Vincenzo Vitale
La chiave della dedica:
Alfonso duca di Calabria Anticristo in una novella di Masuccio
1. Problema di datazione della novella
Il manoscritto Landau 17 attesta le prime redazioni delle novelle ii, iii, xxi e xxi del Novellino di Masuccio. Ma la redazione originaria della seconda novella è testimoniata anche dai manoscritti fiorentini Magliabechiano II. II. 56 e − solo per la parte iniziale − dal Riccardiano 2437. Ciò è indizio di una fortuna particolare di questa novella spicciolata nelle raccolte toscane del Quattrocento.
Già nella redazione originaria la seconda novella del Novellino di Masuccio è intitolata all’«excelso principe don Alfonso de Aragona dignissimo duca de Calabria».1 Si tratta del figlio di Ferrante d’Aragona, Alfonso, che divenne duca di Calabria (titolo spettante tradizionalmente all’erede al trono del Regno di Napoli) alla morte del nonno Alfonso I d’Aragona detto il Magnanimo, il 27 giugno 1458. Questa data parrebbe rappresentare dunque il termine a quo della diffusione manoscritta della novella. Tuttavia nella redazione originaria Vincenzo Ferrer è indicato come «beato» e «beatissimo»,2 non come santo. Poiché il predicatore valenzano fu canonizzato il 29 giugno 1455,3 la mancata indicazione di santità sembrerebbe ricondurre la composizione della novella a un momento anteriore a questa data.
Non appare in verità contraddittorio riferirsi a un santo con l’attributo di beato, dal momento che il secondo titolo è in qualche modo contenuto nel primo. Nella redazione definitiva della seconda novella, risalente ai primi anni Settanta (essa tiene conto della sua riscrittura a opera di Pontano in un dialogo latino, il Charon, composto intorno al 1470),4 Caterina da Siena è ancora «beata» (Nov. ii 19),5 nonostante fosse stata canonizzata da Pio II nel 1461. Se non si vuole postulare un mancato adeguamento,6 l’incongruenza si può spiegare forse come ricorso deliberato a un titolo più basso. Tuttavia nel caso di Vincenzo Ferrer è l’autore stesso a fornirci con una variante un indizio indiretto sulla necessità di intendere in senso stretto l’originaria denominazione di «beato». Nella redazione della novella compresa nel Novellino Vincenzo non sarà più indicato come beato ma come santo: «con altre coselline del loro san Vincenzo» (Nov. ii 14). La correzione pare implicare l’adattamento del primitivo attributo alla nuova dignità di Vincenzo Ferrer. Ma se al momento dell’originaria composizione della seconda novella Vincenzo Ferrer non era ancora santo, allora essa dovrebbe essere collocata, come si è detto, in un periodo anteriore al 29 giugno 1455. Sennonché questa congettura non sembra conciliabile con quella che si ricava dall’intestazione, dove Alfonso è già duca di Calabria, titolo assunto, come si è visto, soltanto nel 1458.
L’apparente discordanza di questi indizi cronologici è stata risolta da Petrocchi con l’ipotesi di una scansione in tempi diversi della composizione e della diffusione della novella. La redazione originaria sarebbe stata composta prima del 1455: di qui l’indicazione di beato e non di santo per Vincenzo Ferrer; tuttavia Masuccio avrebbe fatto circolare la novella soltanto dopo il 1458, dedicandola ad Alfonso, a quel punto già duca di Calabria.7 Questa soluzione implica che al momento della diffusione manoscritta della novella Masuccio abbia o eletto ex novo il dedicatario o aggiornato l’intestazione della dedica, non preoccupandosi tuttavia (oppure mancando per errore?) di adeguare la qualifica di Vincenzo Ferrer. All’origine dell’ipotesi di Petrocchi è il presupposto della fragilità e della mutevolezza di un elemento come la dedica, che di solito risulta aggiunto in un momento successivo alla composizione: in caso di contraddizione, la data della composizione è da lui fissata secondo le indicazioni cronologiche esibite dalla novella piuttosto che secondo quelle deducibili dall’intestazione.
L’esperienza della storia letteraria dimostra in effetti l’estrema precarietà degli elementi cosiddetti paratestuali, e delle dediche in particolare, più direttamente esposte − dislocate come sono ai margini delle opere − alle mutazioni e alle intemperie della storia. Innumerevoli sono i casi di dediche corrette, aggiornate o ripudiate nel passaggio dalla prima alla seconda redazione di un’opera. Il modo più naturale e automatico per il lettore moderno di considerare il rapporto tra dedica e opera non è tuttavia valido per le novelle di Masuccio. Nel Novellino il dedicatario è titolare di una priorità logica rispetto alla novella. È quest’ultima a gravitare intorno al destinatario, e non viceversa. Masuccio elegge dapprima il dedicatario, informando in un secondo momento il testo novellistico al profilo biografico del ricevente.8 Vale dunque la pena vagliare l’ipotesi che le indicazioni cronologiche legate al dedicatario siano in qualche modo preminenti rispetto a quelle apparentemente iscritte nel corpo della novella, e che quindi la prima redazione della seconda novella del Novellino risalga a un periodo intorno al 27 giugno 1458, quando Alfonso divenne appunto duca di Calabria.
Un ulteriore indizio cronologico può essere dedotto dalla dedica stessa ad Alfonso. All’inizio dell’esordio Masuccio si difende da alcuni «ipocriti mormoratori»,9 che lo attaccano accusandolo di scrivere e parlare unicamente dei vizi e degli inganni dei religiosi: «Da questi cotali dissimulatori sono io de continuo soffiato, morso e lacerato, per acagione che dicono ch’io ho derizata la penna e la lingua che non pare che me sappia d’altro ragionare, scrivere se non contra de’ frati». In questo passo (pressoché immutato nella redazione definitiva) è evidente un’eco dall’introduzione della quarta giornata del Decameron, dove Boccaccio replica a coloro che gli avevano rimproverato una eccessiva passione per le donne. L’aggettivo «soffiato» è memore dell’immagine boccacciana dello «’mpetuoso vento e ardente della ’nvidia» (Dec. iv Intr. 2), «rabbioso spirto» (ivi, 3) da cui Boccaccio si dice «fieramente scrollato» (ivi, 4).10
Dichiarando indifferenza per questo vento, verso la fine dell’introduzione Boccaccio usa proprio il termine «soffiar» (ivi, 40). Lo stesso conciso tricolon di Masuccio, «soffiato, morso e lacerato», condensa alcuni meno asciutti passi boccacciani: «Né per tutto ciò l’essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da’ morsi della ’nvidia esser lacerato, non ho potuto cessare» (Dec. iv Intr. 4); «Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, […] sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto» (ivi, 8); «Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro» (ivi, 32). Il brano in cui Masuccio riporta le obiezioni dei suoi censori non sembra completamente estraneo neppure a un passo della conclusione del Decameron, dove Boccaccio si difende proprio dall’accusa di aver messo in cattiva luce i frati nelle sue novelle: «E chi starà in pensiero che ancor di quelle non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de’ frati?» (Dec. Conclusione 25-26).
Difendendosi dalle accuse di eccessivo accanimento contro i religiosi alla maniera delle apologie boccacciane del Decameron, Masuccio fornisce indirettamente un indizio di datazione relativa. Gli accusatori gli imputano di condurre un’aspra campagna polemica contro i frati non solo con la «lingua» ma anche con la «penna», non soltanto di «ragionare», ma anche di «scrivere». Ciò comporta che al momento di redigere la dedica della novella di fra Giovanni Masuccio avesse già pubblicato una novella antifratesca. Ora, l’unico testo di polemica anticlericale tra le novelle conservate in prima redazione − composte presumibilmente negli anni Cinquanta del Quattrocento − è quello delle brache di san Bernardino, prima redazione della terza novella del Novellino, dedicata a Giovanni Pontano. Registrando la reazione di alcuni lettori, la dedica ad Alfonso duca di Calabria fissa dunque a mio parere una successione implicita tra le prime redazioni delle due novelle. Come ho avuto modo di ipotizzare, la prima redazione della novella delle brache dovrebbe risalire a un periodo immediatamente successivo alla pubblicazione nel 1453 degli Amores di Pontano.11 Ne deriverebbe così che la prima redazione della seconda novella del Novellino sia stata composta e diffusa da Masuccio dopo il 1453. Si tratta di una prima ipotesi coerente con la datazione della novella che proporrò più avanti in questa sede.
Lo stretto rapporto della dedica ad Alfonso con la prima redazione della terza novella è confermato da alcuni evidenti e mirati riecheggiamenti testuali. Gli ipocriti biasimati all’inizio della dedica ad Alfonso sono gli stessi dai quali Masuccio aveva messo in guardia Pontano nella prima redazione della terza novella. Nella dedica a Pontano Masuccio aveva fatto presente al dedicatario che solo i peggiori criminali si intrattengono con i religiosi:
per accagione che con loro [i religiosi] non usano si non usurari ladri fornicatori ed uomini disliali e de mala sorte, e ciò avviene per posserno sotto tale ipocrita conversazione ingannarno altrui, quali senza la prattica de’ religiosi, essendono de tanti scelesti vizii ammorbati, le loro manifeste sceleragine non averebono con alcuno luoco.12
L’“amico” dedicatario era stato esortato a correggere il suo unico vizio − la «sola macchia» delle sue straordinarie virtù morali e intellettuali − intermettendo in maniera definitiva il suo «continuo conversare con religiosi d’ogne sorte». Con riprese lessicali ben studiate, nella dedica ad Alfonso duca di Calabria riaffiorano sia la metafora della macchia, sia l’insistita denuncia del pericolo rappresentato dalla conversazione con i religiosi. Per ingannare più comodamente il prossimo, gli ipocriti detrattori di Masuccio discettano di scienza e virtù, esibiscono dimestichezza con i frati, mostrano ad arte di avere consuetudine con la preghiera e la venerazione delle reliquie:
Sono alquanti, serenissimo signiore mio, che volendo voltizzare sovra la sapienza e la integrità, ed estimando mostraronsi a’ vulgari boni e de virtù ornati, le loro conversazione fanno de continuo con religiosi, e quando da molti veduti sono, spontandono paternostri se pascono de piedi de santi; e quanto coloro che ciò adoperano, siano de nefandi peccati e scelestissimi vizii amachiati, quelli che con tali vengono a strette pratiche, me ne possono già rendere vero testimonio.13
Oltre a confermare che le critiche si erano appuntate proprio sulla novella di fra Nicolò da Nargni, le consonanze con la dedica a Pontano forniscono un indizio sull’identità stessa dei denigratori di Masuccio. Non è possibile pensare che a Pontano fosse riuscito di affrancarsi nel frattempo dal vizio imputatogli dal sedicente amico. Come ho avuto modo di argomentare, pur facendo mostra di voler correggere il difetto di Pontano, con l’apologo delle brache miracolose Masuccio aveva inteso in realtà denunciarne allusivamente la natura e la disposizione ipocritamente fratesca.14 È dunque più probabile che nella dedica ad Alfonso duca di Calabria Masuccio mirasse a colpire tacitamente proprio Pontano e il circolo umanistico del Panormita. Un sotterraneo collegamento di Pontano con gli «ipocriti mormoratori»15 pare segnalato anche da una corrispondenza lessicale non casuale. Per ingannarli meglio, i contestatori di Masuccio si mostrano agli uomini comuni «boni e de virtù ornati». Quest’ultimo sintagma è memore del passo della dedica a Pontano in cui erano apparentemente esaltate le qualità del dedicatario: «cognoscendo il tuo pirigrino spirto essere de tante singolare virtù ornato».16 Pontano è dunque associato − per via allusiva ma senza possibilità di appello − ai censori facinorosi di Masuccio.
In entrambe le dediche si riconosce il riflesso della contesa tra due opposti indirizzi culturali. Nei due testi affiora non a caso − più o meno direttamente e centralmente − il motivo dell’amicizia. Masuccio si dichiara sollecito della salute morale di Pontano «per obsiquire i precetti della perfetta amicizia», esortando poi l’amico a non introdurre i nefandi religiosi nella cerchia ristretta dei suoi amici: «alloro non darai materia per l’uscio della tua amistà entrarno a contaminare le toe brigate».17 Nella dedica ad Alfonso l’autore si dice certo che le sue novelle antifratesche saranno apprezzate da tutti «coloro che sono del vero e de la onestà amici e cognosceturi», con mirato ricorso all’isotopia dell’amicizia. Ma a dispetto di quanto induce a credere la superficie del testo, la controversia non ha luogo solo tra gli amici di Masuccio e i religiosi, ma soprattutto tra i primi e i sodali umanisti di Pontano. È molto probabile del resto che il racconto delle mutande di fra Nicolò gabellate per reliquie di san Bernardino avesse suscitato una reazione di dissenso presso i circoli umanistici della corte napoletana. Pontano era stato non solo il destinatario esplicito, ma anche − insieme con il Panormita −18 l’oggetto implicito dell’accesa polemica di Masuccio.
La novella delle brache era stata criticata per il fatto di colpire i religiosi in modo generico, facendo un fascio unico dell’erba fratesca: «non pare che me sappia d’altro ragionare, scrivere se non contra de’ frati, quali affirmano esserno tutti osservanti de loro religione, e se alcuno scelerato ce ne fusse, il numero de’ boni el numero de’ boni [sic] perfidiano ch’è infinito».19 In effetti nella dedica a Pontano Masuccio aveva esortato il dedicatario a diffidare dalla categoria dei religiosi senza alcun distinguo, colludendo nella beffa delle brache di san Bernardino, oltre al fantomatico fra Nicolò da Nargni, tutto il capitolo dei frati minori di Catania. Masuccio mostra ironicamente di voler seguire il consiglio dei censori, occupandosi non dei religiosi in generale, ma di un frate specifico: «Tutta via, per alquanto con li sopraditti mei laceratori pacificarme in questa mia verissima storia, a te, gloriosissimo Segnor, derizata, voglio retraerme da scrivere contro la generalità de’ religiosi [...] a particulare persona descendendo». E in effetti, diversamente dalla novella delle brache, l’autore non introduce come protagonista un religioso immaginario, ma una figura storica, ben conosciuta alla corte aragonese di Napoli, ossia un «fratre predicatore pistolese»:20 un domenicano originario di Pistoia, il cui nome − svelato all’inizio della novella − è «fra Giovanni da Pistoia».
Nato nel 1430, il predicatore domenicano Giovanni da Pistoia prese i voti religiosi nella città di Masuccio, a Salerno, nel 1449. Negli anni successivi fu mandato a studiare a Parigi.21 Nel 1460 era già a Messina, impegnato a diffondere in Sicilia il culto di Vincenzo Ferrer.22 Fu poi legato alla corte di Ferrante d’Aragona negli anni Ottanta.23 La seconda novella del Novellino porta in scena alcuni aspetti reali della vita di Giovanni da Pistoia: la fama di predicatore ammaliante, il culto per le reliquie di Vincenzo Ferrer, l’avidità di ricchezze e la passione per libri lussuosi.24
Aspetto centrale nella pseudo-biografia violentemente parodica del Novellino è il culto di fra Giovanni per Vincenzo Ferrer. Il predicatore pistoiese fu in effetti in contatto diretto con Pietro Ranzano, domenicano e umanista palermitano che, dopo aver seguito direttamente il processo di canonizzazione a Roma, fu incaricato da papa Callisto III e dal maestro generale dell’ordine domenicano, Martial Auribelli, di redigere la prima vita ufficiale di Vincenzo Ferrer.25 La biografia, in latino, fu compiuta nello stesso 1455.26 Nel 1463 Pietro Ranzano, allora provinciale dell’Ordine in Sicilia,27 spedì al compagno Giovanni da Pistoia una breve vita di san Vincenzo estratta dai suoi Annales, insieme con la storia della sua canonizzazione e alcuni versi sulla vita del santo.28 Nella lettera di accompagnamento l’autore accenna al fatto che quell’invio avveniva su sollecitazione dello stesso fra Giovanni, che aveva fatto richiesta di notizie in forma sinottica e memorabile a cui ricorrere più agevolmente per la predicazione.29 Già poco dopo il 1455 Giovanni da Pistoia era dunque impegnato probabilmente a diffondere in Sicilia il culto di Vincenzo Ferrer. Una leggenda poco plausibile identificava Giovanni da Pistoia addirittura con il bambino fatto a pezzi dalla madre e prodigiosamente resuscitato da Vincenzo Ferrer,30 in uno dei miracoli più popolari e celebrati nelle inchieste di canonizzazione sul predicatore valenzano.31
Nella rappresentazione di questi dati della biografia di Giovanni da Pistoia la seconda novella del Novellino presenta un grado molto alto di fedeltà storica. Mi pare tuttavia poco probabile che la beffa della falsa Annunciazione ordita dal protagonista della novella ai danni di una Barbara di Lanzhuet possa costituire anche solo l’eco letterariamente amplificata di un episodio reale. Masuccio mostra di voler presentare l’antefatto dell’arrivo (o del ritorno) di Giovanni da Pistoia nel Regno di Napoli. Nella dedica annuncia il racconto non soltanto della beffa perpetrata in Germania, ma anche dell’arrivo del frate in Italia e a Napoli: «come de po’, nelle famose parte de Italia pervenuto, e massime in Napoli, adoperasse li soi dolosi e fraudolenti inganni, te serà anco brevemente manifestato».32 La promessa è adempiuta verso il finale della novella, dove è narrata la fuga del religioso dalla Baviera. Dopo un passaggio in Toscana, fra Giovanni sarebbe arrivato a Napoli, dove avrebbe imperversato ingannando i creduloni per mezzo di reliquie false e di una retorica da imbonitore:
Fra Johanni, vedendo omne dì agumentare el vassello del novo evangelista, al presto partirse del tutto se dispose; e [...] comparatosi doi boni ronzini, con lo suo compagno in breve tempo se retrovò in Toscana, e da quindi in Napoli pervenuto con le ditte reliquie e con lo suo ceretano stile beffando ed ingannando omne persona, oltra lo acumulare de denari, de gioie e de semptuosi libri, offendendo Idio...
Nel séguito Masuccio esibisce una reticenza giustificata dalla irrilevanza per la storia narrata e da esigenze di cautela. Ma pur non indugiando a narrare nessuno degli effetti particolari delle beffe messe in atto da fra Giovanni a Napoli, il narratore non rinuncia a reiterare le accuse, giungendo a scagliare un vero e proprio anatema contro il frate domenicano, augurandogli di bruciare all’inferno come eretico, giungendo addirittura a titolarlo annunciatore dell’Anticristo:
E perché uscire sarebbe da la presente istoria, ed anco per alcuno onesto respetto, tacerò li frutti che rendereno le soi pratiche con lo mostrare el fare de miracoli senza effetto de verità alcuna, e per lo cognoscere de la scioccheza del grosso vulgo vindicandosi, el nome de santo con grandissima arte uzurpava in mediate la potenzia de la grande maestà di Dio: cosa orrenda e reprobata, e di farlo più presto al foco come eretico e meritamente condempnare che tra el numero de’ religiosi in alcuno modo essere agregato. Di che se deve credere che a coloro che a questo precorsore de Anticristo indebitamente troppa fede li prestarono, loro fe’ vedere la divinità de li angeli del paradiso.
I verbi al passato in tutto l’excursus sul soggiorno napoletano di fra Giovanni inducono a pensare che al momento della scrittura il domenicano fraudolento avesse ormai abbandonato la capitale del Regno. Come detto, nel 1460 la presenza di Giovanni da Pistoia è attestata a Messina. Non è improbabile che vi si fosse recato già qualche anno prima di quella data, come è plausibile che la novella sia stata composta e diffusa dopo la partenza di fra Giovanni da Napoli.
Tenendo conto della notizia sul periodo di studi trascorso da fra Giovanni a Parigi, che avrà avuto luogo poco dopo il 1450, si può forse arrischiare la seguente ricostruzione. Tornato in Italia da Parigi intorno alla metà degli anni Cinquanta, fra Giovanni potrebbe essere arrivato in Sicilia poco prima del 1458. Prima di giungere a Messina il frate domenicano passò molto probabilmente per la capitale del Regno, dove erano recenti le celebrazioni per la canonizzazione di Vincenzo Ferrer, il cui culto, come si è detto, egli si sarebbe impegnato a diffondere in Sicilia negli anni successivi. Raccontando il viaggio di fra Giovanni dalla Baviera a Napoli passando per la Toscana, Masuccio avrebbe potuto voler proporre una satirica versione del viaggio oltralpe di fra Giovanni, insinuando che il domenicano fosse stato non a studiare a Parigi ma a sedurre giovani aristocratiche in Germania. In questo modo si potrebbe spiegare anche l’ironica pretesa di presentare il racconto come una storia vera, contenuto nell’intestazione della prima redazione, dove la novella è indicata come «istoria per Masuzio Guardato».33 E tuttavia i pochi dati che possediamo della biografia di Giovanni da Pistoia non consentono inferenze sicure.
I pochi elementi conosciuti della vita di fra Giovanni da Pistoia avvalorano in ogni caso l’ipotesi che il racconto della beffa in Germania sia un’invenzione di Masuccio. Innanzitutto, non sono riferite notizie intorno ad un soggiorno in Baviera di fra Giovanni, che pure fu predicatore itinerante che viaggiò più volte oltre i confini italiani.34 La scorribanda germanica, come detto, è presentata probabilmente dall’autore come versione alternativa del soggiorno oltremontano di fra Giovanni. Nessun lettore contemporaneo si sarà lasciato tuttavia convincere dalla versione evidentemente poco plausibile di Masuccio. Pur nella cautela consigliata dalla scarsezza delle informazioni storiche, non mi sembra troppo azzardato credere che l’episodio della beffa in Baviera − a dispetto delle assicurazioni di verità e della costante ricerca di verisimiglianza storica − fosse concepita da Masuccio come una sorta di invenzione manifesta, di evidente gioco letterario.
I primi lettori contemporanei, gli umanisti censori della dedica e gli uomini della corte aragonese sapevano molto bene che fra Giovanni da Pistoia, da loro conosciuto personalmente, non era mai stato a predicare in Baviera. La palese finzione del racconto sottraeva così attendibilità all’intenzione, proclamata ironicamente nella dedica, di accontentare i suoi detrattori non reprobando la generalità dei religiosi, ma denunciando le autentiche malefatte di un frate particolare. La palese letterarietà della storia ne potenziava l’esemplarità, inducendo a estendere a tutti i predicatori domenicani la ribalderia del protagonista. Che Masuccio non intendesse circoscrivere il dominio della sua polemica a un’unica figura storica è comprovato del resto dal finale ammonitore della novella, la cui ultima parola non costituisce una qualificazione restrittiva, ma una descrizione caratterizzante l’autentica natura di tutti i religiosi: «E questi sono li frutti, fronde e fiori che ce rendono le pratiche de li fratri ingannatori».35 In più (e si tratta di una prova definitiva in tal senso) una volta scoperto l’inganno subìto da Barbara il padre duca di Landshut decide di distruggere l’ornatissimo monastero domenicano fatto costruire per la figlia, uccidendo tutti i frati domenicani presenti nel suo stato: «E da fiera ira aceso, de continente mandò per tutto el suo dominio, ed in omne lato dove trovò fratri domenechini, li fe’ vituperosamente amazare».36 L’induzione dal particolare al generale che determina lo sterminio di domenicani è la stessa a cui esorta sottilmente la novella.37 Del resto, proprio per non aver creduto alla corruzione generale dei religiosi ser Rogieri era caduto vittima − nella novella precedentemente pubblicata da Masuccio − della beffa del capitolo dei frati minori di Catania.
Scegliendo il frate domenicano Giovanni da Pistoia come persona storica protagonista della sua beffa letteraria Masuccio perseguiva probabilmente obiettivi polemici differenti ma paralleli. Innanzitutto colpiva indirettamente la devozione per Vincenzo Ferrer, nonché il favore di cui l’ordine domenicano godeva in alcuni ambienti della corte napoletana. Non è escluso inoltre che la scelta di Masuccio ricadesse su Giovanni da Pistoia anche per motivi di sottili allusioni onomastiche al destinatario occulto della novella, Giovanni Pontano. Nella novella delle brache miracolose, come ho avuto modo di argomentare, Masuccio aveva probabilmente creato un alter ego di Pontano nel francescano umbro Niccolò da Nargni, denunciando la natura fratesca e ipocrita dell’umanista.38 Scegliere un frate di nome Giovanni nella successiva novella anticlericale (concepita proprio come risposta alle rimostranze degli umanisti e di Pontano in particolare) consentiva a Masuccio di introdurre nel testo una spia onomastica della vocazione fraudolentemente religiosa di Pontano. Non a caso, dopo l’indicazione del nome completo «Giovanni da Pistoia» all’inizio del racconto, il domenicano nella novella è indicato unicamente (fa eccezione un’unica occorrenza di «Pistorese»)39 con la qualifica religiosa associata al nome di battesimo. Il sintagma è ripetuto ben dieci volte nel testo: «Fra Giovanni», «fra Giovanni», «fra Johanni», «fra Johanni», «fra Johanni», «fra Johanni», «fra Johanni», «fra Johanni», «fra Johanni», «Fra Johanni».
Ma l’accanimento nei confronti di Giovanni da Pistoia aveva probabilmente anche lo scopo di depistare il lettore, attirandolo lontano da una chiave interpretativa di gran lunga più pericolosa. La condanna insistita di un domenicano realmente esistito serviva a nascondere qualcosa di estremamente più delicato: l’esibizione era usata come mezzo di occultamento, l’eccesso di luce come sottilissimo artificio per abbagliare il lettore. Per scardinare il velo sapientemente tessuto dall’autore è allora necessario tentare di decifrare il meccanismo di rispecchiamento che regola il rapporto tra la seconda novella del Novellino e il suo dedicatario Alfonso d’Aragona duca di Calabria.
2. Barbara e la regina Isabella Chiaramonte
Dal momento che Masuccio dispone le leve del dispositivo allusivo nelle pieghe anche più riposte della costruzione narrativa, giova far precedere a questo tipo di analisi una ricapitolazione sinottica del racconto. Il ricchissimo barone di Landshut in Baviera ha un’unica figlia di nome Barbara. Quando è ormai in età da marito, i genitori scoprono con disappunto la sua sincera ed esaltata vocazione religiosa. Durante l’adolescenza, la principessa aveva pronunciato segretamente un solenne voto di castità, consacrando la sua verginità a Gesù Cristo. Per quanto addolorati nel vedersi preclusa ogni possibilità di discendenza, dopo molti vani tentativi di dissuasione, i duchi accettano l’irriducibile resistenza opposta da Barbara alla proposta di prendere marito. Palesata finalmente la propria esaltazione religiosa, la principessa trasforma la sua camera in un luogo di preghiera, sottoponendosi in questa cappella privata a dure astinenze e pratiche di mortificazione del corpo.
La fama di Barbara giunge a molti religiosi pronti ad approfittare del suo ingenuo fervore religioso. Nell’agone prevale tra tutti il domenicano Giovanni da Pistoia. Egli si costruisce artatamente una nomea di santo predicatore, imperversando per la Baviera con un falso dito di Vincenzo Ferrer e una presunta tonaca di san Domenico. Cadendo nella macchinazione, Barbara chiede di incontrare il domenicano; convinta ingenuamente della santità del frate, Barbara gli chiede consiglio su come aumentare il proprio benessere spirituale. Innamoratosi della bella aristocratica, Giovanni da Pistoia le consiglia di appartarsi dal mondo in una comunità di vergini consacrate a Gesù Cristo. In accordo con il duca e la duchessa viene eretto così un ricchissimo monastero, dove Barbara si ritira a vivere secondo la regola della beata domenicana Caterina da Siena, insieme con moltissime giovani donne appartenenti a famiglie aristocratiche.
Nel chiuso del convento fra Giovanni continua a ordire la sua trama perversa, mirando a congiungersi carnalmente con la giovane. Sapendo che mai l’ingenua ma sincera Barbara avrebbe ceduto alle sue lusinghe, il domenicano pensa di approfittare del suo entusiasmo religioso, facendole credere di essere stata eletta da Dio per concepire un fantomatico «quinto Evangelista». Per persuaderla fra Giovanni manomette il libro di preghiere illustrato che le appartiene, aggiungendo di nascosto in corrispondenza della bocca dell’immagine dello Spirito Santo le parole di una falsa nuova Annunciazione: «Beata te, Barbara, però che in lo tuo felicissimo ventre se conciparà una santa criatura, e ciò serà il quinto Evangelista, quale manifestarà tutti i secreti della scrittura santa […] per la salute de tutta la cristiana religione».40 Per realizzare il suo astuto disegno il frate appronta numerosi biglietti azzurri con lettere dorate di contenuto analogo a quello del primo annuncio, incaricando un chierichetto di gettarle da un soppalco di legno nel grembo di Barbara in preghiera. Per allontanare da sé ogni sospetto, fra Giovanni fa finta dapprima di considerare questi messaggi come un tentativo di seduzione del demonio, mostrandosi convinto dell’autenticità della profezia solo al reiterarsi della pioggia miracolosa di cartoline annuncianti. Dopo tanti segni della volontà divina, Barbara si convince della veridicità dell’Annunciazione, candidamente gloriandosi (nella sua fanciullesca esaltazione religiosa) di essere stata eletta da Dio per concepire il quinto evangelista.
Con stratagemmi diabolici il religioso induce Barbara a chiedere proprio a lui (creduto santo e sedicente illibato) di aiutarla a concepire il quinto evangelista. L’ultimo tranello escogitato da fra Giovanni per giacere con l’ingenua Barbara assume i contorni di una cerimonia satanica, di un rito cristiano rovesciato. L’insolito servizio divino ha luogo nottetempo nella camera di Barbara. Come prima cosa, per ammirarne la bellezza, ma affettando l’opportunità di una cerimonia liturgica, fra Giovanni fa mettere la giovane nuda tra due grandi candele; la fa poi sedere davanti a sé e − dopo averle baciato il sesso − la porta sul letto prendendone possesso. Nella convinzione di unire il devoto col dilettevole, Barbara consente a unirsi col frate per più notti, fino al concepimento del presunto Evangelista. A questo punto fra Giovanni è costretto a preparare la fuga: racconta così alla donna che intende recarsi a Roma per annunciare al pontefice l’imminente nascita del nuovo apostolo, affinché il capo della cristianità invii a Barbara una commissione di cardinali che sancisca solennemente la santità del nascituro al momento stesso del parto. Raccolte le sue cose, fra Giovanni si affretta a tornare in Italia: prima in Toscana e poi a Napoli, dove inganna tanti altri creduloni con frodi non molto dissimili da quella usata con Barbara. Nel frattempo la beffa è scoperta dai duchi di Landshut, che − disperati − ordinano massacri indiscriminati di domenicani, estirpano il monastero fino all’ultima pietra e maritano la figlia con un barone di basso rango.
Per riconoscere il dispositivo allusivo che presiede al nesso tra dedicatario e novella è necessario innanzitutto comprendere a quale persona storica corrisponde il personaggio di Barbara.41 Il primo criterio di cui tenere conto per la ricerca è la prevedibile contiguità al dedicatario Alfonso duca di Calabria. Un altro indizio può essere dedotto forse dall’interpretazione del nome Barbara fornita allusivamente dal narratore, che definisce il ducato di Landshut «barbaro alamano paese».42 L’aggettivo sembra insinuare uno scioglimento del nome della protagonista come ‘donna straniera’, appartenente a un mondo lontano e diverso per costumi dal Regno di Napoli.43 Un’indicazione sulla persona a cui è ispirato il personaggio di Barbara si può ricavare se si interpreta l’insinuazione pseudo-etimologica di Masuccio in modo non semplice e diretto. Come nella novella delle brache, dove l’adultera protagonista di nome Agata tradisce un’allusione onomastica a sant’Agata, vergine martire patrona di Catania, anche nella seconda novella del Novellino il nome del principale personaggio femminile potrebbe insinuare un sottinteso ironicamente antifrastico. L’insistenza sull’origine straniera di Barbara potrebbe valere dunque come un obliquo e dissimulato indizio circa la provenienza schiettamente autoctona della persona storica implicata.
Entrambi questi requisiti (contiguità al dedicatario Alfonso duca di Calabria e origine regnicola) risultano soddisfatti da un personaggio storico di primissimo piano: la regina Isabella Chiaramonte, moglie di Ferrante d’Aragona e madre di Alfonso duca di Calabria. Isabella nacque probabilmente nel 1424 da Tristano, cavaliere francese giunto a Napoli al séguito di Giacomo di Borbone nel 1415, e da Caterina del Balzo Orsini.44 Avendo perduto sia la madre (nel 1430) sia il padre (nel 1441), Isabella restò molto giovane orfana, essendo adottata dallo zio materno Giovanni Antonio del Balzo Orsini. Dopo aver considerato la possibilità di unire in matrimonio l’erede Ferrante a una figlia di Filippo Maria Visconti o del re di Francia Carlo VII, re Alfonso decise di chiedere la mano di un’esponente del baronaggio regnicolo, sperando di rinsaldare in questo modo i vincoli di fedeltà dell’aristocrazia terriera alla corona aragonese. Il matrimonio tra Ferrante e Isabella si celebrò nella cattedrale di Napoli l’8 maggio 1445. Il 4 novembre 1448 da questa unione nacque il primogenito Alfonso, futuro erede del Regno napoletano; nel luglio 1450 Eleonora, nell’ottobre 1451 Federico. Durante la guerra di successione aperta dalla morte di Alfonso I Isabella svolse un importante ruolo nel governo e nella difesa di Napoli. La regina morì quarantunenne il 30 marzo 1465, circa un anno dopo la conclusione definitiva della guerra di successione.
Come reggente della capitale durante la prima ribellione dei baroni Isabella compare nella settima novella del Novellino, ambientata nel 1460. In questo racconto la regina è ingannata da un frate Partenopeo, il quale, sotto il pretesto di svolgere attività di intelligence a favore degli Aragonesi, approfitta della situazione di emergenza per condurre a termine impunemente le sue avventure erotiche: «se avia con tale apparenze vindicata una fama e divozione maravigliosa, e non sulo tra privata gente, ma avia per tal modo abbagliata la signora regina, or col fingerse sfrenato aragonese, or con assai altri simulati inganni, che da niuno secreto consiglio era privato» (Nov. vii 10). Nel Novellino la regina compare dunque come figura storica che si lascia ingannare ingenuamente da un religioso:45 si tratta di un primo elemento di compatibilità a distanza tra Barbara, protagonista della seconda novella, e Isabella Chiaramonte. L’implicito collegamento interno di Barbara con la regina Isabella è confortato dall’uso dello stesso participio abbagliata nella prima redazione della seconda novella, con riferimento proprio a Barbara stupita e turbata dalla luce delle splendenti cartoline annuncianti: «[Barbara] così confusa ed abagliata toltasi da l’orazione».46 L’aggettivo sarà eliminato nella redazione definitiva di questo passo, ma sarà ripreso non a caso − con compensazione allusiva − nella settima novella, dove la regina Isabella è appunto «abbagliata» da un fra Partenopeo. D’altra parte l’uso del verbo abbagliare per indicare l’inganno di fra Partenopeo ai danni dell’ingenua regina è forse deliberatamente memore della scena della seconda novella in cui il frate domenicano è tanto abbagliato dalla bellezza di Barbara nuda, da caderle in braccio privo di sensi.
Ma è lo stesso profilo biografico della regina a coincidere in maniera impressionante con il profilo delineato per la Barbara della seconda novella del Novellino. Innanzitutto è molto stretto il parallelismo delle rispettive situazioni familiari delle due donne. Barbara è l’unica figlia del duca di Landshut: «Al quale la fortuna concesse de la sua donna una sola figliuola, chiamata Barbara».47 La caratteristica di figlia unigenita è sfruttata dal narratore per esaltare con un bisticcio l’avvenenza della giovane donna: «e come, per essere unica, fosse dal patre e da la matre unicamente amata, così le soi belleze uniche erano extimate in tutta Alamagna». Come detto, dopo la morte dei genitori Isabella fu posta sotto la tutela dello zio Giovanni Antonio del Balzo Orsini, a cui la moglie Anna Colonna non aveva dato figli legittimi. In qualche misura Isabella era dunque figlia unigenita di Giovanni Antonio. La corrispondenza allusiva è rafforzata dalla agevole associazione tra il padre putativo di Isabella e il genitore di Barbara, descritto come «potentissimo Segnore, nominato el duca de Lanzuhet, ricchissimo e de stato e de gioie e de contanti oltre ad ogn’altro barone alamano».48 Giovanni Antonio del Balzo Orsini era infatti duca proprio come il padre di Barbara: il nucleo principale dei suoi vasti domini era costituito dal ducato di Bari, il cui possesso fu confermato all’Orsini da Alfonso il Magnanimo nel settembre 1441,49 e di nuovo nel 1444,50 proprio in occasione delle trattative preliminari per il matrimonio di Isabella con Ferrante.
Se il padre di Barbara è descritto come il più potente e il più ricco dei baroni tedeschi, Giovanni Antonio del Balzo Orsini può essere sicuramente riconosciuto come il più potente e il più ricco dei baroni del Regno. In una descrizione diplomatica del reame che risale al 1444, Giovanni Antonio Orsini occupa significativamente il primo posto nel catalogo dei feudatari del Regno: «De lo Reame de Napoli se ritrova di presente quisti principi, duca, marchexi e conti: Primo: Lo principo da Taranto, che ha nome Zuane Antonio dal Balzo fiolo de messer Raimondo dal Balzo».51 Con la conquista del trono di Napoli da parte di Alfonso il Magnanimo, l’Orsini, che aveva parteggiato per l’Aragonese contro Renato d’Angiò, si trovò a diventare possessore di più di quattrocento terre abitate («castelle»), che gli avrebbero permesso di muoversi da Taranto a Napoli senza mai uscire dai propri possedimenti: «Lo principo da Taranto è signore da per se in lo Reame de più de quatrocento castelle. E comenzia el suo dominio da la porta del merchà de Napoli [...] e dura per xv zornade per fina in capo de Leucha [...]. Item [...] ha sotto de se [...] tutto lo ducato de Barri».52 I suoi domini feudali avevano la dimensione e le fattezze di un vero e proprio «stato nello stato».53 E come il padre di Barbara, Giovanni Antonio del Balzo Orsini non fu ricco solamente «de stato», ma anche «de gioie e de contanti»: il suo leggendario tesoro fu stimato dall’inizio in più di un milione di ducati.54 Con il matrimonio della figlia adottiva con l’erede al trono Ferrante Alfonso I aveva perseguito l’intento di garantire la fedeltà del maggior feudatario del Regno alla corona aragonese. Tuttavia alla morte del Magnanimo fu proprio Giovanni Antonio del Balzo Orsini a farsi principale animatore della rivolta contro Ferrante.
Ma l’aspetto del personaggio di Barbara che più da vicino ricorda Isabella Chiaramonte è l’acceso zelo religioso. La straordinaria devozione di Isabella è registrata in un suo ritratto letterario quattrocentesco. Si tratta della biografia compresa nella Gynevera de le clare donne, raccolta di trentatré elogi di donne illustri allestita dal bolognese Sabadino degli Arienti nel 1490. Dopo aver tracciato un sintetico albero genealogico e accennato al matrimonio con Ferrante («et per firmarlo [Ferrante] cum forte spale ne la successione del regno, [Alfonso] gli dette per moglie Isabella che era de anni xxii, cara nepote (come propria figliuola) del principe de Taranto»),55 Sabadino fornisce un lusinghiero ritratto fisico e morale della regina di Napoli.56 In questa sede interessa soprattutto l’esaltazione della religiosità di Isabella, testimoniata secondo l’autore dal fatto che neppure nei momenti più difficili della guerra di successione la regina avrebbe intermesso le sue severe pratiche di devozione e di mortificazione del corpo: «Mai fu tanto occupata in le occorentie del regio stato, che ella pretermitesse li officii, le oratione, le messe, li deiunii, le abstinentie, le discipline et il portamento de cilitio, et le elemonise, perché era catholica, devota et amante de Dio».57 L’enfasi posta da Sabadino sulla religiosità di Isabella non può essere frutto di una prassi encomiastica generica e di maniera. La familiarità con il cilicio e con ascetiche pratiche di espiazione è ribadita infatti da un episodio raccontato verso la fine della biografia di Sabadino degli Arienti. Non molto dopo la sua morte sarebbe stato ritrovato un cofanetto appartenuto alla regina Isabella; per lo stupore di tutti, sicuri di rinvenirvi gioie e pietre preziose, la cassetta avrebbe contenuto invece il cilicio e una frusta per l’autoflagellazione: «Infra le sue più chare reliquie et spoglie fu trovato uno coffanetto, nel quale, credendose fusse pieno di geme, li era uno cilicio et una sferza per la disciplina». Le mortificazioni corporali cui Isabella si sarebbe sottoposta per tutta la vita sono molto affini a quelle praticate da Barbara nella novella di Masuccio: «La Barbara [...] fatto in la sua camera uno devotissimo oraculo, sequia con tanta austerità la sua impresa, e con degiuni e descepline adfligere e macerare el suo dilicatissimo corpo, che mirabile cosa era a considerare».58
Le analogie tra Isabella e Barbara non si limitano alla condivisione di una religiosità ingenua ed esaltata, ma riguardano anche la peculiare radice domenicana della loro devozione. Giova ricordare che − ingannata dal domenicano Giovanni da Pistoia, devotissimo del domenicano Vincenzo Ferrer − Barbara si ritira a vivere in un convento secondo la regola della domenicana Caterina da Siena. Ebbene, Isabella Chiaramonte nutrì una predilezione particolare per l’ordine domenicano, essendo legatissima al convento e alla chiesa dei domenicani di San Pietro Martire a Napoli. Proprio in questa chiesa Isabella convocò i cittadini napoletani durante la guerra di successione, chiedendo loro di prestare risorse economiche alla corona in difficoltà: «Così lei se redusse nel templo del divo Pietro martyro, dove fece chiamare molti citadini; […] et cum tanta benignità li recomandò el marito et lei, che ogniuno li prestò amorevolmente denari».59 A Isabella Sabadino attribuisce persino la fondazione della chiesa di San Pietro Martire (in realtà ben più antica; ma il riferimento è forse alla ricostruzione seguita al terremoto del 1456): «Cum grande devotione instaurò in Neapoli un templo, chiamato sancto Petro martire, de la religione de Dominico divino confessore, dove lassò octomilia ducati de brocati et vestimente sue».60 Come si apprende con maggior precisione da altre fonti,61 nel 1464 Isabella donò ai domenicani di San Pietro Martire vesti preziose, apparati liturgici e libri (tra cui una Bibbia e le Epistole di san Giacomo). L’indizio più eloquente dello speciale rapporto con i domenicani è la decisione di essere sepolta nella stessa chiesa di San Pietro Martire: «Il mesto re, cum magnificentissima pompa funebre et lugubre et de exequio, fece recundere el morto corpo nel templo del divo Pietro martyro, come lei in vita disse volere essere sepulta».
Il rapporto di Isabella con i domenicani di San Pietro Martire è descritto con altri particolari interessanti in una Vita et gesti della Serenissima D. Isabella di Chiaromonte Duchessa di Calabria e Regina di Napoli, il cui manoscritto è stato rinvenuto da Gennaro Toscano nel fondo del monastero di San Pietro Martire presso l’archivio di Stato di Napoli.62 L’autore è un domenicano del monastero di San Pietro Martire, il quale si propone di redigere una biografia di Isabella Chiaramonte come debito omaggio a una figura tanto prodiga di benefici in favore del suo convento:
Si compiaccia il lettore, a tolerare si degni il piccol discorso, che si porge la nostra platea, in ossequio di questa Regal Dama, per l’obligo che si professa la nostra Casa in tante benevolenze mostrateli, col numquam satis: per quanto stender potevansi le sue reggie munificenze, radicate nel nostro Convento, che sin ora durano ne’ beni utili, che largamente sono pervenuti da quella destra, e sì come li suoi beneficj ci protestano, così a riguardo degli stessi devesi per gratitudine la lode.63
Per la composizione dell’opera è possibile indicare come termine post quem il 1601, anno citato alla fine della biografia come data della commissione dell’«urna di bianco marmo» che doveva contenere le ossa di Pietro d’Aragona (fratello di Alfonso il Magnanimo) e di Isabella Chiaramonte.
In occasione della partenza di Ferrante per la guerra contro Firenze del 1452 Isabella avrebbe raccomandato il marito al beato Vincenzo Ferrer, già in vita sostenitore della dinastia aragonese:
era una croce continua che l’affliggeva, e sperimentava sollievo ogni qual volta che nelle sue orazioni raccomandavalo al Cielo, sotto le intercessioni del Beato Ferreri, che qual fù in vita parziale della Corona Aragonese: talora in Cielo vi stendesse il braccio della sua protezione.
Interessanti ragguagli sono offerti dalla biografia anche sugli ultimi momenti dell’esistenza di Isabella, caratterizzati da epifanie particolarmente evidenti della sua devozione domenicana. Nelle ultime parole rivolte al marito Isabella avrebbe raccomandato al sovrano i domenicani di San Pietro Martire: «li raccomandò l’anima sua: li diè conto del suo spirito tanto piegato alla devozione Domenicana; che però si raccordava a memoria la Chiesa di San Pietro Martire». Non manca un aneddoto sulla volontà della regina di essere inumata con addosso la tunica domenicana. Re Ferrante avrebbe insistito però affinché apparisse vestita da regina; al che il confessore, confidente e consigliere di Isabella − il domenicano spagnolo Pedro de Mastrettis −64 trovò un compromesso tra le esigenze spirituali e la funzione pubblica della trapassata, abbigliandola con i vestiti regali sopra l’umile saio domenicano:
Aveva ella ordinato la sopraveste della sepoltura da Domenicana: siccome anticipatamente se l’aveva apparecchiata. Mà il Rè Ferdinando volle che da regina si seppellisse: bastandoli come e’ disse d’avere portata la tunicella domenicana sulla nuda carne mentre visse. Che però il suo confessore destinò vestirla dell’abito: e sopravestirla da Regina.
Prima di essere sepolta nella cappella di Vincenzo Ferrer nella chiesa di san Pietro Martire, a Isabella furono tributate le esequie normalmente destinate ai religiosi:
Furono fatte le funzioni funerali da tutti i Frati domenicani di Napoli giusta il metodo che si usa nella sepoltura de Religiosi: ma con solennissimo Canto [...]. Finite le funzioni funebri, e chiusa la Chiesa per mano di quattro Dame principali: fù il suo cadavere riposto entro un finissimo avello di gran pregio custodito [...] dentro la cappella di S. Vincenzo.
Ancora più interessanti per il mio discorso sono i passi della biografia che mostrano il coinvolgimento anche del primogenito Alfonso (futuro duca di Calabria) nella predilezione della regina per i domenicani. Isabella dimostrò un particolare attaccamento per l’ordine domenicano sin dal suo arrivo a Napoli a séguito del matrimonio con Ferrante. Risultò quindi naturale battezzare il primogenito Alfonso (due mesi dopo la sua nascita, nel gennaio 1449) nella chiesa di San Pietro Martire:
Sin da che giunse da Copertino in Napoli la Signora, mostrò la divozione, che nutriva nell’animo suo verso il nostro santo abito: per la quale fè elezione determinata di questa nostra Chiesa: dove frequentava le sue divote stazioni; e con tal fervore, e modestia che rapiva l’animo di tutti a lode di benedizioni; che perciò dopo due mesi dal suo parto si compiacque di portare l’infantino Alfonzo nella nostra Chiesa, e presentatolo a Dio nell’altare Maggiore, dopo la lunga orazione, volle che il Priore di quel tempo celebrata la messa, vestito con piviale, e Ministri solennizzasse le benedizioni in terra sopra l’infante, quale ella aveali supplicato dal Cielo: siccome fù eseguito al pari della divozione della nostra signora, alla quale funzione dispose l’intervento solo di poche Dame, e damigelle di Corte, senz’altro corteggio.
A essere posto sotto il segno della devozione domenicana non fu solo l’ingresso di Alfonso nella comunità cristiana, ma anche la sua gloriosa carriera di condottiero. Durante il regno del padre Ferrante Alfonso duca di Calabria fu capo dell’esercito napoletano in numerose imprese militari. In questa veste l’erede al trono si fece conoscere in Italia come valoroso comandante. La prima missione gli fu affidata alla tenerissima età di quattordici anni: tra la fine del 1462 e l’inizio del 1463, nel contesto della guerra di successione. Ferrante lo inviò come capo dell’esercito in Calabria, per sedare la rivolta antiaragonese in quella regione. Secondo il racconto della biografia, al momento del congedo per la spedizione in Calabria − ricevute le raccomandazioni da Ferrante − Alfonso fu benedetto nella chiesa di San Pietro Martire, ottenendo l’investitura come capo militare in quel luogo religioso tanto caro alla madre:
Non fù oziosa la regina a provedere d’istruzioni il suo figlio: e d’ogni maggior cautela spirituale perilche implorò dal Pontefice le sue benedizioni segnalate per il suo Duca di Calabria e condottolo nella nostra Chiesa, dove infante fù presentato, ivi coll’uso di sacramenti lo segnalò consacrato all’Altissimo pregandolo della sua speciale protezione, in appresso fattasi Cappella Regale tra la Celebrazione della Messa per il Rè Ferdinando si diede ad Alfonzo vestito da Guerriero la spedizione: e dalla Regina un Crocefisso piccolo, da portarsi adosso per ogni tempo, quale tenne dal Cardinale legato: quando l’incoronò Regina.
Gli episodi del battesimo e dell’investitura militare nella chiesa di San Pietro Martire testimoniano come Isabella Chiaramonte avesse coinvolto sin dall’inizio il primogenito nella sua entusiastica devozione per l’ordine domenicano. Non vi fu dunque alcun momento della vita del principe Alfonso in cui sarebbe stato neutro indirizzare proprio a lui una novella causticamente polemica nei confronti dell’ordine domenicano e del beato Vincenzo Ferrer.
3. Proposta per una nuova datazione della novella
L’analisi della novella ha mostrato come essa sia costruita a partire dalle figure storiche della regina di Napoli Isabella Chiaramonte e del primogenito Alfonso. Nel racconto di Masuccio il sistema di associazioni avvalorato dall’allusività dei personaggi implica una sottile denigrazione del duca Alfonso. La protagonista Barbara, come detto, appare come l’alter ego della regina Isabella Chiaramonte. Dunque al nascituro di Barbara risulta associato il primogenito Alfonso duca di Calabria. Indirettamente, il principe aragonese dedicatario della novella è associato al quinto evangelista, in realtà Anticristo concepito dall’unione satanica di un frate domenicano con una ingenua e devota vergine. Nella novella Barbara (controfigura di Isabella) è una vergine deflorata con l’inganno, mentre il personaggio legato ad Alfonso in modo allusivo è indicato surrettiziamente come Anticristo: ultima incarnazione storica del male prima del giudizio finale. Sotto l’apparenza delle lodi, il congegno letterario di Masuccio mira a colpire sottilmente l’erede al trono di Napoli Alfonso duca di Calabria. Si tratta di una interpretazione coerente con la lettura della novella xliv del Novellino da me fornita in altra sede.65
Non mi sembra dunque lecito ipotizzare, come fa Petrocchi, che la dedica ad Alfonso duca di Calabria sia stata concepita soltanto al momento di una più tarda diffusione dopo il 1458: la novella fu invece ideata e composta per il figlio di Isabella Chiaramonte erede del trono di Napoli. Questa acquisizione dovrebbe forse indurre per sé a escludere una composizione nei primi anni Cinquanta del Quattrocento, quando Alfonso aveva un’età inferiore ai sei anni. Mi sembra dunque che la composizione della novella di Masuccio non possa cadere nel quinquennio 1450-1455 indicato da Petrocchi,66 ma debba essere spostata più avanti.
La definizione di Vincenzo Ferrer come beato e non come santo è a mio parere meno cogente di quanto ipotizzato da Petrocchi. Come detto in precedenza, non è contraddittorio chiamare beato un santo: sia perché beato può essere utilizzato in senso generico, sia perché anche dal punto di vista formale ogni santo è anche beato. In altri termini se l’indicazione di santità, come quella riferita a Bernardino da Siena nella prima redazione della terza novella del Novellino, consente di fissare un sicuro termine a quo, non altrettanto vale per la definizione di beato. A prova di ciò si può osservare l’uso di Pietro Ranzano nella sua Vita di Vincenzo Ferrer, scritta certamente dopo la canonizzazione. Più di una volta Ferrer è indicato come santo; ad esempio all’inizio del terzo capitolo del primo libro, «Sanctus autem Vincentius, ubi primo rem huiuscemodi vidit, fuit vehementi timore commotus» (i iii 13), e nel primo capitolo del terzo libro: «Sanctus vero Vincentius […] Oremus, inquis, omnes pro anima illius Fratris» (iii i 4). Tuttavia quella di beato è l’indicazione di gran lunga più ricorrente, usata ad esempio all’inizio del primo capitolo del primo libro, «Beatus autem Vincentius» (i i 1), nonché in apertura della biografia vera e propria: «Beatus Vincentius ex Valentia, clarissima Hispaniae civitate, et ex antiqua honestaque Ferrariorum familia nativitatis duxit originem».67
Il biografo ufficiale di Vincenzo Ferrer, scrivendo dopo la canonizzazione, utilizza indifferentemente i termini beatus e sanctus, ma con una netta prevalenza di beatus. Nulla osterebbe a pensare che Masuccio, scrivendo anch’egli la novella di fra Giovanni dopo il 1455 e conoscendo tra l’altro probabilmente la biografia di Pietro Ranzano, abbia usato per Vincenzo Ferrer il termine beato benché il predicatore domenicano fosse già stato canonizzato dalla Chiesa. Non si può dunque escludere una data di composizione abbastanza tarda, comunque precedente al 1465, anno della morte di Isabella Chiaramonte. La cautelosa dissimulazione di Masuccio induce a credere infatti che la novella sia stata composta quando la regina di Napoli era ancora in vita.
E tuttavia, come detto, vi è un aspetto che induce a credere che in Masuccio beato sia usato in senso più stretto e che il passaggio a santo nella redazione definitiva della novella sia leggibile come un aggiornamento rispetto a uno stato di cose in evoluzione. Che al termine beato afferisca nella prima redazione della novella un’accezione più ristretta sembra confermato dalla particolare struttura testuale congegnata da Masuccio nel contesto della prima menzione di Vincenzo Ferrer:
el cui nome fu fra Giovanni da Pistoia, ne l’ordene de santo Domenico singulare predicatore reputato. El quale con grandissima arte da ceretano con uno dito del beato Vincenso, secondo lui medesimo diceva, e con una tonecella del ditto santo andando discorendo per lo barbaro alamano paese, facea de continuo secondo la oppenione d’alcuni becconi de innumerabili miracoli.68
In questo passo Masuccio attribuisce al fondatore dell’ordine dei predicatori la qualifica di ‘santo’ e a Vincenzo Ferrer quella di ‘beato’. Questo fatto mi sembra escludere che Masuccio abbia usato l’indicazione generica di ‘beato’ quando Vincenzo Ferrer era stato già canonizzato. Sarebbe infatti alquanto curioso rinviare a Domenico di Guzman col titolo più alto e a Vincenzo Ferrer con quello meno eminente nello stesso luogo, tanto più alla luce della palese intenzione di stabilire un parallelismo tra «santo Domenico» e il «beato Vincenso». Ancora più eloquente sotto questo rispetto è a mio parere il sintagma «ditto santo», che rinvia a un santo precedentemente nominato. Come notato da Petrocchi,69 a rigore di logica il riferimento non può valere che per san Domenico, l’unico definito appunto ‘santo’ nella porzione testuale immediatamente precedente. E tuttavia l’ellittico riferimento sembra creato appositamente per indurre un’ambivalenza sull’identità del santo titolare della «tonecella» spacciata come reliquia da fra Giovanni.70
Nel commento morale alla prima novella del Novellino (quindi immediatamente prima dell’inizio della seconda novella) il breve catalogo di false reliquie impiegate dai frati per i loro imbrogli è aperto proprio dalle tuniche di Vincenzo Ferrer: «E quando ogne arte a loro vien meno, si fingono santi e mostrano far miraculi: e cui va con tonicelle de san Vincenzo, e quali con l’ordene de san Bernardino, e tali col capestro de l’asino del Capistrano» (Nov. i 62). Certo, questo passo della redazione definitiva non autorizza a ipotizzare che il presunto titolare della «tonecella» nella prima redazione della seconda novella fosse Vincenzo Ferrer e non san Domenico. Tanto più che nella versione definitiva del Novellino cadono i riferimenti sia a san Domenico sia alla tunica, e le presunte reliquie di Vincenzo Ferrer sono indicate genericamente come «altre coselline del loro san Vincenzo» (Nov. ii 14). E tuttavia il riferimento alle «tonecelle di san Vincenzo» nella redazione definitiva sembra quasi introdotto ad hoc per incrementare la ricercata equivocità dell’architettura testuale nel passo della prima redazione.
Questi indizi lasciano pensare che anche i lettori contemporanei della prima redazione potessero interpretare il sintagma «ditto santo» come riferito a san Domenico o a Vincenzo Ferrer. Si potrebbe forse accampare l’ipotesi che l’intero passo in questione sia stato redatto durante un periodo storico caratterizzato da un’ambiguità reale circa la santità di Vincenzo Ferrer. Ebbene, una situazione di questa sorta si verificò effettivamente: benché Vincenzo Ferrer fosse stato proclamato santo da Callisto III con una cerimonia pubblica in San Pietro il 29 giugno 1455, la sua canonizzazione si completò formalmente soltanto il 1° ottobre 1458, quando il successore di Callisto, Pio II, promulgò la bolla di canonizzazione Rationi congruit.71
L’insolito ritardo nell’emanazione della bolla di canonizzazione fu legato forse al dissidio sorto tra i domenicani e il vescovo di Vannes intorno al possesso e alla gestione del corpo di Vincenzo Ferrer;72 oppure, come ipotizza l’anonimo domenicano di San Pietro Martire autore della biografia di Isabella Chiaramonte, a questioni di dissenso politico sorte tra papa Callisto III e Alfonso il Magnanimo:
in appresso si procedé alla [...] Canonizzazione, con giubilo universale di Santa Chiesa. Ma però non fù spedita la Bulla in allora, si disse per alcuni fini politici trà il detto Papa ed il Rè Alfonzo presso alcuni storici: però la dimora si fù nella dilazione tenuta per la Causa suddetta; si celebrorno in tanto le festi da per tutto, e specialmente in questa Capitale: promosse dalla signora Duchessa [Isabella Chiaramonte], che tanto desiderato aveva nell’animo suo, e qual tutelare l’aveva eletto del Reame, anche Beato, anelava di adorarlo Santo.
La congettura circa il contrasto tra Callisto III e Alfonso I come origine del ritardo nell’emanazione della bolla, avanzata dall’anonimo sulla scorta di storici non meglio identificati, non mi pare affatto peregrina. Già quattro mesi dopo l’elezione a pontefice, quello che fino a quel momento era stato uno strettissimo e fedele collaboratore del sovrano di Napoli, si trasformò in un suo irriducibile nemico.73 Il conflitto sorse anche a causa del mancato contributo di Alfonso all’allestimento caldeggiato da Callisto di una flotta cristiana da opporre ai Turchi.1
Soprattutto non mi pare improbabile che la canonizzazione di Vincenzo Ferrer fosse sfruttata come strumento di lotta politica: non ratificarla definitivamente con una bolla di canonizzazione significava togliere al re aragonese una potente fonte di legittimazione dinastica. Non può essere del resto un caso che alla morte di Alfonso Callisto III si rifiutasse di riconoscere la successione di Ferrante, fomentando la ribellione dei baroni; mentre Pio II (eletto papa il 19 agosto 1458), dopo aver emanato la bolla di canonizzazione di Vincenzo Ferrer il 1° ottobre 1458, pochi giorni dopo, il 17 dello stesso mese, riconobbe ufficialmente Ferrante come nuovo re di Napoli. Il perfezionamento della canonizzazione di Vincenzo Ferrer rappresentò l’effettivo preludio all’investitura del figlio illegittimo di Alfonso.74
L’insolito differimento nella promulgazione della bolla di canonizzazione fu dunque l’effetto di una questione politica tutt’altro che secondaria, che Masuccio non poteva ignorare. La calibratissima ambiguità del passo della prima redazione della seconda novella del Novellino in cui sono citati san Domenico e Vincenzo Ferrer rispecchia dunque probabilmente la situazione in essere tra il 29 giugno 1455 e il 1° ottobre 1458, quando la santità di Vincenzo Ferrer, già proclamata in San Pietro, non aveva ancora visto la definitiva ratifica di una bolla di canonizzazione. Opporre «santo Domenico» al «beato Vincenso» equivaleva a insistere sottilmente sul fatto che Vincenzo Ferrer − a dispetto delle pompose celebrazioni promosse dalla corte di Napoli, in particolare dalla regina Isabella Chiaramonte − ufficialmente era ancora soltanto beato e non santo. Chiamando Vincenzo Ferrer beato e non santo Masuccio intendeva contestare la strategia di legittimazione dinastica perseguita dai sovrani aragonesi attraverso la canonizzazione del predicatore valenzano.
Il termine ante quem indicato da Petrocchi in funzione della denominazione di beato non va dunque rifiutato tout court, ma solo spostato al 1° ottobre 1458, data dell’emanazione della bolla di canonizzazione di Vincenzo Ferrer da parte di Pio II. La prima redazione della novella di Masuccio risale probabilmente al periodo tra il 1457 e il 1° ottobre 1458. La sua divulgazione avvenne invece certamente dopo il 27 giugno 1458, giorno della morte di Alfonso il Magnanimo. Fu infatti alla morte del nonno che Alfonso − figlio di Ferrante e Isabella − divenne erede ufficiale al trono, assumendo quel titolo di duca di Calabria con cui è designato nell’intestazione della dedica di Masuccio: «Allo excelso principe don Alfonso de Aragona dignissimo duca de Calabria».76
L’analisi della novella consente di comprendere come il titolo dell’intestazione non costituisca un’aggiunta accessoria, ma viceversa il dato storico a partire dal quale è costruita l’intera operazione letteraria di Masuccio. La novella fu divulgata poco dopo l’elevazione di Alfonso a duca di Calabria: apparentemente per celebrare il fausto evento, in realtà per denunciare sottilmente l’indegnità del nuovo erede al trono. Le sottilissime implicazioni del racconto proiettano sull’aggettivo «dignissimo» un’ombra inquietante di antifrasi. Negli ultimi anni del regno di Alfonso il Magnanimo la campagna di legittimazione del giovane Alfonso perseguiva soprattutto lo scopo di corroborare la successione di Ferrante, anello debole della linea dinastica perché figlio illegittimo del conquistatore di Napoli. Impugnare la dignità del nuovo duca di Calabria implicava dunque una indiretta contestazione della legittimità di Ferrante, in un frangente delicatissimo come quello dell’investitura a re di Napoli, alla vigilia della lunga ed estenuante guerra di successione (1459-1464).
Ipotizzare che la novella sia stata composta tra il 1457 e l’inizio del 1458, essendo divulgata tra il 27 giugno e il 1° ottobre 1458, consente anche di risolvere meglio la difficoltà cui si era trovato di fronte Petrocchi. Lo studioso aveva appurato l’apparente contraddizione degli indizi cronologici contenuti nella dedica e nella novella: come detto, l’indicazione di «duca de Calabria» conduce a un periodo post 27 giugno 1458; la descrizione di Vincenzo Ferrer come beato riportava invece ai suoi occhi a un periodo anteriore al 1455. Petrocchi aveva pensato di risolvere questa apparente contraddizione postulando un periodo di composizione anteriore al 1455, ma una divulgazione posteriore al 1458. Tuttavia per quale motivo Masuccio avrebbe dovuto attendere almento tre anni prima di divulgare la novella? Trascurando poi tra l’altro di adeguare l’indicazione di ‘beato’ per Vincenzo Ferrer al momento della pubblicazione? Più coerente mi sembra l’ipotesi che la redazione della novella e la sua composizione si siano susseguite in un flusso continuo.77
Un ultimo, minimo ostacolo alla proposta di datazione qui avanzata potrebbe venire da un aspetto particolare della dedica. Per mostrare al nuovo duca di Calabria come anche un solo religioso corrotto aumenti la pericolosità di tutti gli altri confratelli Masuccio ricorre a una similitudine con la vita militare. Un unico soldato codardo può condurre alla distruzione di un intero esercito, nuocendo più di quanto possano giovare dieci soldati coraggiosi:
Occurreme donche, eccellentissimo Signiore mio, a tale preposito dire che, quantunque più facilmente tra cento soldati se ne trovarebbono la mità boni che tra tutto uno capitolo de fratri ne fusse uno senza bruttissima machia, non di meno quando ben fusse magiure el numero de’ boni che de’ cativi, ne sequerebbe non minore inconveniente, sì come avvene nelle perigliose battaglie, nelle quale assai fa più detrimento uno vile codardo che utile rendono diece animosi, non altramente veneria a li meseri secolari, quali più che non è de bisognio alloro falsità fede prestano; ché più ruina, vergogna e danno ce porgeria la pratica e conversazione de uno sceleste occulto ribaldo fratre che da la perfezione de cento boni ne traessimo commodità alcuna.78
Il paragone con la vita militare non sembra casuale, dal momento che la dedica è indirizzata a un principe che spese tutta la sua esistenza come condottiero di eserciti. Nato il 4 novembre 1448, Alfonso duca di Calabria fece la sua prima esperienza come capo militare appena quattordicenne, nel 1463, allorché fu inviato in Calabria per sedarvi la ribellione anti-aragonese. Ma fu la spedizione in Romagna del 1467, in aiuto dei Fiorentini contro l’esercito veneziano guidato dal Colleoni, a farlo conoscere in Italia come condottiero di valore. Negli anni successivi Alfonso fu il comandante generale dell’esercito napoletano, che il padre Ferrante aveva trasformato progressivamente, a partire dalla fine della guerra di successione, da mercenario a stanziale e centralizzato.79
La datazione della novella di Masuccio al 1458, quando Alfonso duca di Calabria non aveva ancora nove anni, potrebbe apparire troppo alta per giustificare il riferimento certamente non casuale della dedica alla vita militare. Vi sono tuttavia indizi storici che testimoniano l’eccezionale precocità della vocazione militare di Alfonso. Verso la fine del 1458, quando il duca di Calabria era appena decenne, Ferrante, assente dalla capitale perché impegnato a spegnere i focolai di rivolta nelle province del Regno, attribuì al figlio primogenito il titolo di luogotenente generale, affidandogli il governo della capitale. Questa investitura non fu soltanto formale, dal momento che presto sorsero forti dissidi tra Alfonso e la madre Isabella, tali da costringere il re a intervenire il 3 marzo 1459, affidando pieni poteri alla regina, con cui da quel momento Alfonso fu costretto a condividere la luogotenenza generale.80 Già alla fine del 1458 Alfonso era dunque portatore di una autonomia eccezionale per la sua giovane età.
Ma esiste una testimonianza ancora più impressionante sulla straordinaria precocità del principe. In una lettera inviata nel novembre 1455 a Francesco Sforza, Antonio Maletta, oratore milanese a Napoli, parlando del giovanissimo Alfonso − che aveva appena compiuto sette anni − avvisava che il principe aveva scritto di sua mano alla principessa Ippolita Sforza (a cui era stato da poco promesso sposo) facendo presente di saper utilizzare, oltre alla penna, già anche la spada e lo scudo: «El principe nostro de sua mano propria scrive ala nostra illustre principessa, avisando la vostra signoria che non solamente sa tenere la pena in mano, ma etiamdio sa scrimire e de spada e de bocalero».81 La vocazione militare di Alfonso fu dunque precocissima e dirompente; non sembra dunque incongruo che Masuccio vi facesse riferimento nella seconda metà del 1458, quasi tre anni più tardi dopo la stesura di questa lettera.
V. V.
Note
1 Cfr. G. Petrocchi, La prima redazione del “Novellino” di Masuccio, in GSLI, cxxix, 1952, 268, pp. 266-317, la cit. è a p. 298 (per questa edizione utilizzerò in séguito la sigla Prima redazione); la redazione promossa a testo da Petrocchi è quella testimoniata dal manoscritto Landau; l’intestazione, a parte qualche variazione della forma linguistica, è identica nel Magliabechiano e nel Riccardiano.
2 Prima redazione, pp. 303 e 309.
3 Cfr. Krafft, Papsturkunde und Heiligsprechung. Die päpstlichen Kanonisationen vom Mittelalter bis zur Reformation. Ein Handbuch, Köln · Weimar · Wien, Böhlau, 2005, pp. 965-74, in partic. p. 965.
4 Per la deduzione cronologica che colloca la riscrittura della novella da parte di Masuccio dopo il 1470 cfr. A Bozzoli, Sulle giornate iii e iv e sulla struttura del ‘Novellino’ di Masuccio Salernitano, Mantova, 1976, p. 14. Per la riscrittura del Charon di Pontano che influenza la redazione definitiva della novella si veda S. S. Nigro, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento, prefazione di E. Sanguineti, Roma-Bari, Laterza, pp. 90-92; per la datazione del Charon intorno al 1470 cfr. S. Monti, Ricerche sulla cronologia dei ‘Dialoghi’, in L. Monti Sabia − Id., Studi su Giovanni Pontano, a cura di G. Germano, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2010, vol. ii, pp. 757-834, in partic. pp. 765-91.
5 Il Novellino di Masuccio è citato da Masuccio Guardati, Il Novellino (con appendice di prosatori napoletani del ’400), A cura di G. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1957; così in séguito, salvo indicazioni contrarie. Indico la novella con il numero romano, il paragrafo con il numero arabo.
6 È questa l’ipotesi di N. De Blasi, Indizi per il ‘Novellino’ di Masuccio Salernitano attraverso una lettera di Alfonso duca di Calabria a Lorenzo de’ Medici, in «Filologia e critica», xxxii, 2007, pp. 94-104, in partic. pp. 102-3, nota 22.
7 Cfr. Petrocchi, Per l’edizione critica del «Novellino» di Masuccio, in SFI, x, 1952, pp. 37-82, in partic. p. 46.
8 Sulla natura del rapporto tra dedica e racconto nelle novelle di Masuccio mi permetto di rinviare a V. Vitale, La dedica ad Ariete: implicazioni anti-aragonesi nel ‘Novellino’ di Masuccio, in «Margini. Giornale della dedica e altro», ix, 2015, 24 pagine, http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_9/saggi/articolo4/vitale.html; Id., Dottor Pontano e fra Pontano nella terza novella del ‘Novellino’ di Masuccio, in «Studi e problemi di critica testuale», xciv, 2017, 1, pp. 21-49; Id., Il braccio falso di Antonello Petrucci nella quarta novella del ‘Novellino’ di Masuccio, in «Versants», lxiv, 2017, 2, fascicolo italiano, pp. 1-9.
9 Prima redazione, p. 299; la cit. successiva è a p. 298.
10 Il Decameron è citato da G. Boccaccio, Decameron, Introduzione, note e repertorio di Cose (e parole) del mondo di A. Quondam, Testo critico e Nota al testo a cura di M. Fiorilla, Schede introduttive e notizia biografica di G. Alfano, Milano, BUR, 2013.
11 Cfr. Vitale, Dottor Pontano e fra Pontano cit., p. 35 e p. 36, nota 1.
12 Prima redazione, p. 273; le cit. successive sono a p. 272 e a p. 273.
13 Ivi, p. 298. Nella prima redazione della seconda novella affiorano anche altri motivi affini a quelli della prima redazione della terza. L’immagine del lupo, usata nella prima redazione della seconda novella per indicare la ferocia dei religiosi (cfr. ivi, pp. 303 e 304) era già occorsa nella dedica a Pontano. Con la dedica a Pontano la novella di Barbara e fra Giovanni condivide anche la designazione (probabilmente dantesca) dell’inferno come «precipizio» (ivi, p. 308). Inoltre il riferimento nella dedica ad Alfonso alla difficoltà di trovare un solo uomo onesto in un intero capitolo di frati sembra alludere in maniera sotterranea al capitolo di frati minori di Catania protagonista della prima redazione della terza novella del disonesto inganno a scapito di ser Rogieri.
14 Cfr. Vitale, Dottor Pontano e fra Pontano cit., in partic. p. 48.
15 Prima redazione, p. 299; la cit. successiva a p. 298.
16 Ivi, p. 272; così la cit. successiva.
17 Ivi, p. 273, le cit. successive a p. 299.
18 Cfr. Vitale, Dottor Pontano e fra Pontano cit., in partic. pp. 41-48.
19 Prima redazione, pp. 298-99; la cit. successiva è a p. 300.
20 Ibid.; la cit. successiva è a p. 303.
21 Cfr. S. Ferrali, Giovanni da Pistoia, beato, in Bibliotheca Sanctorum, Roma, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, 1965, vol. vi, pp. 868-70.
22 Una lettera di Pietro Ranzano a fra Giovanni in Messina è datata 1460: cfr. A. Barilaro, Pietro Ranzano, vescovo di Lucera, umanista domenicano in Palermo, in Temi medievali e umanistici. Cultura e Teologia, Pistoia, Memorie domenicane, 1978, pp. 1-197, in partic. pp. 6-7, nota 10; p. 44.
23 Cfr. la Chronica magistrorum generalium ordinis fratrum Praedicatorum, in A. Sorbelli, Una raccolta poco nota d’antiche vite di santi e religiosi domenicani, in «Rendiconto delle Sessioni della Reale Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna», s. ii, vi, 1921-1922, pp. 3-27.
24 Cfr. C. Bianca − E. Spinelli, San Bernardino nella polemica anticlericale di Masuccio Salernitano, in San Bernardino da Siena predicatore e pellegrino, a cura di F. D’Episcopo, Galatina, Congedo, 1985, pp. 181-96, in partic. le pp. 186-87, curate da Enrico Spinelli; Nigro, Le brache di san Griffone cit., p. 91; L. Terrusi, La ‘Vita della beata Barbara di Lanzhuet’ nel ‘Novellino’ di Masuccio Salernitano, in «La Nuova Ricerca», ix-x, 2000-2001, pp. 77-98, in partic. pp. 79-80.
25 Cfr. L. Ackerman Smoller, The Saint and the Chopped-Up Baby. The Cult of Vincent Ferrer in Medieval and Early Modern Europe, Ithaca and London, Cornell University Press, 2014, pp. 46-47.
26 La Vita Vincentii di Pietro Ranzano si legge negli Acta sanctorum: The Full-Text Database, Aprilis, 1:482-512, Cambridge, Chadwyck-Healey; l’intera Vita fu approvata dall’ordine domenicano nel maggio 1456 (cfr. Barilaro, Pietro Ranzano cit., pp. 44-47 e 125-29; B. Figliuolo, La cultura a Napoli nel secondo Quattrocento. Ritratti di protagonisti, Udine, Forum, 1997, p. 101; Ackerman Smoller, The Saint and the Chopped-Up Baby cit., p. 124).
27 Cfr. Barilaro, Pietro Ranzano cit.; Figliuolo, La cultura a Napoli cit., pp. 87-276, in partic. 149-51; Id., Ranzano, Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2016, vol. 86. D’ora in avanti indicherò il Dizionario biografico Treccani con l’abbreviazione DBI.
28 Cfr. Figliuolo, La cultura a Napoli cit., p. 109; Ackerman Smoller, The Saint and the Chopped-Up Baby cit., p. 127.
29 Cfr. ivi, pp. 63 e 127.
30 Cfr. Barilaro, Pietro Ranzano cit., p. 44; Ackerman Smoller, The Saint and the Chopped-Up Baby cit., p. 268, nota 197.
31 Cfr. ivi, pp. 144-59.
32 Prima redazione, p. 300; le citazioni successive sono alle pp. 315-16.
33 Ivi, p. 298.
34 Cfr. Ferrali, Giovanni da Pistoia cit.; Terrusi, La ‘Vita della beata Barbara di Lanzhuet’ cit., p. 93.
35 Prima redazione, p. 317.
36 Ibid.
37 D. Boillet, L’usage circonspect de la ‘beffa’ dans le ‘Novellino’ de Masuccio Salernitano, in Formes et significations de la ‘beffa’ dans la littérature italienne de la Renaissance, a cura di A. Rochon, Paris, Université Sorbonne Nouvelle, 1975, pp. 65-169, in partic. pp. 117-18.
38 Cfr. Vitale, Dottor Pontano e fra Pontano cit.
39 Prima redazione, p. 310; le citazioni successive sono alle pp. 304, 305, 307, due a 309, 311, 313, 314, due a 315; il manoscritto Riccardiano ha sempre la forma «Giovanni».
40 Ivi, p. 306.
41 Incoraggiato dalla storicità del domenicano Giovanni da Pistoia e forse dalla dichiarazione di storicità dell’intestazione, Leonardo Terrusi ha cercato di risalire ai possibili referenti storici degli altri personaggi della novella: i duchi di Landshut e la figlia Barbara. Terrusi nota che, proprio come il duca della novella, detto «ricchissimo e de stato e de gioie e de contanti» (ivi, p. 300), i veri duchi di Landshut erano conosciuti per la loro ricchezza, tanto da essere indicati con l’epiteto di ‘der Reiche’ (cfr. Terrusi, La ‘Vita della beata Barbara di Lanzhuet’ cit., p. 94). Coerentemente con le pur scarne e incerte notizie sulla biografia di Giovanni da Pistoia e sui dati cronologici della composizione della novella, i duchi che possono essere presi in considerazione per un’eventuale identificazione sono Heinrich IV (duca dal 1393 al 1450) e Ludwig IX (dal 1450 al 1479). Tuttavia, come riconosce lo stesso Terrusi, nessuno dei due ebbe una figlia unigenita di nome Barbara data in sposa a un barone di bassa nobiltà. Il nome Barbara era tuttavia ben attestato dagli alberi genealogici dell’alta aristocrazia bavarese. Terrusi addita in particolare una Barbara di Baviera figlia di Albrecht III duca di Monaco dal 1438 al 1460; questa figura è ancora più interessante per essere stata una monaca morta giovanissima e beatificata post mortem. Tuttavia, come riconosce lo stesso Terrusi, questa beata Barbara di Baviera − nata secondo i suoi biografi nel 1454 − difficilmente poté ispirare la protagonista della novella di Masuccio, la cui prima redazione fu composta non più tardi dei primi anni Sessanta. I dati messi in luce da Terrusi testimoniano tuttavia una strenua e precisa ricerca di verosimiglianza storica da parte di Masuccio, confermando nel contempo che − pur avendo come protagonista un frate realmente esistito − il racconto della beffa ha natura sostanzialmente letteraria e fittizia. Del resto, come nota giustamente Terrusi, i duchi di Landshut erano tutt’altro che distanti per un uomo di corte come Masuccio, presumibilmente buon conoscitore delle famiglie aristocratiche d’Italia. Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento la casata dei duchi di Landshut fu infatti imparentata con i Visconti di Milano; Heinrich era ad esempio figlio di Friedrich di Landshut e Maddalena Visconti, figlia di Bernabò. L’eventualità che a Masuccio fosse giunta anche solo un’eco lontana per questa via appare ancora più plausibile se si considera che proprio il dedicatario della novella, Alfonso duca di Calabria, già nel 1455 era stato promesso in sposo a Ippolita Sforza Visconti, figlia di Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti.
42 Prima redazione, p. 303.
43 L’allusiva interpretatio nominis fornita da Masuccio è registrata anche da Terrusi, che la giudica però «troppo immediata» (cfr. Terrusi, La ‘Vita della beata Barbara di Lanzhuet’ cit., p. 95).
44 Cfr. M. Moscone, Isabella Chiaramonte, regina di Napoli, in DBI, 2004, vol. 62, pp. 619-23, in partic. p. 619; G. Toscano, Isabella di Chiaromonte (1424-1465), reine de Naples, et sa commande à Colantonio du ‘Retable de saint Vincent Ferrier’, in Femmes de pouvoir, femmes politiques durant les derniers siècles du Moyen Âge et au cours de la première Renaissance, a cura di E. Bousmar, J. Dumont, A. Marchandisse, B. Schnerb, Bruxelles, De Boeck, 2012, pp. 585-99; B. Croce, Due letterine familiari di principesse italiane del Quattrocento, in Id., Aneddoti di varia letteratura, seconda edizione con aggiunte interamente riveduta dall’autore, Bari, Laterza, 1953, pp. 256-66, in partic. pp. 256-62.
45 Cfr. Boillet, L’usage circonspect de la ‘beffa’ cit., pp. 94-95, 119 e soprattutto 121: «Cette appréciation nuancée du rôle d’Isabelle pendant une des périodes les plus dangereuses pour la monarchie aragonaise s’accorde mal aux éloges sans réserves que la souveraine s’est valus. Elle concorde cependant avec les dires de Pontano qui déclarait entachée de superstition la piété d’Isabelle».
46 Prima redazione, p. 307.
47 Ivi, p. 300; così la cit. successiva. Con un aggettivo allusivamente cristologico, Barbara è detta ancora «unigenita» in un passo della prima redazione caduto nel passaggio alla redazione definitiva (ivi, p. 301).
48 Ivi, p. 300.
49 Cfr. A. Kiesewetter, Orsini del Balzo, Giovanni Antonio, in DBI, 2013, vol. 79, pp. 729-32, in partic. p. 730.
50 Cfr. Moscone, Isabella Chiaramonte cit., p. 620.
51 Descrizione della città di Napoli e statistica del Regno nel 1444, in «Archivio Storico per le province napoletane», a. 2, 1877, f. iv, pp. 731-57; la cit. è a p. 734.
52 Ivi, p. 746. Giovanni Antonio del Balzo Orsini era anche detentore del più importante ufficio amministrativo del Regno, quello di gran conestabile, che ne faceva l’uomo più potente del Regno dopo il sovrano: «Lo principo de Taranto sie gram Conestabelle, ed è principal officio e officiale [correggo “ofdciale”] sopra tutti quisti altri officij, che seguita; il perché è in pié de lo Re, che fa e disfà como li piace» (ivi, p. 748). Su Giovanni Antonio del Balzo Orsini si vedano anche Kiesewetter, Orsini del Balzo, Giovanni Antonio cit.; E. Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, pp. 62-63; e l’elegante e sintetico ritratto di B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari, Laterza, 1925, pp. 70-71: «Altri erano invigilati per mezzo di spie […] come fu del potentissimo principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini, il quale possedeva sette città arcivescovili, trenta vescovili e più di trecento castelli, e da Salerno a Taranto viaggiava sempre in suoi dominî, e da re Alfonso si era fatto concedere la città di Bari, con licenza di esportare quello che gli piacesse, cavando da simile concessione più di centomila ducati l’anno, e riscotendo inoltre, come gran contestabile, altri centomila ducati».
53 Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante cit., p. 63.
54 Cfr. Kiesewetter, Orsini del Balzo, Giovanni Antonio cit., p. 731.
55 Joanne Sabadino de li Arienti, Gynevera de le clare donne, a cura di C. Ricci e A. Bacchi Della Lega, Bologna, Romagnoli − Dall’Acqua, 1888, p. 247. Il rapporto filiale che legava Isabella allo zio Giovanni Antonio è sottolineato da Sabadino degli Arienti anche più avanti, nei passi in cui il principe di Taranto è definito «patruo» della regina di Napoli (ivi, pp. 252 e 255). Nel discorso con cui sarebbe riuscita a convincere lo zio a cessare la guerra contro il marito Ferrante, Isabella confessa apertamente la sua riverenza filiale per il principe di Taranto: «sempre il mio core te ha filialmente observato» (ivi, p. 256); «Pregoti duncha dolcemente, per paterno amore, lassi el duca Ioanne [Giovanni d’Angiò, avversario di Ferrante], et piglia el mio marito per figliuolo» (ivi, pp. 256-57).
56 Si veda almeno la descrizione dell’aristocratica bellezza di Isabella: «Questa Isabella fu formosissima, quanto mai regina se possa recordare. Alta de corpo, cum una grata macilentia, colorita biancheza; li suoi occhii tendevano un poco sul bianco; li capilli furono biondi et lungissimi. Infra certe venustà del suo corpo, mai fu veduta in donna mane più bianche, nè dete più longhi et ben proportionati, che a lei» (ivi, p. 248). Anche la bellezza di Isabella, soprattutto per la bianchezza della carnagione, sembra avere corrispondenza nel personaggio di Barbara: «le soi [di Barbara] belleze uniche erano extimate in tutta Alamagna da ciascuno che la vedea» (Prima redazione, p. 300); «crescendo tutta via ed in persona ed in belleza» (ivi, p. 301); «per la fama de tante mirabile belleze» (ibid.); «considerate tante più divine che mortale belleze» (ivi, p. 304); «desiderava vedere a lume de’ torchi se colei fusse sì bella nuda come era vestita […]. E lui medesimo despogliatose in camiscia, accese doi grandi torchi, e postola in mezo de quelli, e vedendo le soi eburnee e dilicatissime carne che con loro splendore venceno li lumi de li accesi torci» (ivi, p. 314).
57 Sabadino de li Arienti, Gynevera de le clare donne cit., p. 253; la cit. successiva è a p. 262.
58 Prima redazione, p. 302.
59 Sabadino de li Arienti, Gynevera de le clare donne cit., pp. 254-55; l’episodio è narrato anche nel De Bello neapolitano di Giovanni Pontano: si veda L. Monti Sabia, Tra prassi e teoria storiografica: il ‘De bello neapolitano’ e l’‘Actius’, in Ead. − S. Monti, Studi su Giovanni Pontano cit., vol. ii, pp. 995-1057, in partic. pp. 1031-32. Anche Pontano, pur essendo un anticlericale alquanto più moderato di Masuccio, nel ritratto di Isabella Chiaramonte offerto nel De bello neapolitano non manca di registrare la religiosità eccessivamente superstiziosa della regina: «Ipsa statim a primis annis mirum pudicitiae, ac continentiae studium praesetulit, domi parca, non tamen alieni appetens, formae, quantum dignitas posceret, studiosa, Religioni non sine superstitione dedita» (G. Pontano, Raccolta di tutti i più rinomati Scrittori dell’istoria generale del Regno di Napoli, Napoli, Giovanni Gravier, 1769, t. v, p. 47).
60 Sabadino de li Arienti, Gynevera de le clare donne cit., pp. 258-59; la cit. successiva è a p. 262.
61 Cfr. Moscone, Isabella Chiaramonte cit., p. 622.
62 Napoli, Archivio di Stato, Fondo Monasteri Soppressi, t. 695: cfr. Toscano, Isabella de Chiaromonte (1424-1465) cit., p. 587. Ringrazio Gennaro Toscano per avermi messo generosamente a disposizione una copia del manoscritto. Anche nel profilo storico di Isabella Chiaramonte tracciato dal domenicano di San Pietro Martire è evidenziata la natura filiale del rapporto della regina con Giovanni Antonio del Balzo Orsini. Nel discorso con cui avrebbe dissuaso lo zio a continuare la guerra contro il marito Ferrante Isabella afferma di supplicare l’«amatissimo zio e padre» come «nipote e figlia […] e non da Regina». Verso l’inizio della biografia si trova anche la notizia che proprio in occasione della trattativa per il matrimonio Alfonso il Magnanimo confermò a Giovanni Antonio del Balzo Orsini il possesso del ducato di Bari: «A riguardo di questo sposalizio il Signore Orsino Prencipe di Taranto tenne dalla Maestà d’Alfonzo la confirma della città di Bari al suo utile dominio».
63 Si tratta dell’inizio della biografia. Verso la fine del testo, prima di narrare gli ultimi momenti della vita di Isabella, l’autore dichiara i debiti contratti verso le fonti storiche presenti nell’archivio del convento di San Pietro Martire: «La lettura della presente storia si è presa da scrittori […] che sparsamente si leggono nell’Archivio: scritti, e notati dalla gratitudine de PP. per la memoria dovuta ad una tanto benefattrice Regina: cordiale Madre del nostro santo abito, e tutta piena di benevolenza per questa sua, e nostra Casa».
64 Cfr. Toscano, Isabella de Chiaromonte (1424-1465) cit., p. 590.
65 Cfr. Vitale, La dedica ad Ariete cit.
66 Cfr. Petrocchi, Per l’edizione critica cit., p. 46-49.
67 La formula «beatus Vincentius» occorre ancora a i i 2, i iii 16, i iii 17, i iii 18, ii iv 23, iii i 1, iii i 9, iii i 12, iii i 17.
68 Prima redazione, p. 303.
69 Cfr. Petrocchi, Per l’edizione critica cit., p. 46: «Preciso, a scanso di equivoci, che il “ditto santo” di II, par. 22, si riferisce a San Domenico» (corsivo dell’autore).
70 Per Vincenzo Ferrer si ha notizia di una cappa − la sopravveste nera dei domenicani − venerata come reliquia (cfr. Ackerman Smoller, The Saint and the Chopped-Up Baby cit., p. 22); per san Domenico nella cinquecentesca Historia generale di san Domenico e dell’ordine suo de’ predicatori (che riprende con ogni probabilità fonti più antiche) è invece attestata la storia di una tonaca miracolosa, che avrebbe salvato da un incendio la donna a cui san Domenico l’aveva lasciata in dono (cfr. Ferdinando del Castiglio, Historia generale di san Domenico e dell’ordine suo de’ predicatori, traduzione di Timoteo Bottoni, Venezia, Damiano Zenaro, 1589, p. i, p. 82).
71 Cfr. Krafft, Papsturkunde und Heiligsprechung cit., p. 968; Ackerman Smoller, The Saint and the Chopped-Up Baby cit., pp. xvii e 83.
72 Cfr. Krafft, Papsturkunde und Heiligsprechung cit., pp. 968-69.
73 Cfr. A. Ryder, The Kingdom of Naples Under Alfonso the Magnanimous. The Making of a Modern State, Oxford, Clarendon, 1976, pp. 409-21.
74 Cfr. M. E. Mallet, Callisto III, in Enciclopedia dei Papi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2000, vol. ii, pp. 658-62, in partic. p. 661.
75 Il riconoscimento di un nesso tra la successione di Ferrante e la canonizzazione di Vincenzo Ferrer è indicato da Lupo de Spechio come circolante negli ambienti della corte aragonese: «E tal vidi diri al dicto don Juhanne d’Ixar al re don Alfonso dintro la chiesia de Santo Dominico in Napuli: che era refermata la ellecione del re don Ferrando, publicata per Sancto Vincenso, perché fo canoniczato per papa Calisto lo dì de Santo Petro et Santo Paulo; perché si fosse estata injusta eleccione, non fora stato sancto Santo Vincenso, et Dio non averia concordato la eleccione et canoniczato en uno dì Sancto Vincenso della festa de Sancto Petro e Sancto Paulo» (Lupo de Spechio, Summa dei re di Napoli e Sicilia e dei re d’Aragona, a cura di A. M. Compagna Perrone Capano, Napoli, Liguori, 1990, p. 134).
76 Prima redazione, p. 298.
77 L’abbassamento della data di composizione al 1457-1458 mi pare possa contribuire anche a sanare almeno in parte la leggera incongruenza indicata da Leonardo Terrusi nell’ipotesi di datazione di Petrocchi: come poteva Giovanni da Pistoia, nato nel 1430, aver già acquisito fama di grande predicatore prima del 1455? (cfr. Terrusi, La ‘Vita della beata Barbara di Lanzhuet’ cit., p. 97, nota 63).
78 Prima redazione, p. 299.
79 Cfr. F. Storti, Il principe condottiero. Le campagne militari di Alfonso duca di Calabria, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, a cura e con un saggio introduttivo di M. Del Treppo, Napoli, Liguori, 2001, pp. 327-46, in partic. pp. 329-36.
80 Cfr. Moscone, Isabella Chiaramonte cit., p. 621.
81 Dispacci sforzeschi da Napoli, a cura di F. Senatore, Salerno, Carlone, 1997, vol. i, p. 297; il passo è citato in Storti, Il principe condottiero cit., p. 327.