al chiarissimo sig. dott. angelo mai, scrittore
di lingue orientali nella biblioteca ambrogiana
giacomo leopardi.57
Nella dedica al Trissino non sono rispettate neppure altre convenzioni della prassi dedicatoria: manca, per esempio, sia l'elogio del dedicatario sia l'abbassamento del dedicante. Lo stesso topos di modestia − ridotto a semplice restrizione di quantità − è relegato nell'unica frase che indica l'offerta dell'opera, espressa per giunta in forma imperativa e non, come di consueto, ottativa con il verbo al congiuntivo o con perifrasi di cortesia: «E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando».58 Anche «mando», invece di «dono», «offro», «consacro», «dedico», trasforma l'offerta in una sorta di invio poetico tra pari.
La rottura del codice è così forte che Leopardi sente il bisogno di scusarsene con il Trissino in una lettera del 31 luglio 1820: «Oltracciò V.S. mi dovrà perdonare se nella dedica l'ho trattata con quella certa familiarità che s'usa nelle lettere, alle quali non par che s'adattino le cerimonie che richiede il commerzio civile».59 In effetti risponde di più alle convenzioni questa lettera privata, che è quasi un autocommento e insieme essa stessa una sorta di dedica: ben più topica nel lessico, nelle formule di offerta e di congedo, nell'uso dei superlativi e nell'insistito appellativo «Vostra Signoria» in luogo del paritario «Voi»:
Ma stante queste difficoltà, e considerando l'infinita gentilezza e l'affetto dimostratomi in altre occasioni da V.S., ho preso confidenza, e sperato che V.S. mi perdonerebbe tanto la libertà quanto la piccolezza del dono. [...] Torno a raccomandarmi alla benignità di V.S. perch'Ella mi perdoni, e non si voglia chiamare offesa della mia franchezza; e se giudicherà di riprendermi, lo faccia, ch'io mi pentirò dell'ardire, ma confiderò che V.S. non m'abbia privato per questo della sua benevolenza, nè lasciato di tenermi per suo
Dev˜mo Obbl˜mo Servitore
Giacomo Leopardi.
Sembrerebbe quasi che nel giovane Leopardi la rottura in pubblico delle convenzioni del genere dedicatorio, a lui perfettamente noto e sperimentato in molteplici variazioni fin dalle scritture infantili, richiedesse in privato una sorta di compenso: con una domanda, letterale, di perdono e di eventuale riprensione («ella mi perdoni», «se giudicherà di riprendermi», «io mi pentirò»), e con una riscrittura, quasi in forma di palinodia, della dedica stessa. Timori e scuse ulteriori per l'eccessiva familiarità della dedica (attribuita curiosamente a una pretesa legittimazione 'letteraria') tornano del resto anche in altre lettere di Leopardi, come per esempio in quella del 28 agosto 1820 al Brighenti:
Ma bisogna che io vi confidi un timore che mi passa per la mente. Nella Dedica io trattai quell'ottimo Signore, con una certa familiarità che par si costumi nelle cose letterarie. La sua de' 28 Luglio era piena di estrema gentilezza. Ma egli non aveva ancora ricevuto il mio libretto. Mi affanna il pensare che vedutolo, egli possa aver trovata eccessiva la mia confidenza. Gli domandai già perdono scrivendogli, e torno a scrivergli. Ma poichè facilmente la mia lettera andrà smarrita, fatemi il favore d'informarlo di questi miei sentimenti, e domandategli perdono in mio nome.60
E in un'altra dello stesso giorno al Trissino, oltre alla richiesta di perdono, con il rinvio alla lettera precedente, ricompaiono di nuovo topoi e consuetudini della pratica dedicatoria:
Neanche m'accerto che le sia stata renduta la mia de' 31 dello stesso [luglio], nella quale domandava perdono a V.S. tanto della presunzione avuta di stampare il suo nome in fronte a così piccola cosa, quanto della familiarità usata nella lettera Dedicatoria. Riconosco dalla benignità di V.S. che m'abbia voluto scrivere in modo come se la mia confidenza fosse piuttosto degna di ringraziamento, che bisognosa di perdono. Ma ora ch'Ella ha veduto il mio libricciuolo, temo forte che non mi condanni di troppo ardire, e d'essermi abusato della libertà che si concede nelle cose letterarie. V.S. si compiaccia di perdonarmi o di riprendermi.61
Il Trissino vedrà l'opuscolo − proibito in tutto il Lombardo-Veneto anche per intervento del Brighenti che era un informatore segreto della polizia austriaca − solo a fine settembre e commenterà la dedica in una lettera del 29 settembre 1820, riprendendo quell'ideale dialogo con il giovane poeta e formulando su di lui un giudizio che, nel suo impaccio espressivo, ha però i toni di un'impressionante chiaroveggenza:
Signor Conte, è vero, ho detto, che chi dirà di questi giorni non potrà encomiarci che nelle lettere e nelle scolture; e io avea l'occhio alle cose sue e di Canova; e sempre più ho ragione di confermarmi nella mia sentenza. Le lagnanze, che da Lei si fanno, che perduta sia qualunque speranza di potere immaginare novellamente, e che più non si sappia nè di affetto, nè di eloquenza, non troveranno maggiori obbiezioni che nelle stesse scritture sue.62
Nonostante la sua genesi tarda, successiva di vari mesi alla stesura della canzone, e la sua accidentalità in certo modo non prevista, la dedica al Trissino entra tuttavia in stretto rapporto tematico e formale con il testo che offre e sembra quasi continuare − in un registro di alto respiro retorico e stilistico − l'ideale conversazione con i grandi Italiani messa in atto nella canzone: quasi un'ultima strofa in prosa dopo le dodici in versi. Vediamola da vicino, trascrivendola interamente qui di séguito:
Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de' nostri tempi non darà lode agl'italiani altro che nelle lettere e nelle scolture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io non vedo in che pregio ne dovremo esser tenuti dai posteri, considerando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia, ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza. E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch'ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che 'l pianger giova. Io non posso dir questo, perchè il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna.63
Si noti anzitutto l'elaborato tessuto formale di questa concentratissima scrittura, in un unico ampio paragrafo, dove a volte le frasi sono costituite da una successione di versi veri e propri, o suggellate da perfette clausole versali: «maggiori volse l'animo alla gloria» è un endecasillabo (con accenti di 4a, 6a, 8a e 10a), e presenta la stessa scansione ritmica dell'ultimo verso di una delle canzoni funebri («Che nostro male o nostro ben si cura», Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, v. 109);64 «E voi non isdegnate questi pochi / versi ch'io vi mando» è un endecasillabo più senario. La chiusa, di stile sublime, è modulata su un settenario, tre ottonari (il primo tronco) e un novenario: «Io non posso dir questo, / perchè il piangere non è / inclinazione mia propria, / ma necessità de' tempi / e volere della fortuna». Andrà notata inoltre l'elaboratissima frase «ed è secca ogni vena / di affetto e di vera eloquenza», costituita da settenario più endecasillabo (quest'ultimo con accenti di 4a, 6a e 10a; e doppia dialefe tra 3a e 4a, e tra 7a e 8a), e complicata dal legame paronomastico tra il sostantivo «vena» e l'aggettivo «vera». È probabile eco da RVF ccxcii, vv. 13-14, «secca è la vena de l'usato ingegno, / et la cetera mia rivolta in pianto»,65 con il recupero, più avanti, della parola «ingegno» e del tema del pianto, che con citazione di dichiarata ascendenza petrarchesca («Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che 'l pianger giova») chiude di nuovo il periodo con un endecasillabo, entrando anche in relazione con i versi della canzone riferiti al Petrarca:
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[...] o sfortunato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
L'italo canto. E pur men grava e morde
Il mal che n'addolora
Del tedio che n'affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto! |
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(Ad Angelo Mai, vv. 68-73). 66 |
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Anche la costruzione retorica della dedica presenta rigorose simmetrie. È notevole in particolare quella che, attraverso l'intero testo, articola il rapporto tra i due interlocutori (voi / io) collocati nella prima e nell'ultima frase («Voi per animarmi», «Io non posso»), all'estremo di un'esatta costruzione speculare, che coinvolge le due frasi avversative aperte dal Ma («Ma eziandio nelle lettere», «Ma ricordatevi»), e si riproduce chiasticamente a partire dalla congiunzione E (che apre una frase verso la metà: «E contuttociò quello che»), costituendo così una sorta di chiasmo logico e sintattico con calcolate variazioni interne («e io non vedo», «E voi non isdegnate»): Voi − Ma − e io non − E − E Voi non − Ma − Io. La parola «lettere», tema centrale e unica possibilità di gloria rimasta agli Italiani contemporanei, è ripetuta ben tre volte nella breve prosa; l'altra parola ripetuta è «fortuna», nel senso classico e cinquecentesco di "sorte, destino", che anche chiude il testo: entrambe torneranno nella dedica dei Canti del 1831.
Come ricorda Leopardi nella lettera già citata del 31 luglio 1820 («V.S. s'accorgerà che nel principio della dedica ho adoperato un sentimento che V.S. mi significava nell'ultima sua»), l'inizio rinvia a una lettera del Trissino stesso:
Che sono a questo momento, rispettabilissimo Signor Conte, i profondi suoi studj? E quai doni promette Ella a chi ha tutto il diritto di aspettarne da Lei? E quanto dovranno essere aspettati? Si ricordi, che della Italia presente la storia non potrà far discorso che di sculture, e di un po' di lettere. Queste sperano in Lei fortemente: guai se fossero tradite.67
Ma la puntuale esortazione, affidata a una lettera privata, è trasformata da Leopardi in una sorta di esortazione atemporale quasi da dialogo morale («mi solete ricordare»), colloquio ideale, rafforzato dalla patina cinquecentesca − forse anche in omaggio al nome del destinatario − di alcune parole e locuzioni come «scolture» (in questa forma costante nella trattatistica artistica di Quattro e Cinquecento; poi corretta per l'edizione del 1824 delle Canzoni nella più classica forma «sculture»), «tributari», «eziandio», «contuttociò», «quanto portano le nostre forze».68 Nella frase che segue il lamento sulla perdita dell'immaginazione, «la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia, ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza», rinvia anzitutto a quello, anche più radicale, che nei versi della canzone riguarda l'umanità intera, ormai lontana dalla sua fanciullezza:
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[...] A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar; da te s'apparta
Nostra mente in eterno |
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(Ad Angelo Mai, vv. 100-103). 69 |
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Il lamento sembra poi investire tutta la letteratura italiana contemporanea, benché la facoltà dell'immaginare, seppur in maniera restrittiva, sia ancora parzialmente riconosciuta al Monti e all'Arici in una pagina dello Zibaldone dell'8 marzo 1821: «tutte le opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, nell'Arici. Ma oltre che questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena».70 Non è escluso anzi che il giudizio negativo espresso nella dedica si riferisca − come al più emblematico rappresentante di quella letteratura − proprio al Monti, per il quale Leopardi di lì a poco, il 20 settembre 1823, utilizzerà parole molto simili: «Nel sentimento poi la vena del Monti è al tutto secca, e provandocisi, il che fa ben di rado, non ci riesce punto».71 Tanto più che sembra riprendere, con ulteriore restrizione, le considerazioni, già ricordate, affidate alla dedicatoria delle canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante:
Stante che oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, [...] sostenete l'ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studi, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'Italia sia morta.72
In tal senso la dedica al Trissino si configura quasi come una correzione retrospettiva e pubblica, benché criptica, dell'entusiastico elogio rivolto al Monti meno di due anni prima, e già corretto, come si è visto, nella dura requisitoria affidata dello Zibaldone nella primavera del 1819.
Nella frase centrale della dedica è collocata la dichiarazione della differenza irrimediabile tra antichi e moderni, che prolunga e quasi commenta i vv. 40-42 della canzone («al vostro sangue è scherno / E d'opra e di parola / Ogni valor»):
E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria.73
La coppia dilettare / giovare è cara a Leopardi, che la userà per esempio, riferita alla sola letteratura, in un altro testo liminare e programmatico, l'avviso Ai lettori della Crestomazia della prosa uscita nel 1827: «il proposito mio è stato che questa Crestomazia, non solo giovasse, ma dilettasse; e che dilettasse e giovasse, non solo ai giovani, ma anche agli uomini fatti».74 La frase potrebbe essere anche la variazione di una frase della dedica Alla Libertà del trattato alfieriano Della Tirannide: «io, che per nessun'altra cagione scriveva, se non perché i tristi tempi mi vietavan di fare».75 Soprattutto si rivela una forte ripresa foscoliana, sia dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove più volte ricorre la tematica dello scrivere come unica possibilità in tempi nei quali non è consentito l'agire, sia dalle Poesie: opere entrambe ben presenti a Leopardi proprio in quei mesi, se un'edizione del 1819 delle Poesie foscoliane è richiesta al Brighenti in una lettera del 17 luglio 1820, e l'Ortis è menzionato come modello compositivo negli Abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno del 1819.76 Dell'Ortis si può ricordare in particolare la lettera del 23 dicembre: «quando i tempi vietandogli d'operare, non gli lasciano che lo scrivere», e quella del 4 dicembre che narra l'incontro col Parini: «Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la forza, perchè almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? [...] Se avete le braccia in catene [...]. Scrivete. [...] Scrivete a quei che verranno».77 Per le Poesie va ricordato proprio l'ultimo sonetto, Che stai? già il secol l'orma ultima lascia, che si chiude con i versi: «A chi altamente oprar non è concesso / Fama tentino almen libere carte» (vv. 13-14), ripreso tra l'altro al v. 196 della canzone Sopra il monumento di Dante («Che stai? levati e parti»).78 A conferma della matrice foscoliana di questa frase, si noti che ben cinque parole di notevole peso semantico − «lettere», «ingegno», «animo», «fortuna», «gloria» (quest'ultima in fine di periodo come in Leopardi) − si leggevano già nella dedica delle Poesie a Giovan Battista Niccolini. Era una dedica che per tante ragioni non doveva lasciar indifferente il giovane Leopardi e che lascerà qualche traccia anche in quella dei Canti:
A te, giovinetto di belle speranze, io dedico questi versi: [...]. Ti saranno bensì monumento della nostra amicizia, e sprone, ad onta delle tue disavventure, alle lettere, veggendo che tu sei caro a chi le coltiva, forse con debole ingegno, ma con generoso animo. E la sola amicizia può vendicare gli oltraggi della fortuna, e guidare senza adulazione gl'ingegni sorgenti alla gloria.79
L'ultima dedica leopardiana è quella Agli amici suoi di Toscana, premessa alla prima edizione dei Canti, uscita a Firenze nel 1831. È anticipata da un'intestazione epigrafica, collocata sulla pagina dispari precedente, che mette subito in evidenza anche graficamente, con un carattere più grande e marcato, il motivo principale dell'offerta e definisce la collettività a cui è rivolta, senza menzionare nessun nome in particolare:
AGLI AMICI SUOI
di Toscana.
Sul verso della pagina figura un'epigrafe petrarchesca, di uso fortunato in contesti di amori infelici e in tal senso già impiegata da Rousseau nella Nouvelle Héloïse e da Foscolo nel primo Ortis, dove figura addirittura come una delle possibili citazioni incise sul cipresso presso il quale è sepolto il protagonista:
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La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni. |
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petrarca.80 |
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Anche in Leopardi, come già notava Peruzzi, questa epigrafe ha quasi valore di epitaffio, e sembra anticipare la dichiarazione di Tristano nel Dialogo di Tristano e di un amico, composto a Firenze nel 1832: «così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita».81 La dedica vera e propria è di nuovo aperta da un'intestazione emotivamente carica, che reitera l'indicazione dei dedicatari, «Amici miei cari,», addirittura seguita dalla virgola: a sottolineare anche formalmente il carattere epistolare del testo, quasi lettera affettuosa e privata. A questo contribuisce anche la data che la precede, «Firenze 15 Dicembre 1830.», e la firma che la chiude «Il vostro Leopardi.». Vale la pena di trascriverla qui per intero:
Amici miei cari,
Firenze 15 dicembre 1830.
Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio.
Il vostro Leopardi.
Sul piano stilistico è notevole anzitutto l'iterazione di alcune parole di particolare peso semantico: «infermità» ripetuta due volte, «cari», «beni» / «bene», «studi» tre, «tutto» / «tutti» quattro. A questo si aggiunge la ripetizione di sintagmi e costruzioni simili, rafforzate dal parallelismo e riprese con minime variazioni: «Amici miei cari» / «miei cari amici»; «io cercava, come si cerca», «dalle lettere e dagli studi»; «di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni»; «avere acquistato un bene» / «ho acquistato voi»; «da nessuna forza, da nessuna sventura»; «mi fosse tolto» / «mi è stato tolto del tutto», «privandomi» / «mi priverà»; «in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza». L'avverbio «non» scandisce infine l'intero testo con un'iterazione ossessiva, di ben otto occorrenze, una delle quali di particolare peso perché collocata in apertura di frase: «Non mi so più dolere».
L'inizio pur formulare, «Sia dedicato a voi questo libro», è però trasformato dall'uso del verbo al passivo e privato di ogni segnale di modestia: si dedica un «libro», non un «piccolo libro», tanto meno un «libretto» o un'«operetta». Manca inoltre ogni forma di abbassamento del dedicante e di innalzamento dei dedicatari: definiti proprio e solo sulla scorta di un rapporto di amicizia e di amore, che appare decisamente più importante dell'indicazione di nomi e titoli di qualunque genere. I pronomi e gli aggettivi di prima persona dominano fin dalla prima frase: «io» è ripetuto cinque volte, «miei» / «mia» / «mio» otto, «mi» tredici (una delle quali quasi pleonastica: «mi rimarrà tuttavia, e mi durerà»). A questo corrisponde, ma in misura decisamente inferiore, l'iterazione di pronomi e aggettivi di seconda persona: «voi» e «vostra» / «vostro» ripetuti rispettivamente due e tre volte.
In questa sublime altezza del dolore e dell'amicizia sembra non esserci più posto per nessuna formula inerte. Nelle mani di Leopardi si sono consumate, purificate al calor bianco della poesia e del dolore, la retorica e l'enfasi pur così resistenti e tenaci nei testi di dedica: anche quelle alle quali egli stesso, appena dodici anni prima, ancora ricorreva nell'offrire le sue prime canzoni a Vincenzo Monti. Nella lettera che apre i Canti del 1831 resta ormai solo una parola assoluta, pronunciata per un fermo commiato dalla vita, che si conclude «a mezzo gli anni», nel pieno della maturità. Questa età non è menzionata esplicitamente, ma si ricava, per sottrazione, dalle altre età − fanciullezza, gioventù e vecchiezza − evocate nella dedica: «Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto».82 Il forte autobiografismo di questa pagina consente tuttavia all'autore di fornire in apertura di libro indicazioni anagrafiche precise: «io non aveva appena vent'anni», «due anni prima dei trenta».
La dedica dei Canti appare in effetti come una vera e propria lettera privata, esibita all'inizio dell'opera per un atto di estremo congedo. Non stupirà allora ritrovare qui elementi tematici e lessicali che, lungi dall'appartenere al genere dedicatorio, rinviano invece a un altro genere di scrittura: quello della lettera di addio, scritta da chi si accinge ad abbandonare la vita. In ambito letterario uno dei grandi modelli può essere quello delle lettere che chiudono le già ricordate Ultime lettere di Jacopo Ortis, il più celebre romanzo italiano che mette in scena il suicidio del protagonista. In effetti la dedica dei Canti sembra risentire di non poche suggestioni dalle due lettere finali dell'Ortis, dove il protagonista, deciso a morire, si congeda dall'amico Lorenzo e dalla donna amata. La prima, aperta dall'appellativo, «E tu, Lorenzo mio − leale ed unico amico», si chiude sulla parola «addio», come qui la dedica di Leopardi, suggellata da una parola davvero anomala nel lessico dedicatorio e assolutamente impossibile in chiusura: «L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio».83
Anche l'insistenza sul lessico doloroso («lacrime», «dolore», «sventura», «infermità», «dolere», «infelicità», «querele») e persino funebre («sepolti», «cenere») è del tutto inconsueta nella pratica dedicatoria, ma si trova naturalmente nel romanzo foscoliano che finge di raccogliere le lettere di un suicida. Elementi lessicali di questo genere si addensano in particolare nelle ultime pagine del libro, dove figurano proprio molti dei termini impiegati poi da Leopardi in questa dedica. Così nell'ultima lettera all'amico Lorenzo, Jacopo, ormai votato alla morte, utilizza la parola «lagrime» e ricorre al termine «cenere» per designare il proprio corpo («Pur troppo ti pagherei a ogni modo di lagrime! or tu non proferire su le mie ceneri»), menziona l'antitesi vita-morte («Vedi come la vita mia, sarebbe a tutti voi più dolorosa che la mia morte»), persino fa riferimento alle proprie «carte» («Queste carte le darai tutte al suo padre»):84 sono tutte parole che tornano nella dedica leopardiana.
Nella lettera di Jacopo alla donna amata compare inoltre, oltre a «lagrime», «ceneri» e «addio», il riferimento − anche lì in chiusura − all'amore della destinataria («ti lascierò gli ultimi addio, e prenderò da te le tue lagrime, unico frutto di tanto amore!»). Non manca, come poi in Leopardi, la dichiarazione del volontario congedo: «non t'avvedevi tu nella mia tremenda tranquillità ch'io voleva prendere da te gli ultimi congedi, e ch'io ti domandava l'eterno addio?».85 Persino la perdita di ogni speranza e felicità in Leopardi, «Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. [...] in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza quasi compenserebbe i miei mali», sembra riecheggiare una frase della stessa lettera dell'Ortis, in cui Jacopo rifiuta di prolungare una vita ormai disperata: «dopo mille speranze ho perduto tutto! ed inutile agli altri, e dannoso a me».86 Quest'ultima frase, firmata da un candidato al suicidio, non doveva lasciare indifferente Leopardi, che nella dedica lamentava una «infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte».
Se per questa specialissima, e anomala, dedica leopardiana si volessero indicare rapporti interni al genere dedicatorio si dovrebbe evocare ancora il nome del Foscolo, rinviando alla dedica della Chioma di Berenice offerta all'"amico toscano" Giovan Battista Niccolini. Qui figura, in particolare, un riferimento esplicito alla imprevedibilità della fortuna: estesa a ogni umana attività, anche a quella apparentemente da essa più immune come il sapere e gli studi: «Se non che de' nostri studj, come di tutte le mortali cose, tocca a decidere più alla fortuna che a noi. Onde accogli frattanto questo piccolo dono, e vivi memore dell'amico tuo, com'io vivo sempre pieno di te».87 Proprio quei «cari studi» con i quali il giovane Leopardi aveva sperato, invano, di sostentare la sua vecchiezza, acquistando un bene «che da nessuna forza, da nessuna sventura» potesse essergli tolto.
Dopo questa dedica, che ha un valore di sublime congedo, non è possibile firmarne altre. Leopardi infatti non ne scriverà più nessuna, per nessuna delle opere e stampe successive. Ne riaffiorerà solo qualche frammento nella corrispondenza dei mesi successivi con gli amici toscani, come nella lettera a Gian Pietro Vieusseux del 6 ottobre 1831, scritta appena arrivato a Roma da Firenze, dove i dedicatari sono ricordati in un saluto collettivo:
vi scrivo per darvi le mie nuove, e per domandarvi le vostre, e quelle de' cari amici che ho lasciati nella cara Firenze. [...] Come sta Colletta? Salutate infinitamente Gino, Montani, Forti, Capei, e Cioni se lo vedete. Assicurateli tutti, ch'io non mi dimentico mai di loro, e ch'io considero la mia dimora in Roma come un esilio, e non miro che al ritorno. Assicuratevi voi stesso dell'amore ch'io vi porto e vi porterò sempre, come a rarissimo amico, che avrò perpetuamente nel cuore. [...] Addio, Addio con tutto l'animo.88
Ma questa dedica rimarrà anche nella memoria di molti contemporanei come una pagina altissima sull'umana infelicità. Vincenzo Gioberti il 4 ottobre 1831 scriveva a Leopardi: «La lettera premessa alle vostre poesie stampate ultimamente, mi ha stracciata l'anima».89 Molti anni più tardi chiuderà la sua opera più importante, Del primato morale e civile degli Italiani, con un capitolo intitolato Degli scrittori italiani, dove il rinvio all'infelicità del sapiente è compensato dall'auspicio di una sopravvivenza nell'amore dei posteri, utilizzando − non so se consapevolmente o per inevitabile memoria − parole vicinissime a quelle con cui nel 1831 Leopardi aveva chiuso la dedica dei Canti:
Ma il vero sapiente non si contrista né avvilisce, vedendosi manomesso od abbandonato: imperocché egli è sicuro che le sue parole gioveranno ai posteri e otterranno da essi quel tributo spontaneo di amore e di gratitudine, che vien loro disdetto dall'età corrente. E se egli allora, già fatto cenere, non potrà udire quelle tarde benedizioni, prevedendole se ne compiace, e compensa la lontananza dell'esito colla certezza dell'aspettativa; giacché nel disprezzare il presente è riposta la magnanimità dello scrittore.90
L'amore degli amici auspicato da Leopardi − «L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere» − è diventato ormai, nel finale del Gioberti, l'amore tributato da tutti gli Italiani e dai posteri allo scrittore grande e infelice.
M. A. T.
Note
* La prima parte di questa ricerca, introduttiva all'argomento e relativa alle dediche dell'infanzia e dell'adolescenza, è uscita in «Margini. Giornale della dedica e altro», 1, 2007: Dediche leopardiane I: infanzia e adolescenza (1808-1815), http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_1/saggi/articolo1/leopardi.html. La seconda, relativa a quelle dell'adolescenza e della giovinezza, ivi, 2, 2008: Dediche leopardiane II: lavori eruditi e falsi dell'adolescenza e della giovinezza (1815-1825), http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_2/saggi/articolo1/leopardi.html.
1 Lett. 149, del 19 ottobre 1818, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (d'ora in avanti Epistolario), vol. i, pp. 212-13, la cit. a p. 212.
2 Rispettivamente lett. 154, del 27 ottobre 1818, e lett. 159, del 14 dicembre 1818, ivi, pp. 217-19 e 225-26; le cit. alle pp. 218 e 225.
3 Lett. 160, del 25 dicembre 1818, ivi, pp. 226-27.
4 Lett. 162, del 5 gennaio 1819, ivi, pp. 231-34, la cit. a p. 232. Mio il corsivo: così nel séguito, salvo indicazione contraria.
5 Lett. 176, del 12 febbraio 1819, ivi, pp. 251-52; la cit. a p. 251.
6 CANZONI / di / giacomo leopardi / roma mdcccxviii. / Presso Francesco Bourliè, pp. 3-7 (riprodotta in Id., Canti, Edizione critica e autografi, a cura di D. De Robertis, Milano, Il Polifilo, 1984, vol. ii, pp. 11-15; e ora disponibile con tutte le stampe e i manoscritti relativi ai Canti nella riproduzione digitale su CD allegata a G. Leopardi, Canti, Edizione critica diretta da F. Gavazzeni, a cura di C. Animosi, F. Gavazzeni, P. Italia, M. M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini, Firenze, Accademia della Crusca, 2006); ora in Id., Poesie e prose, vol. i, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori, 19987 (1a ed. 1987), pp. 155-57; la cit. a p. 155; così la successiva. Su questa dedica si veda C. Genetelli, Agonismi leopardiani. Per una rinnovata esegesi di 'All'Italia', in «Studi e problemi di critica testuale», 72, 2006, pp. 71-96, in partic. pp. 80-96.
7 Ivi, p. 156; così la successiva.
8 Ivi, pp. 156-57; la successiva a p. 155.
9 Lett. 12, del 28 dicembre 1815, in Epistolario, vol. i, p. 16; si veda in proposito di chi scrive Dediche leopardiane II cit.
10 CANZONI / del conte / GIACOMO LEOPARDI / BOLOGNA / Pei tipi del Nobili e Comp°. / 1824, pp. 7-12; ora in Id., Poesie e prose cit., vol. i, pp. 157-59; la cit. a p. 157.
11 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 152-53, la cit. a p. 152; la precedente in Id.., Poesie e prose, vol. ii, Prose, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 19987, pp. 634-35, la cit. a p. 634. Per l'analisi di questa dedica si veda qui più avanti; per quella al Mustoxidi cfr. di chi scrive Dediche leopardiane II cit.
12 Così ritiene anche Genetelli, Agonismi leopardiani cit., p. 93. Per questa pratica nel Monti si veda S. Garau, Dediche di Vincenzo Monti, in Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. iii, Monti nella Milano napoleonica e postnapoleonica, a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 263-82.
13 Poesie e prose cit., vol. i, p. 155; la successiva a p. 156.
14 Si vedano i commenti ai Canti di A. Straccali (Firenze, Sansoni, 1892; poi corretto e accresciuto da O. Antognoni, ivi, 1912), M. Fubini (Torino, Utet, 1930; poi rifatto con la collaborazione di E. Bigi, Torino, Loescher, 1964), G. e D. De Robertis (Milano, Mondadori, 1978), F. Gavazzeni e M. M. Lombardi (Milano, Rizzoli, 1998). Tra gli studi si veda almeno L. Blasucci, Sulle due prime canzoni leopardiane, in GSLI, cxxxviii, 1961, pp. 39-89 (poi in Id., Leopardi e i segnali dell'infinito, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 31-80); D. De Robertis, Leopardi e Foscolo, in Id., Leopardi. La poesia, Bologna, Clueb, 1998, pp. 87-105 (fonde due saggi del 1978 e del 1979); C. F. Goffis, La canzone 'Ad Angelo Mai' ed il suo antagonismo con i 'Sepolcri', in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, vol. iv, Tra Illuminismo e Romanticismo, Firenze, Olschki, 1983, pp. 677-702; M. M. Lombardi, Allusioni montiane e foscoliane nelle «Canzoni» di Leopardi, in «Strumenti critici», n.s., XIX, 2004, 2 (n. 105), pp. 273-85; P. Italia, Foscolo in Leopardi: i 'Sepolcri' e le canzoni "patriottiche", in 'Dei Sepolcri' di Ugo Foscolo, Gargnano del Garda (29 settembre - 1 ottobre 2005), a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, vol. ii, pp. 721-40; M. A. Terzoli, Un lettore dei 'Sepolcri' ostinato e d'eccezione: Giacomo Leopardi, in I Sepolcri, la poesia e la fortuna, Firenze, Gabinetto Vieusseux e Biblioteca degli Uffizi, 28-29 marzo 2008, a cura di A. Bruni, Bologna, Clueb, 2009 (in corso di stampa).
15 Alla Maestà di Napoleone I. Imperator de' Francesi coronato Re dell'Italia il dì 23 Maggio 1805. Visione del professore V. Monti, Milano, dai Torchj di Luigi Veladini Stampatore Nazionale, 1805, pp. 3-4 nn. (dedica) e pp. 5-16 (visione). Dedica e visione, con il titolo di Beneficio, si leggono in Canti e poemi di V. Monti, a cura di G. Carducci, Firenze, Barbèra, 1891, pp. 101-13 (ripresi in http://www.bibliotecaitaliana.it); testo e immagine della dedica sono riprodotti nella banca dati AIDI, in http://www.margini.unibas.ch (scheda redatta da S. Garau).
16 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 5-9; la cit. a p. 5.
17 Alla Maestà di Napoleone I. cit., p. 5.
18 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 5.
19 Alla Maestà di Napoleone I. cit., pp. 5-6; la precedente a p. 5.
20 Ivi, p. 6; la precedente e la successiva in Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 6.
21 Alla Maestà di Napoleone I. cit., p. 7.
22 Su questa dedica e i suoi rapporti con la visione mi sia consentito rinviare al mio saggio, Monti e l'iconografia celebrativa napoleonica: considerazioni sulla 'Visione' per Napoleone Re d'Italia, in Vincenzo Monti nella cultura italiana cit., vol. iii, pp. 187-217.
23 Lett. 186, del 20 febbraio 1819, in Leopardi, Epistolario, vol. i, p. 263; così la successiva.
24 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 155; la successiva a p. 156.
25 Si vedano in proposito i saggi e i commenti ai Canti già ricordati nella nota 14.
26 Sull'importanza degli elementi paratestuali nella costruzione di questo falso, si veda di chi scrive Dediche leopardiane II cit.
27 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 155; la successiva a p. 156.
28 Come ha mostrato benissimo G. Lonardi, L'oro di Omero. L''Iliade', Saffo: antichissimi di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2005. Per il rapporto e l'immedesimazione di Leopardi con Simonide, si veda E. Peruzzi, Il canto di Simonide, in Studi leopardiani II, Firenze, Olschki, 1987, pp. 7-74; D. De Robertis, Le canzoni o "l'inganno del desiderio", in Id., Leopardi. La poesia cit., pp. 27-85, in partic. pp. 42-44; M. Gigante, Simonide e Leopardi, in Id., Leopardi e l'antico, Napoli, Società Editrice Il Mulino, 2002, pp. 81-118, in partic. pp. 110-18; Italia, Foscolo in Leopardi cit., pp. 733-35.
29 Lett. 176 cit., in Epistolario, vol. i, p. 252; dalle pp. 251-52 i frammenti citati sopra. La dedica appare anche come diffratta e disseminata nelle lettere d'invio del libretto a vari destinatari (Dionigi Strocchi, Angelo Mai, Bartolomeo Borghesi, Massimiliano Angelelli, Filippo Schiassi, Giuseppe Montani): cfr. le lett. 177-79, 181, 183, 216 (ivi, pp. 252-56, 260-61, 296-97).
30 Lett. 292, del 7 aprile 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 388-90; la cit. a p. 389.
31 Ivi, p. 156; la precedente e le due successive a p. 158.
32 Sempre Simonide di Ceo (e non Simonide d'Amorgo) secondo Leopardi: cfr. Gigante, Simonide e Leopardi cit., p. 81.
33 Poesie e prose cit., vol. i, p. 156; la precedente a p. 155.
34 Le prime due citazioni ivi, alle pp. 156 e 158; le altre rispettivamente alle pp. 157 e 159.
35 Ivi, rispettivamente pp. 155 e 157.
36 Ivi, rispettivamente pp. 156-57 e 159.
37 Cfr. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. i, p. 19 [15]: «Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n. 91. le Osservaz. di Lod. Di Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo chiamare».
38 Ivi, p. 17 [13-14].
39 Ivi, pp. 49-50 [36].
40 Cfr. ivi, vol. iii, pp. 487-88. Tale datazione è generalmente accettata: cfr. per esempio Genetelli, Agonismi leopardiani cit., p. 90, nota 1: «delle pp. 36-37 (del 1818)».
41 Cfr. lett. 175, del 12 febbraio 1819, in Epistolario, vol. i, pp. 250-51. La datazione di Pacella (Introduzione, ivi, vol. i, pp. XI-XXXIV, in partic. p. XIV), si basa su un'indicazione generica e incerta di Leopardi, che nel settembre del 1823 indica la pagina 43 scritta «sul principio, se non erro, del 1819». Si noti anche che la data fornita da Leopardi non impedisce di collocare in quel periodo (1819 e non 1818) anche la nota sul Monti (pagina 36), tanto più se si considera che la pagina 29 dell'autografo porta già una data piuttosto avanzata («Decembre 1818», ivi, p. 39).
42 Cfr. sopra nota 1.
43 Cfr. lett. 277, del 4 febbraio 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 366-67.
44 Lett. 289, del 17 marzo 1820, pp. 383-84, la cit. a p. 384; il corsivo è dell'autore. Per la ricostruzione dell'intera vicenda si veda D. De Robertis, Storia del libro, in Leopardi, Canti, Edizione critica cit., vol. i, pp. XXIII-LXVIII, in partic. pp. XXVIII-XXXIX.
45 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 633-34; la cit. a p. 634, la precedente a p. 633.
46 Ivi, pp. 633-34; la successiva a p. 634.
47 Cfr. CANZONE / di / GIACOMO LEOPARDI / ad / ANGELO MAI / bologna. mdcccxx / per le stampe di iacopo marsigli / con approvazione, pp. 3-4; il facsimile della stampa (con correzioni autografe) è riprodotto in Leopardi, Canti, Ediz. critica cit., vol. ii, pp. 73-74; e CANZONI (1824) cit., pp. 37-38. Entrambe si leggono ora in Id., Poesie e prose cit., vol. i, pp. 160-61. Le osservazioni su questa dedica riprendono quelle proposte in un saggio di commento, presentato all'Università di Ginevra nell'ottobre 2007: Esercizio di commento sopra un testo di dedica: 'Giacomo Leopardi al conte Leonardo Trissino', in Per leggere i classici. Saggi di commento ai classici italiani, antichi e moderni. Atti del Convegno di Ginevra, 23-24 ottobre 2007, a cura di G. Bardazzi, R. Leporatti e E. Manzotti, Lecce, Pensa Multimedia (in corso di stampa).
48 Sul suo rapporto con Leopardi si veda G. Auzzas, Giacomo Leopardi e Leonardo Trissino, in Leopardi e la cultura veneta. Edizioni, autografi, fortuna, Catalogo della Mostra bibliografica, a cura di G. Ronconi, Padova, Biblioteca Universitaria, 1998, pp. 86-87 e 183-86; A. Serafini, Leopardi e Vicenza, in «Odeo olimpico», xxiii, 1996-1999, pp. 197-209. Se ne veda l'elogio in una lettera inviatagli da Leopardi il 23 agosto 1819, successiva al soggiorno del Giordani a Recanati, dove già compare il tema della decadenza dell'Italia: «Io non mi posso dimenticare di un giovane signore italiano così amorevole, nè di sentimenti così magnanimi, nè di tanti pregi e virtù d'ogni sorta, che se fossero meno singolari in questa povera terra, non sarebbe stoltezza lo sperar bene della nostra patria» (lett. 253, Epistolario, vol. i, p. 338).
49 Se ne lamenterà il Gioberti in una lettera del 4 ottobre 1831, pur commentando entusiasticamente l'edizione del 1831: «Mi spiace altresì che ci abbiate frodati in questa ristampa delle due bellissime dediche al Monti, e al Trissino» (lett. 1653, Epistolario, vol. ii, pp. 1822-25; la cit. a p. 1824).
50 Lett. 318, del 28 luglio 1820, ivi, p. 424.
51 Lett. 320, del 31 luglio 1820, ivi, p. 425.
52 Lett. 292, del 7 aprile 1820, ivi, pp. 388-90; la cit. a p. 389; così le due successive. Dietro lo stampatore si celava in realtà il Brighenti, che avrebbe voluto dedicare il libretto al tenore Matteo Babini, come si deduce da due lettere del Giordani del 12 e del 15 marzo 1820 al Brighenti stesso (lett. 655 e 657, in Opere di P. Giordani, Epistolario, edito per A. Gusalli, compilatore della vita che lo precede, Milano, Borroni e Scotti, 1854, vol. v, pp. 47 e 57): cfr. De Robertis, Storia del libro cit., pp. xxxii-xxxiii.
53 Lett. 299, del 28 aprile 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 399-401, la cit. a p. 399.
54 Lett. 304, del 26 maggio 1820, al Brighenti, ivi, pp. 406-408, la cit. a p. 407. La lettera del Brighenti del 17 maggio 1820 (lett. 302), si legge ivi, pp. 403-404.
55 Un piccolo indizio della percezione di questa anomalia si trova forse nella lett. 304, del 26 maggio 1820, con cui la dedica è inviata, dove la canzone Ad Angelo Mai è chiamata curiosamente (quasi correzione involontaria) «la Canzone del Mai» (ivi, p. 407), mentre nella lett. 292, del 7 aprile, era indicata come «quella al Mai» (ivi, p. 389; così la successiva).
56 Cfr. Dediche leopardiane II cit..
57 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. ii, p. 933; la precedente a p. 634 (reintegro la scansione fornita in Id., Tutte le opere. Le poesie e le prose, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 19658, vol. ii, pp. 217-18, la cit. a p. 217).
58 Id., Poesie e prose cit., vol. i, 160.
59 Lett. 320 cit., in Epistolario, vol. i, p. 425; così la successiva.
60 Lett. 327, del 28 agosto 1820, ivi, pp. 434-36; la cit. alle pp. 435-36.
61 Lett. 328, del 28 agosto 1820, ivi, pp. 436-37.
62 ett. 336, del 29 settembre 1820, ivi, pp. 444-45; la cit. a p. 445.
63 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 160. Si noti la curiosa dichiarazione di genere («ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri»), forse da leggere come un implicito rinvio − come a modello non dichiarato − al testo funebre e sepolcrale per eccellenza, i Sepolcri foscoliani, dei quali si trovano echi e suggestioni nella canzone.
64 Ivi, pp. 107-10; la cit. a p. 110.
65 Cito da F. Petrarca, Canzoniere, Testo critico e introduzione di G. Contini, Annotazioni di D. Ponchiroli, Torino, Einaudi, 1974, p. 366. La successiva da RVF xxxvii, 69, pp. 51-54, la cit. a p. 53.
66 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, pp. 16-21, la cit. a p. 18.
67 Lett. 256, del 10 settembre 1819, in Epistolario, vol. i, pp. 342-43; la cit. a p. 343. La precedente lett. 320 cit., ivi, p. 425.
68 Locuzione, quest'ultima, attestata in scritture quattro-cinquecentesche: per esempio nel Proemio di Cristoforo Landino al volgarizzamento della Sforziade di Giovanni Simoneta, «immortale amicizia per la quale la Casa sua è stata aditta e devota al nome sforzesco sommamente desideroso quello quanto portano le sue forze propagare e per ogni parte distendere» (in C. Landino, Poemi programmatici, a cura di R. Cardini, Roma, Bulzoni, 1974), o in una relazione del 1559 di Leonardo Mocenigo, «l'altro teme di aver spesa ordinaria maggior di quella che portano le sue forze» (L. Mocenigo, Relazione di Germania, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, Tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, a cura di L. Firpo, Torino, Bottega d'Erasmo, 1965); cito entrambe le occorrenze da http://www.bibliotecaitaliana.it.
69 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 19; la precedente ivi, p. 160.
70 Id., Zibaldone cit., vol. i, pp. 461-62 [725].
71 Ivi, vol. ii, p. 1817 [3479].
72 Id., Poesie e prose cit., vol. i, p. 155.
73 Ivi, p. 160; la precedente a p. 17.
74 Id., Crestomazia italiana. La prosa, Introduzione e note di G. Bollati, Torino, Einaudi, 1968, pp. 3-5; la cit. a p. 4.
75 V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d'Alfieri, 1951, vol. i, pp. 7-8; la cit. a p. 7; su cui cfr. M. A. Terzoli, Dediche alfieriane, in I margini del libro. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura della stessa, Padova, Antenore, 2004, pp. 263-89, in partic. pp. 268-69; per il rapporto con Leopardi si veda Genetelli, Agonismi leopardiani cit., p. 94.
76 Si vedano rispettivamente la lett. 316, del 17 luglio 1820, in Epistolario, vol. i, pp. 420-21, in partic. p. 421; e gli Abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, in G. Leopardi, Autobiografie imperfette e Diario d'amore, a cura di M. A. Terzoli, Firenze, Cesati, 2004, pp. 63-74, in partic. pp. 69 e 71 (con il titolo vulgato Ricordi d'infanzia e di adolescenza si leggono in Leopardi, Poesie e prose cit., vol. ii, pp. 1187-99).
77 Ultime lettere di Jacopo Ortis, Testo stabilito e annotato da M. A. Terzoli, in U. Foscolo, Opere, vol. ii, Prose e saggi, Edizione diretta da F. Gavazzeni, con la collaborazione di G. Lavezzi, E. Lombardi e M. A. Terzoli, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, rispettivamente pp. 33-34, la cit. a p. 33; e pp. 93-99, la cit. alle pp. 98-99.
78 Rispettivamente U. Foscolo, Poesie e carmi. Poesie - Dei Sepolcri - Poesie postume - Le Grazie, a cura di F. Pagliai, G. Folena, M. Scotti, Edizione Nazionale delle Opere, vol. i, Firenze, Le Monnier, 1985, p. 98; Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 15; cfr. De Robertis, Canti cit. (1978), p. 37, nota 5.
79 Foscolo, Poesie e carmi cit., p. 71; riprodotta in AIDI, http://margini.unibas.ch, scheda redatta da chi scrive.
80 CANTI / del conte / GIACOMO LEOPARDI. / FIRENZE / presso guglielmo piatti / 1831, pp. 3-7 nn., la cit. a p. 4 nn.; la precedente a p. 3 nn. (se ne veda l'anastatica, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1997; dedica riprodotta in AIDI, http://margini.unibas.ch, scheda redatta da chi scrive); ora in Id., Poesie e prose cit., vol. i, pp. 152-53, le due cit. a p. 152. Sulla fortuna sette-ottocentesca dell'epigrafe petrarchesca e sul suo impiego nel primo Ortis si veda di chi scrive, Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale tra politica e censura, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 195-96.
81 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. ii, pp. 212-21; la cit. a p. 220; cfr. E. Peruzzi, Agli amici suoi di Toscana, in Id., Studi leopardiani II cit., pp. 169-81, in partic. pp. 174-75. Nel saggio è studiato l'autografo della dedica e sono indicate possibili consonanze (in apertura e in chiusura) con la dedica della fortunata romanza di Giovanni Berchet, La Fantasie, uscita a Parigi presso Delaforest nel 1829.
82 Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.
83 Poesie e prose cit., vol. i, p. 153; le precedenti in Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis cit., pp. 133-34. Mi è noto solo un altro caso in cui la parola «addio» ricorre in questo genere di testi: si tratta della dedica di Gabriele D'Annunzio a Mario Pelosini premessa alla Contemplazione della morte (Milano, Treves, 1912), a cui potrebbe non essere estraneo proprio il precedente leopardiano, come sembrerebbe suggerire anche la sua collocazione identica in chiusura (cfr. in AIDI, http://www.margini.unibas.ch, la scheda redatta da M. Ingletti).
84 Tutte queste citazioni ivi, p. 133.
85 Ivi, p. 134; la precedente a p. 135.
86 Ibid.; la precedente e la successiva in Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.
87 U. Foscolo, La Chioma di Berenice, in Id., Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Ediz. Nazionale cit., vol. vi, 1972, pp. 267-447, in particolare pp. 270-71; la cit. a p. 271. La successiva in Leopardi, Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.
88 Lett. 1656, del 6 ottobre 1831, in Epistolario, vol. ii, pp. 1826-27; la cit. a p. 1827. La lettera è successiva a quella del Colletta del 1 aprile 1831 (lett. 1607, ivi, pp. 1786-87), che comunicava a Leopardi la fine del sostegno finanziario da parte del gruppo degli amici toscani. La reazione qui attestata è ben lontana, nella sua nobile amicizia, dalle parole che, secondo il Ranieri di molti anni più tardi (con la grossolana se pur involontaria deformazione che riguarda tutta la figura di Leopardi nei Sette anni di sodalizio), avrebbe pronunciato Leopardi in proposito: «Il generale Colletta volle trarmene; e, raccogliendo intorno a se molti di questi signori, mi fece un peculio per un anno. Si aspettava che io componessi e dedicassi. Non ho potuto la prima cosa, e non ho mai voluto la seconda; ed il peculio non sarà rinnovato» (A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Con un'introduzione di G. Cattaneo e una nota di A. Arbasino, Milano, Garzanti, 1979, p. 29, cit. da Peruzzi, Agli amici suoi di Toscana cit., p. 173). Si noti che l'affermazione «non ho mai voluto la seconda» non è neppure vera nei fatti, come mostra anche questo studio sulla lunga e articolata pratica dedicatoria di Leopardi.
89 Lett. 1653 cit., in Epistolario, vol. ii, p. 1823.
90 Del primato morale e civile degli Italiani, a cura di U. Redano, Edizione Nazionale delle opere edite e inedite di V. Gioberti, promossa dall'Istituto di studi filosofici Enrico Castelli e dal Centro internazionale di studi umanistici, Milano, F.lli Bocca, 1938-1939; cito da http://www.bibliotecaitaliana.it. La citazione successiva in Poesie e prose cit., vol. i, p. 153.