7, 2013 | ||
Wunderkammer |
Ippolito Nievo
Angelo di bontà: il poema di don Gasparo, ovvero la Formianeide
a cura di Sara Garau
A suoni alti, ineffabili, tremendi S'apran le fauci del cantor palustre - |
Canto te, mio Signor, te che discendi D'avi per senno e insiem per forma illustri - |
Canto i voti del caos vortici orrendi; Canto del sommo Dio l'opera industre; Il caos donde tu uscisti, Iddio che aggiunto Ha in te del suo potere il maggior punto. |
Quando la gelosia del sommo Giove Prometeo fisse alle tartaree rupi All'ingiurie dei venti e delle piove Ed al becco dell'aquila… e dei lupi - |
Nota
Nel quadro della Venezia del Settecento entro cui Nievo cala le vicende di Angelo di bontà (1856), primo dei suoi tre romanzi dal sottotitolo distanziante, Storia del secolo passato, non può mancare la figura tipicamente settecentesca dell'abate letterato.2 Rappresentante di quella schiera di «poeti, che allora erano per ogni buco, povere e smilze cicale cui grattava il ventre la fame, e mal satollavano le briciole delle mense patronali»,3 questa figura è anche altrove investita di ironia dall'autore. «Un abatucolo / Tutto attillato / Die' con modestia / Il suo belato: Narrò parabole Edificanti: / Rimò tre volte Canti con Santi», si legge a proposito della stessa tipologia di letterato nei Centomila poeti dei Versi del 1854.4
Don Gasparo è il precettore di casa Formiani, fra i cui compiti rientra quello di conciliare il sonno al vecchio inquisitore con le sue quotidiane letture serali. La fatica principale e più cara all'abate è tuttavia la stesura di un poema - «sacro, gentilesco, cavalleresco o bordellesco?» - in ventiquattro canti (come i libri dei modelli epici per eccellenza, Iliade e Odissea), «tutti squisiti come questo tonno», con rime «dolci più dello zucchero» e composti nel metro canonico dei grandi poemi cavallereschi: forma in declino nel Settecento, usata ancora, per esempio, nella Pulcella d'Orléans e nella Musogonia dell'abate Monti, ma da considerarsi senz'altro superata per Nievo: «dubitiamo che se Virgilio fosse vissuto ai nostri tempi avrebbe preferito l'ottava al verso sciolto. [...] Né ci opponga l'esempio del Tasso, ché anch'egli forse [...] avrebbe scritto la Gerusalemme colla libera verseggiatura dell'Aminta se nel nostro secolo fosse egli vissuto», scriverà pochi anni dopo nella recensione a una traduzione dell'Eneide in ottave.5
Il poema - mezzo più efficace per conciliare il sonno del protettore e destinato a dubbia fortuna, di manzoniana memoria, disperso come sarà «pei muricciuoli»6 - canta i «fasti di casa Formiani». E il suo ultimo discendente ne accetta la dedica prima ancora di esserne stato richiesto. Proprio sul tema della dedica si instaura tra l'autore e il dedicatario uno scambio di battute che merita di essere evidenziato per il suo valore metatestuale: «accetto la dedicazione del poema, purché tu ci pianti in muso nome e cognome, e soprattutto i titoli dell'autore senza verun et cetera». In realtà, l'accettazione della dedica qui espressa non solo anticipa la richiesta del dedicante (risultando così piuttosto un 'invito', non declinabile, a dedicare),7 ma rovescia comicamente le consuetudini dedicatorie, che ancora per tutto il Settecento prevedono che siano i titoli del dedicatario, non certo quelli - come qui - dell'autore a occupare uno spazio di rilievo: spazio che non solo agli occhi di Nievo, dalla specola del secolo successivo, poteva apparire ormai eccessivo. «Dedicando il Libro a qualche gran Personaggio [il Poeta moderno] [...] Ricercherà in primo luogo da questi la quantità e qualità de' Titoli co' quali deve adornare il suo Nome nel Frontespizio, accrescendo poi detti Titoli con etc. etc. etc.», aveva già ironicamente consigliato Benedetto Marcello nel, sempre veneziano, Teatro alla Moda del 1720.8 La consuetudine settecentesca richiederebbe, al contrario, al dedicante di esprimere la sottomissione nei confronti del dedicatario, piuttosto che rivendicare la superiorità dei propri titoli - quandanche fossero titoli ecclesiastici. «Santa Madre Chiesa ha jus proecedentiae, e i suoi titoli fanno tacere gli altri»: una provocazione che l'inquisitore Formiani può permettersi di accogliere con benignità poiché la piccola disputa con il ghiotto abate non è che un divertito passatempo, in cui sembra consistere il ruolo principale del letterato: «bravo maestrino! [...] dimmi se per avere un tal prete per casa, non si potrebbero pagargli dieci pranzi il giorno invece di due!...».
Le regole dell'intitolazione dell'opera al benefattore sono riprese in maniera più canonica nell'episodio successivo che inscena la lettura del poema da parte del suo autore. Il primo canto include la dedica nella forma della «solita apostrofe tutta classica al Mecenate», che qui è anche il perno intorno al quale ruota l'intera opera. Il dedicatario viene così a coincidere con la figura del personaggio principale: «Canto te, mio Signor [...]», con attacco più vicino a quello tassiano («Canto l'arme pietose e 'l capitano [...]») o all'archetipo virgiliano («Arma, virumque cano»), che non a quello di Ariosto («Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese io canto»). Al limite, la «tirata archeologica» di don Gasparo sembra disattendere i modelli ponendo l'appello al mecenate non in apertura di ottava, ma solo al «quarto verso».
L'abate non è poeta di grande raffinatezza («S'apran le fauci del cantor palustre»), e non sempre dimostra piena padronanza delle regole del versificare, come è facile intuire sia dalle rime imperfette che Nievo gli attribuisce (del tipo palustre : illustri : industre), sia da strafalcioni semantici accettati, al contrario, proprio nel nome della rima («al becco dell'aquila… e dei lupi»): «perfidissimi versi». Più efficace don Gasparo risulta nell'applicazione delle regole dell'adulazione, con il canonico uso dell'iperbole ovvero delle «amplificazioni». Queste lo inducono a ricercare le lontane origini della famiglia del mecenate nel «caos» primordiale; con ambiguità, non si sa se involontaria, che il narratore non tralascia di commentare malignamente. In alternativa, Formiani discenderà perlomeno da Prometeo, e in linea diretta. Il ricorso alla mitologia è anch'esso topico e fa appello a una figura - quella di Prometeo - variamente evocata tra Sette e Ottocento per personaggi come Pietro il Grande o Napoleone Bonaparte, di ben altro rilievo rispetto all'inquisitore.9 Inoltre è qui pienamente rispettata la consuetudine di includere i titoli, non solo del dedicatario ma anche dei suoi familiari («al defunto padre suo, avogador di comun, cavaliere di stola d'oro ecc. ecc.»), problematica solo - nonostante la precedente disputa - dal punto di vista tecnico della «prosodia» («pensando al come potesse concentrare nella chiusa d'un'ottava i titoli del genitore di sua eccellenza, i quali sommavano ventotto sillabe»).
Il 'bozzetto' su don Gasparo e la sua Formianeide rientra nel contesto più ampio dei rapporti di Nievo con la tradizione letteraria del Settecento italiano, che emergeranno in modo più articolato nel romanzo maggiore, Le confessioni d'un Italiano e che vanno dall'ironico distanziamento dal carattere occasionale di molta poesia settecentesca che colpisce anche la figura dell'«armonioso adulatore» Monti, all'ammirazione per il «severo» Parini e al giudizio più ambivalente su Foscolo, a cavallo ormai tra i due secoli.10 L'abate dell'Angelo di bontà fa parte, è appena il caso di precisarlo, della prima categoria. E che Nievo, accanto ad altri aspetti prettamente formali, rivolga qui lo sguardo in modo così attento proprio alla prassi dedicatoria, ben dimostra la sua consapevolezza dei condizionamenti cui era sottoposta l'attività letteraria, appunto, nel secolo passato. Insieme, e non ultimo, prelude all'uso ormai profondamente mutato che lui stesso, figlio del proprio secolo, farà dell'istituto della dedica, che non si configura più in lui come testo celebrativo, nemmeno nella forma più dimessa del semplice omaggio privato, ma risponde a funzioni testuali più complesse (come, ad esempio, quella prefatoria), tendenti verso un più stretto correlarsi di testo e paratesto.11
S. G.
Note
1 Il testo è tratto dai capitoli iii e iv (Sua Eccellenza l'Inquisitore e Il dolce amore) della recente edizione critica di I. Nievo, Angelo di bontà. Storia del secolo passato, testo critico secondo l'edizione del 1856 a cura di A. Zangrandi, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 165-67 e 215-19. Cfr. inoltre Id., Angelo di bontà. Storia del secolo passato, ed. critica dell'autografo del 1855, a cura di A. Zangrandi e P. V. Mengaldo, Venezia, Marsilio, 2009.
2 Rinvio solo al classico titolo di G. Mazzoni, Abati, soldati, autori, attori del Settecento, Bologna, Zanichelli, 1924.
3 Nievo, Angelo di bontà cit., p. 290.
4 I. Nievo, Poesie, a cura di M. Gorra, Milano, Mondadori, 1970, pp. 44-53, in particolare p. 47 (vv. 120-27).
5 Cfr. L''Eneide' di Virgilio tradotta in ottava rima da Francesco Duca («Età presente», 23 marzo 1859), in I. Nievo, Scritti giornalistici, a cura di U. M. Olivieri, Palermo, Sellerio, 1996, pp. 290-93, in particolare p. 292. Sulla decrescente fortuna dell'ottava nel Settecento cfr. G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. iii, Le forme del testo, t. i, Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 439-518, in particolare pp. 500-1.
6 Alla morte dell'inquisitore il poema sarà portato a termine e pubblicato: «Don Gasparo […] si dimostrò per altro sempre grato alla sua memoria, e ne lo rimeritò in ragione di trenta ottave il giorno finché il poema fu completo; e vi fu il briaco stampatore (allora ce n'erano) che tolse di pubblicarlo a proprie spese. Brancando pei muricciuoli potreste imbattervi in un librattolo in dodicesimo col titolo di Formianeide: per carità! Non compratelo, dovesse il misero cenciaiuolo vendervelo a peso di carta. Gli è il poema di don Gasparo!» (Nievo, Angelo di bontà cit., pp. 411-12).
7 Sulla consuetudine della richiesta di accettazione cfr. W. Leiner, Der Widmungsbrief in der französischen Literatur (1580-1715), Heidelberg, Winter, 1965, pp. 241-46, inoltre M. Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale (Italia, secoli XVI-XIX), Prefazione di L. Bolzoni, Lucca, Pacini Fazzi, 2009, pp. 25-26.
8 B. Marcello, Il Teatro alla Moda, a cura di R. Manica, Roma, Quiritta, 2001, pp. 6-7 (corsivo dell'autore). Sulle ironiche istruzioni d'uso per la dedica cfr. Benedetto Marcello: Il Teatro alla Moda (1720), a cura di S. Garau, in «Margini. Giornale della dedica e altro», 4, 2010 (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html). Per la prassi dedicatoria settecentesca cfr. M. A. Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des lumières et invention romantique, Actes du colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, réunis par G. Bardazzi et A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 161-92; inoltre Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale cit., pp. 311-44.
9 Sull'iperbole e la centralità dell'elemento mitologico cfr. ancora Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento cit., p. 169. Per l'accostamento dello zar a Prometeo, ad opera di Voltaire, ripreso, per esempio, da Algarotti nelle sue lettere dalla Russia cfr. W. Spaggiari, Introduzione, in F. Algarotti, Viaggi di Russia, a cura di W. Spaggiari, Parma, Fondazione Bembo-Guanda, 1991, pp. ix-xxx, in particolare p. xxv. Su Napoleone e gli accostamenti a varie figure mitologiche di diverso valore simbolico dal triennio repubblicano agli anni napoleonici nelle dediche montiane cfr. S. Garau, Dedicatorie dell'Italia napoleonica (1796-1814). Continuazione e rottura degli schemi della dedica, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 291-316, in particolare pp. 302-6.
10 Le cit. si leggono in I. Nievo, Le Confessioni d'un Italiano, ed. critica a cura di S. Casini, Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1999, p. 980. Per una più dettagliata trattazione rimando a S. Garau, «A cavalcione di questi due secoli». Cultura riflessa nelle 'Confessioni d'un Italiano' e in altri scritti di Ippolito Nievo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 95-122 e 129-33. Sulla figura di Foscolo, personaggio delle Confessioni cfr. inoltre G. Nicoletti, Il "metodo" dell' 'Ortis' e altri studi foscoliani, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 191-211, e C. Dionisotti, Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 343-45.
11 Cfr. S. Garau, Tra paratesto e testo: dediche nell'opera di Ippolito Nievo, in «Margini. Giornale della dedica e altro», 1, 2007 (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html).