work of art»; «The poem evacuated the fresco and turned its maker into a tortured, metamorphic work of art» (ivi, risp. pp. 88 e 92). torna su
32 L’identificazione della figura con il Profeta Gioele è suggerita da Barkan, tra altre possibili ipotesi (cfr. ivi, p. 91). Irving Lavin aveva a suo tempo proposto di vedere in questa figura la rappresentazione di Dio nella scena della Creazione del Sole e della Luna, interpretandone la distorsione come espressione del «senso di inadeguatezza» dell’artista. Si veda I. Lavin, Bernini and the Art of Social Satire, in Id., Drawings by Gianlorenzo Bernini from the Museum der Bildenden Künste Leipzig, Princeton University Press, 1981, pp. 27-54, in partic. p. 34: «If, as I suspect, the grotesque figure on the vault alludes to God the Father, Michelangelo’s thought may reach further still: referring to the traditional analogy between the artist’s creation and God’s, the graffito style would express his sense of inadequacy». Questa identificazione è ripresa da Rona Goffen, che aggiunge: «Michelangelo did not mean to mock God with this purposefully silly drawing but rather himself, thereby elucidating the sardonic self-deprecation of his poem» (R. Goffen, Renaissance Rivals. Michelangelo, Leonardo, Raphael, Titian, New Haven-London, Yale University Press, 2002, pp. 218-20). torna su
33 Per quanto riguarda il topos dell'assimilazione tra creazione artistica e divina, è interessante notare che il concetto di artista "divino" appare solo a partire dal Cinquecento, e che proprio questo sarà il «concetto centrale» nel trattato Da pintura antiga di Francisco de Hollanda (cfr. E. Di Stefano, Tra cielo e terra. La figura dell'artista nel Rinascimento, in Feritas, humanitas e divinitas come aspetti del vivere nel Rinascimento, Atti del XXII Convegno internazionale di Chianciano Terme-Pienza, 19-22 luglio 2010, a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Franco Cesati, 2012, pp. 623-34, la cit. è a p. 625) − autore che, come si è già detto, era molto vicino a Michelangelo: «Così avevano in considerazione gli antichi come divina forza e divina imitazione quella dell'uomo, poiché dipingeva a somiglianza di Dio Eterno; e quando essi, pur essendo uomini, videro le loro opere adorate dagli altri uomini, decisero di competere con le opere di Dio e della natura» (F. D'Olanda, Della pittura antica. Libro primo, in Id., I trattati d'arte cit., pp. 19-99, la cit. è a p. 42; si veda anche il capitolo i: Come Dio fu pittore, ivi, p. 23). torna su