Alfonso Casella
Note d’autore in forma di Requiem
Una testimonianza su Tabucchi e Filippini
1. Un’ipotesi paratestuale: le note d’autore in forma di Requiem
Come è noto, il concetto di paratesto introdotto da Genette, presenta una serie di possibili varianti attraverso le quali può essere interpretato un testo letterario; ma al contempo, esso si rivela anche come uno strumento d’indagine essenziale per un approccio conoscitivo più ampio nei confronti dell’autore.
A livello paratestuale ad esempio è molto facile rintracciare, soprattutto nelle riedizioni delle prime tre opere giovanili di Antonio Tabucchi, una serie di note d’autore o lettere prefatorie che contengono elementi determinanti sulla genesi dell’opera o precisazioni talora rilevanti. Si tratta di note scritte di suo pugno, con l’aggiunta di luogo e data e tutte firmate puntualmente con le iniziali.1 Nel caso in esame si tratta senz’altro di fatti ulteriori che possono aiutare il lettore a ricostruire l’intera dinamica degli esordi e della sua carriera letteraria.
Le note d’autore hanno sempre costituito in quasi tutti i libri di Tabucchi un preziosissimo paratesto esplicativo sull’origine dell’opera, talora illuminando chi legge sul significato più recondito della storia, ovvero sulle precise circostanze che hanno segnato l’epifania iniziale del romanzo o ancora riportando notizie e indicazioni interessanti sui padrini editoriali che hanno segnato la stesura del testo fino alla sua definitiva pubblicazione. Non mancano ad esempio riferimenti intimi e personali che hanno spinto a scriverlo: noia, divertimento, gioco, inquietudini, insonnie se non addirittura presenze indefinibili. Quasi un viatico insomma, con il compito preciso di instradare il lettore un attimo prima d’intraprendere l’avventura del testo che si trova davanti.
Ciò accade in quasi tutti i libri di Tabucchi, tanto da costituire una costante. Escluse rarissime eccezioni,2 si può affermare dunque con certezza che gli avantesti tabucchiani anticipano di fatto l’opera illustrandone i contenuti fin dalla prima edizione. Vi sono però tre note d’autore che risultano successive alla prima pubblicazione del libro: e queste appaiono a distanza di molti anni, dalla seconda edizione in avanti.
A differenza degli altri avantesti tabucchiani, questi scritti non sono stati composti in occasione dell’uscita del libro: si tratta semmai di aggiunte successive che accompagnano l’opera giovanile a distanza di svariati anni. Nel caso di Piazza d’Italia, ad esempio, si tratta di una nota composta esattamente vent’anni dopo la prima edizione. Il secondo romanzo invece, intitolato Il piccolo Naviglio, pubblicato da Mondadori nel 1978, viene ripubblicato a distanza di trentatré anni, pochissimi mesi prima della scomparsa dell’autore. Più breve ancora è l’iter del terzo libro, vale a dire la raccolta dei racconti intitolata Il gioco del rovescio, che rivede la luce a più breve distanza: uscito nel 1981 con il Saggiatore nella collana Le Silerchie, viene ripubblicato da Feltrinelli alla fine dello stesso decennio con una prefazione alla seconda edizione.
Da una parte dunque la prefazione in forma di nota che svolge la funzione per conto dell’autore di redigere un riassunto minimo sulle circostanze che hanno accompagnato la gestazione del libro, dall’altra la rievocazione a distanza in forma di riconoscenza postuma nei confronti di chi ha reso possibile la pubblicazione dell’opera medesima.
Non è un caso quindi che questa peculiarità paratestuale riguardi esclusivamente i primi tre libri di Tabucchi, cioè quei testi giovanili che hanno segnato l’abbrivio della sua carriera letteraria. Tutti e tre di identica fattura editoriale, inizialmente sprovvisti a margine di elementi di carattere informativo, si arricchiranno solamente in un secondo momento di un prezioso paratesto firmato dall’autore in persona e corredato poi di volta in volta da un affettuoso ringraziamento “a posteriori”.
Nella nota alla seconda edizione del suo romanzo d’esordio Antonio Tabucchi si esprime in questi termini:
Scrissi Piazza d’Italia nel 1973 e lo pubblicai nel 1975. Sono passati vent’anni e mi sembra giusto ripubblicarlo […]. Uscì per volontà del mio amico Enrico Filippini, che ricordo con affetto […]. Non mi resi conto che con questo libro sarei diventato uno scrittore. Le cose prima succedono e poi ci si riflette sopra.
Medesima formula verrà adottata nella seconda edizione de Il piccolo naviglio e approccio pressoché identico manterrà l’autore nella ristampa del suo terzo libro intitolato Il gioco del rovescio.
Che cosa avrebbero dunque in comune questi tre paratesti a differenza degli altri avantesti tabucchiani? In primo luogo la non contestualità della nota d’autore con l’opera pubblicata; in secondo, la distanza cronologica dell’autore rispetto ai fatti che vengono raccontati. Altra particolarità è la totale assenza della “controparte” citata: i nomi e cognomi che vengono rievocati con autentico affetto e nostalgico candore, non solo appartengono a un tempo che non c’è più, ma sono tutti scomparsi.
A guardare bene si tratterebbe di una distanza che potrebbe anche compromettere la fedeltà dei fatti narrati, poiché l’autore rievoca un periodo lontano della propria esistenza, nel tentativo di ricucire a margine del testo i fili della propria memoria personale, di seminare nel frattempo segnali autobiografici più che mai rilevanti. L’autore in sostanza si troverebbe nella singolare posizione di essere l’unico testimone oculare dell’evento narrato, l’unico teste possibile in grado di rammentare le vicissitudini editoriali in cui è avvenuto il proprio esordio e così l’iter dei suoi libri successivi. È lo scrittore maturo, impegnato oramai a richiamare alla memoria se stesso giovane; o meglio: è il romanziere affermato che tenta di ricostruire le fasi iniziali della sua carriera, rivedendosi allo specchio della fama acquisita e da un’altezza cronologica del tutto differente.
Con espressioni sempre colme di gratitudine, l’autore si rivolge a distanza di decenni a coloro che lo hanno incoraggiato a scrivere quel libro, ma si rivolge contemporaneamente anche al se stesso di allora,3 proprio come se fosse un altro, come se appartenesse egli stesso al mondo di fantasmi che popolano il suo affollatissimo universo letterario. Si è detto: rievocazione “a posteriori” o riconoscimento “postumo”, ma si potrebbe ancor meglio precisare: “alla memoria”.
Un simile paratesto assomiglierebbe più a un cerimoniale letterario in memoriam che a una semplice e ordinaria prefazione, un cerimoniale letterario ad hoc celebrato in forma di epitaffio, tramite il quale il destinatario del ricordo, non essendo più in vita, si trasforma a sorpresa in un fantasmagorico personaggio che ancora interagisce col testo, vagando silenziosamente nei suoi dintorni. Forse, per usare un’espressione più congeniale a Tabucchi − poiché si avvicina molto al suo modo di avvertire il mondo testuale e paratestuale − tutto ciò si potrebbe tranquillamente definire una “nota d’autore in forma di Requiem.”
2. L’editor, il narratore, il testimone
Nell’epigrafe di uno dei suoi ultimi romanzi intitolato Tristano muore, Antonio Tabucchi traduce in forma di domanda il verso di Paul Celan tratto da Aschenglorie: chi testimonia per il testimone? Il gioco di parole più che una libera traduzione da Celan trasforma un’affermazione in un interrogativo, che in realtà è lo stesso Tabucchi a porsi, anticipando in tal modo la risposta del poeta. L’originale infatti suona esattamente in questo modo: «Niemand / zeugt für den / Zeugen».4
Ma il caso da trattare non riguarda in alcun modo il romanzo appena citato, che comunque fa parte di un Tabucchi oramai maturo e quindi interamente svelato dalla critica, un autore ampiamente affermato a livello europeo e non solo, di cui già si conosce pressoché tutto. La questione si pone invece in relazione alla testimonianza del Tabucchi giovane degli esordi, scrittore di cui si conosce ben poco. Quanto conosciamo finora, è ciò che lo stesso Tabucchi ci ha svelato in svariate occasioni: interviste, note d’autore, articoli, presentazioni di libri, conferenze in giro per il mondo: tutti indizi utilissimi, tramite i quali è possibile ripartire per ricostruire la fase meno nota della sua carriera.
A tal fine ho voluto riprendere l’ambiguità semantica sollevata dai versi di Celan e citati liberamente in esergo da Tabucchi, poiché la domanda da porsi è la seguente: chi può testimoniare intellettualmente per conto dell’autore, nel caso in cui è lui stesso l’unico testimone oculare dell’evento che lo riguarda direttamente? E ancora, a quali fonti ulteriori possiamo attingere per riordinare discrepanze o distorsioni cronologiche o eventuali travisamenti dei fatti dovuti alla lunga distanza occorsa tra il fatto ricordato e il momento in cui lo si ricorda?
La questione insomma di “chi testimonia per il testimone” − in modo particolare quando si tratta di testimoni inconfutabili è una questione di non poco conto in letteratura. E ciò è da prendere in seria considerazione soprattutto nel caso dell’esordiente Antonio Tabucchi e del suo editor Enrico Filippini. Ma definire Enrico Filippini un semplice consulente editoriale vuol dire collocarlo dentro lo spazio ristretto di un’etichetta che non gli rende merito, poiché non descrive pienamente il suo potenziale innovativo e sperimentale all’interno del panorama letterario italiano del suo tempo. Il suo peso, nella storia del secondo Novecento italiano, come dice Luigi Weber, è ancora tutto da misurare.5
Il Nani, come veniva chiamato negli ambienti culturali milanesi,6 ha rappresentato per almeno un ventennio a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un punto di riferimento costante per un grande numero di giovani scrittori (divenuti celebri o rimasti senza fama) che a lui devono l’esordio o il lancio nel mondo della letteratura e della neoavanguardia. Tra questi si iscrive senz’altro il nome di Antonio Tabucchi.
Enrico Filippini nasce a Cevio nel 1932, in Ticino, dove ottiene il diploma magistrale. Inizia a lavorare giovanissimo come maestro elementare e dopo aver sposato Ruth, figlia del filosofo Julius Schmithauser, rimane folgorato dai filosofi letti nella biblioteca del suocero. Abbandona la famiglia per trasferirsi a Milano, dove si laurea in filosofia con Enzo Paci. Sul finire del decennio inizia la sua attività di traduttore e consulente editoriale prima con Feltrinelli fino al 1968, successivamente presso la casa editrice Bompiani. Filosofo, intellettuale polivalente, letterato, critico militante e traduttore di Günter Grass, Max Frisch, Uwe Johnson, Friedrich Dürrenmat e molti altri, dopo aver animato per quindici anni la vita letteraria milanese abbandona la traduzione e la consulenza editoriale per trasferirsi a Roma (dove morirà nel 1988), come responsabile delle pagine culturali di Repubblica. Ma Filippini, oltre che fine scrittore d’avanguardia (benché abbia pubblicato pochissimo), è stato anche l’ideatore “fattuale” del Gruppo 63. In qualità di “referente transnazionale” si reca personalmente in Germania nel 1962, per verificare come funzionasse il Gruppo 47 e importare quel modello anche in Italia.7
L’esordio letterario di Tabucchi secondo la vulgata critica più diffusa avviene assai rapidamente, quasi a sorpresa, a metà degli anni Settanta. Gli ingredienti delle prime traversie editoriali sono da considerarsi fatti noti, perlomeno sulla scorta di quanto l’autore stesso ha ripetutamente dichiarato molti anni dopo: un manoscritto concepito per puro divertimento, dimenticato poi sopra la mensola della sua casa in Toscana, la visita di un amico editor, la curiosità di leggerlo e una telefonata di lì a pochi giorni: bene, visto si stampi, pubblicazione.
In realtà, le cose non stanno esattamente in questo modo. Non a caso la stessa Thea Rimini, nel ricostruire di recente le vicissitudini editoriali che hanno portato l’autore alla pubblicazione del primo libro, premette immediatamente che la procedura fu molto più articolata della concisa versione che ci ha tramandato Tabucchi, specialmente dopo aver consultato gli archivi Einaudi e Mondadori, sedi presso cui ha rintracciato la corrispondenza che avrebbe accompagnato l’iter editoriale del manoscritto tabucchiano tra una casa e l’altra.8
Il romanzo verrà pubblicato invece per i tipi della Bompiani, per esplicita volontà di Enrico Filippini.
Caro Tabucchi,
[…] Piazza d’Italia è in composizione e uscirà nei primissimi mesi del ’75. Quando ci saranno le bozze mi farò vivo con Lei perché bisognerà che ci incontriamo.
Molti cordiali saluti dal Suo
(Enrico Filippini)
Direzione editoriale.9
Con questa lettera, finora inedita, dal tono formale e asciutto, scritta a macchina, su foglio intestato Casa editrice Bompiani e datata 3 ottobre 1974 a macchina, prende avvio la carriera letteraria dell’autore di Sostiene Pereira, ma al contempo inizia la breve corrispondenza tra Enrico Filippini e il giovane Antonio Tabucchi.
Il rigoroso Lei dato da Filippini nella prima lettera, verrà immediatamente sostituito da un tu più confidenziale già nella lettera successiva, segno che l’incontro potrebbe essere avvenuto tra la prima e la seconda missiva, così come al «caro Tabucchi» seguirà un affettuoso «carissimo».
Questo rapporto epistolare in parte è lo specchio di una lunga amicizia. Inizialmente si tratta di semplici comunicazioni di servizio di carattere editoriale, poi lo scambio di informazioni diventa più informale, estendendosi a eventi culturali da pianificare in due, come un reportage sul Portogallo del dopo Salazar o convegni letterari e presentazioni di libri.
Il corpus epistolare che è oggetto di studio specifico in una ricerca che sto svolgendo nell’ambito del mio lavoro di dottorato consta di due lettere di Filippini, rinvenute nell’archivio privato di Antonio Tabucchi a Lisbona più n. 4 lettere composte da Tabucchi (due dattiloscritte, due manoscritte) che si trovano nel Fondo Filippini presso la Biblioteca Cantonale di Locarno.
Come si può facilmente intuire confrontando la data della prima lettera con quella dell’uscita di Piazza d’Italia, la gestazione editoriale del romanzo ha avuto senz’altro tempi più lunghi del previsto. Agli inizi di ottobre, le bozze non sono ancora pronte. Il libro d’esordio di fatto uscirà a maggio, nonostante Filippini parli nella lettera di “primissimi” mesi dell’anno successivo. Tabucchi dichiarerà molto più tardi in un intervista televisiva:
nel 75 passò da nostra casa Enrico Filippini che è stato per me un caro amico. Filippini è stato un po’ l’anima intellettuale del cosiddetto Gruppo 63. […] era uno svizzero formatosi a Milano. […] Vide vicino al telefono il dattiloscritto […], se lo prese e lo portò via. E poi mi chiese se poteva pubblicarlo.10
Appare evidente che, se la lettera è del 3 ottobre 1974 e il libro viene pubblicato nel maggio del 1975, il primo incontro tra i due deve essere avvenuto molto prima, assai probabilmente nello spazio temporale intercorso tra la prima e la seconda lettera di Filippini, o, per meglio dire, nel mezzo del passaggio allocutivo dal Lei al tu.
3. Chi testimonia per il testimone?
Quando un romanziere si affida alla memoria personale per raccontare l’episodio del proprio esordio letterario, corre sempre il rischio di costruire una narrazione di sé non sempre congruente e giustificata da fatti precisi e concordanti. Può perfino accadere, che a forza di ripeterli automaticamente come li ricorda, l’autore finisca a un certo punto per riconoscerli come veri, tanto da farli somigliare alla narrazione finzionale dei suoi stessi libri. Del resto, tutti i personaggi tabucchiani scaturiscono puntualmente da un equivoco, da una bizzarra coincidenza, da una nuvola passeggera di casualità: si badi bene, un errore della memoria autobiografica può banalmente verificarsi nella vita di un autore, di sicuro senza alcuna congetturata millanteria da parte sua. A volte può accadere perché la ricostruzione dell’esordio di uno scrittore famoso è obbligata inconsapevolmente − o forse per contagio imitativo − a rispettare i canoni della sua stessa fama, a ricalcare cioè le orme di una epopea editoriale in atto. Ma potrebbe anche trattarsi più semplicemente del fatto che il fraintendimento riguardi lo scrittore in relazione ai suoi ricordi personali e a come si percepisce a distanza, da una diversa angolatura o altezza cronologica. Sia come sia, nella narrazione che lo scrittore Antonio Tabucchi fa di sé, nel rammentare in pubblico l’evento che dà avvio alla sua carriera letteraria, vige una costante ormai consolidata, poiché è stata ripetuta più volte in svariate occasioni: l’incontro con il ticinese Enrico Filippini. Benché le versioni circa le modalità in cui è avvenuto l’incontro concordino tutte perfettamente e la narrazione risulti quasi sempre coerente, va detto subito a scanso di equivoci che questo particolare momento biografico contiene non poche incongruenze in parte del tutto trascurabili, in parte assolutamente rilevanti perché non consentono una piena ricostruzione dei fatti relativi all’uscita dei primi romanzi di Tabucchi e le sue vere e più profonde aspirazioni letterarie.11
Fino alla pubblicazione nei Meridiani12 e fino al rinvenimento del carteggio fra Filippini e lo scrittore toscano non esisteva alcun un riscontro preciso su quanto Tabucchi ha sempre affermato nel rammentare i suoi esordi: d’altra parte, quale testimonianza può essere più precisa se non quella di colui che l’ha direttamente vissuta? Tanto che, perfino nell’avanzare qualunque ipotesi investigativa sulle note in forma di requiem sopra ricordate, dobbiamo sempre attenerci al testimone legittimo, che è da intendersi sempre l’autore, l’unico in grado di fornire la versione più credibile della propria vita artistica.
Occorre però notare che Tabucchi dà forma scritta a questa narrazione per la prima volta quasi vent’anni dopo dall’esordio, nel frattempo Filippini è morto e l’unico a riferire l’evento che riguarda entrambi non può che essere lui. Diciassette anni dopo la nuova edizione del libro, nel corso di una intervista concessa al quotidiano La Repubblica, Tabucchi sintetizzava il tutto adoperando più o meno la stessa formula, riaffermando quanto era già presente nella nota del 1993, «non pensavo di fare lo scrittore»:
Nel 1973 mi stavo specializzando in filologia alla Scuola Normale di Pisa. Avevo 30 anni e non pensavo di fare lo scrittore. Lo scrissi per ingannare la noia d’una estate mentre con mia moglie Maria José aspettavo un figlio. Il dattiloscritto rimase buttato su una consolle, nell’ingresso, finché passò a casa mia Enrico Filippini, il Nanni,13 che allora era direttore editoriale di Bompiani. Cos'è?, mi chiese indicando i fogli. Un divertimento. Se lo portò via. Dopo due settimane mi telefonò: lo pubblico. Avvenne così, per caso, come a volte accadono le cose importanti della vita.14
È durante un lungo dialogo con Marco Alloni, registrazione che dà vita al libro intervista intitolato Antonio Tabucchi, Saudade di libertà, che lo scrittore fa più o meno le medesime confidenze ma aprendosi questa volta a una confessione leggermente più articolata:
I miei esordi di scrittore sono stati determinati dal semplice piacere di scrivere e sono del tutto casuali. Devo peraltro dire che ho esordito piuttosto tardi: quando pubblicai il mio primo romanzo − che in verità avevo scritto due anni prima − avevo già trentadue anni. […] A quel tempo non pensavo affatto di diventare scrittore. Facevo altre cose, che ho continuato a fare anche in seguito; mi occupavo di filologia iberica, di testi cinquecenteschi di scrittori bilingui portoghesi e spagnoli. […] Era l’estate del 1973, mia figlia sarebbe nata in agosto. […] Dopo la nascita di mia figlia il dattiloscritto di quella storia, scritto per puro divertimento in un momento di sospensione, restò sul tavolino accanto al telefono. Così passò molto tempo. […] Un giorno, venne a pranzo da noi Enrico Filippini, che poi sarebbe diventato un caro amico, il “Nanni”. Gli devo molto e lo ricordo con affetto, è stato probabilmente uno degli spiriti più vivaci del cosiddetto Gruppo 63: svizzero ma cresciuto culturalmente a Milano, di solida formazione filosofica e letteraria (aveva tradotto Heidegger e Günter Grass), il “Nanni” era un intellettuale versatile e curiosissimo, lettore vorace, di una vitalità prorompente. Lo avevo conosciuto di sfuggita a Milano grazie a Cesare Segre (un’altra persona che considero mio “maestro” senza esserne stato allievo) che stava curando un volume per Bompiani di cui in quel momento Filippini era direttore editoriale. Finito il pranzo, uscendo di casa mia, il Nanni notò il dattiloscritto vicino al telefono e mi chiese cosa fosse. Risposi che si trattava di una specie di romanzo che avevo scritto un paio di anni prima per passare il tempo. E il Nanni se lo portò via.
Circa un mese dopo mi chiese il permesso di pubblicarlo. Potrei dire di me: lo sventurato rispose.15
Tabucchi lascia intendere in più occasioni di non aver mai pensato di intraprendere la carriera di scrittore, che lo sarebbe diventato per caso, in maniera del tutto incidentale: finge nientemeno di essere stato “manzonianamente” sedotto, recitando per gioco − con il solito piglio ludico che lo contraddistingueva in vita e nelle interviste − il ruolo della vittima inconsapevole. A questo punto però può sorgere un dubbio più che mai legittimo: ma lo sventurato, rispose o domandò? Insomma, aveva o non aveva Tabucchi l’ambizione di diventare uno scrittore? Per quale motivo allora in occasione dell’invio del primo manoscritto era stata interpellata l’Einaudi di Italo Calvino, tramite la portoghesista Luciana Stegagno Picchio e contemporaneamente la casa editrice Mondadori, tramite Silvio Guarnieri, il quale si affidò direttamente a Vittorio Sereni?
E ancora, mentre il libro era già presso Bompiani nelle more della pubblicazione, perché lo stesso Tabucchi aggiorna per lettera il direttore editoriale Mondadori Alcide Paolini circa l’approdo finale del romanzo d’esordio, chiedendogli sinceramente se lo avesse letto o meno e cosa ne pensasse in merito?16 Ma non solo. Dal carteggio inedito consultato risulta che lo scrittore toscano aveva nel frattempo già dato in lettura a Enrico Filippini un secondo romanzo da pubblicare, presumibilmente sempre con Bompiani, come si legge in una lettera del 15 luglio 1975: «[…] Sei d’accordo con me che “il negozio dei fischi” è meglio per ora tenerlo nel cassetto?».17
Nella lettera successiva, datata 18 luglio 1975, Filippini si complimenta per il libro e concorda con l’idea di accantonare momentaneamente il progetto:
Carissimo,
ho letto Il negozio dei fischi (che riaffido a Ugo Volli in attesa che passino le tue vacanze) e lo trovo bellissimo. Ma sono anche certissimo di ciò che si diceva al telefono: se esci con questo libro dopo Piazza d’Italia sei − scorrettamente − catalogato per il resto dei tuoi giorni. Il mio vivissimo consiglio è di aspettare il malloppone.18
Che cosa sia di fatto il «malloppone» è presto detto. Nell’inverno del 1975 Tabucchi, che insegna Letteratura Portoghese alla Facoltà di Magistero a Bologna, ha già scritto il suo terzo romanzo, intitolato Il piccolo Naviglio.
A dare conferma tuttavia dell’esistenza di questo inedito giovanile rimasto sepolto tra gli scartafacci tabucchiani per circa quarant’anni, oltre agli espliciti richiami rintracciabili nel carteggio, intervengono le dichiarazioni di Maria José De Lancastre, vedova dello scrittore, pubblicate negli Atti di un convegno tenutosi a Bruxelles per commemorare il Tabucchi postumo: «Tra le scatole di Inediti: una contiene alcune versioni dattiloscritte di un piccolo romanzo inedito, scritto negli anni settanta, dopo Piazza d’Italia, e intitolato “La bottega dei fischi”».19
E ancora, scorrendo a ritroso i titoli pubblicati da Tabucchi prima della stesura di Piazza d’Italia, è possibile enumerare una lista di racconti giovanili apparsi sulla rivista letteraria Il Caffè a partire dall’inizio di quel decennio. È proprio a seguito del primo testo inviato alla redazione che Tabucchi viene intercettato da Italo Calvino. Una testimonianza pubblicata di recente all’interno di un romanzo scrupolosamente autobiografico, a detta del suo stesso autore, attesterebbe l’interesse di Italo Calvino nei confronti del breve testo d’esordio:20
Conosce questo giovane? − mi chiese. − Mi pare sia di Pisa come lei.
Aveva fra le mani la copia di una rivista, “Il Caffè”, di cui era direttore, e che aveva pubblicato alcune brevi storie dal titolo Le macchine probabili. Era rimasto incuriosito da un particolare macchinario fantastico per castigare il papa, inventato da un autore esordiente, che si chiamava Antonio Tabucchi.21
È il 1971, altri racconti ancora sarebbero usciti dalla penna dello scrittore toscano prima che il romanzo “scritto per gioco” approdasse sulla scrivania di Enrico Filippini, amico e mentore del primo Tabucchi. A questo punto molto vi sarebbe da aggiungere sul rapporto tra lo scrittore toscano e l’editor ticinese, ma per un riepilogo più conciso sarebbe meglio attenersi a una voce affidabile.
Secondo la ricostruzione di Paolo Mauri, schematizzando cronologicamente i fatti secondo l’ordine fornito da Tabucchi in Ritratto d’autore, i due si sarebbero conosciuti nel 1973. L’estate dell’anno successivo, prima di andarsene dall’abitazione dello scrittore toscano, Filippini si mette a curiosare tra le sue carte, dopo qualche giorno gli telefona con l’intenzione di pubblicare il suo romanzo; sette mesi dopo l’uscita di Piazza d’Italia, Enrico Filippini lascia la Bompiani per approdare alle pagine culturali di Repubblica.
Quella di Paolo Mauri − amico di entrambi, scelto tra l’altro come giovane collaboratore del neonato giornale Repubblica proprio dallo stesso Filippini sembrerebbe la ricognizione più fedele nonché la versione più conforme dal punto di vista dei tempi tecnici.22 Rimane un ultimo dilemma temporale: il premio L’inedito, vinto dal giovane Tabucchi nel marzo 1975,23 dopo l’invio del manoscritto da parte dello stesso Filippini alla prestigiosa giuria presieduta da Maria Bellonci.
La circostanza del premio, precedentemente menzionata in una lunga intervista nella rubrica Scrittori allo specchio,24 viene ribadita senza sostanziali mutamenti qualche anno dopo, in occasione delle celebrazioni in memoria del poeta svizzero Grytzko Mascioni, vincitore de L’inedito nel 1974:
L’anno dopo, quello stesso premio lo vinsi io, con il mio primo romanzo, Piazza d’Italia. E qui entrerebbe in scena un altro amico svizzero, Enrico Filippini. […] Filippini un giorno, passando da casa mia, si era fermato a pranzo, aveva visto il manoscritto e se l’era portato via. Poco dopo mi era giunta questa notizia del premio; andai a Milano dove conobbi Grytzko […]: È grazie a Grytzko che io conobbi e poi diventai amico di Sereni.25
Grazie a Filippini dunque, che avrebbe inviato il manoscritto al premio L’inedito, l’autore di Sostiene Pereira avrebbe conosciuto Grytzko Mascioni. E sempre tramite quest’ultimo, gli sarebbe stato presentato Vittorio Sereni, che molto contribuirà in seguito alla sua carriera letteraria, come testimonia la nota d’autore dei due titoli successivi a quello d’esordio: «Dapprima mi è venuto incontro il mio tempo di allora. […] gli occhi affettuosamente vigili di Vittorio Sereni, perplesso davanti all’immagine di un quadro di Savinio».26
Se la nota d’autore in Piazza d’Italia nell’edizione Feltrinelli è formulata in memoria dell’editor ticinese deceduto cinque anni prima − nella riedizione del secondo (2011) e del terzo libro (1988) la rievocazione riguarda il poeta luinese scomparso improvvisamente nel febbraio del 1983.
Dopo l’esordio, Vittorio Sereni rivestirà per Tabucchi il ruolo di secondo padrino editoriale. Tuttavia la figura di riferimento a cui confidare i suoi sfoghi personali e le questioni più private e confidenziali resterà sempre Enrico Filippini, aggiornato sia telefonicamente sia per lettera sulle sorti editoriali del “malloppone”, benché non svolga più nessuna attività editoriale.
Mio caro Nanni,
mi ha telefonato stamani la Mondadori (Parazzoli) dicendomi che il libro avrà un piccolo “ritardo” e che sarà in libreria il 20 di marzo. L’uscita era prevista la settimana prima di marzo, ma ho capito che vi sovrapporranno il libro di Pontiggia. Il sostegno pubblicitario al piccolo naviglio, mi pare di capire, sarà poco rilevante.27
Nelle Notizie sui testi che riguardano il romanzo in questione, spuntano una serie di appunti per un’intervista (da concedere all’epoca a Paolo Mauri di Repubblica). In questo interessante esercizio orale trascritto con dovizia di particolari da Tabucchi, lo scrittore dichiara apertamente che Il piccolo naviglio è debitore dei saggi consigli di due amici: Enrico Filippini e Cesare Segre,28 a cui si aggiunge una terza presenza: il suo amico e maestro Silvio Guarnieri, il quale avrebbe seguito da vicino le diverse fasi di stesura e riscrittura del romanzo. Non è un caso che sulla locandina della presentazione de Il piccolo naviglio a Roma,29 nella Libreria Internazionale, avvenuta il 13 aprile 1978, campeggi ancora una volta il nome di Enrico Filippini accanto a quello di Silvio Guarnieri e della portoghesista Luciana Stegagno Picchio invitati a parlare come relatori.
Lo stesso discorso vale per il libro successivo, Il gioco del rovescio, anche questo imbastito sui preziosi suggerimenti fenomenologici forniti da Enrico Filippini, traduttore e studioso di Edmund Husserl. Ma è soprattutto l’influsso di autori quali Rudolf Carnap e Nikolai Lobacevski a contribuire efficacemente alla elaborazione concettuale del cosiddetto rovescio tabucchiano:30 una congerie di speculazioni filosofiche e implicazioni esistenziali che confluiranno in ordine sparso nella prima raccolta di contes philosophiques dello scrittore, raccolta a tutt’oggi considerata il suo primo vero successo letterario.
Filippini, il cui nome è assente nella Prefazione alla seconda edizione, ma la cui presenza è da ritenersi sottintesa e il suo contributo di tutta evidenza, nel marzo 1988, quando viene ripubblicato Il gioco del rovescio, è ancora in vita.31 L’esperimento che interessa a Tabucchi in questa breve fase pre-testuale, oltre a riordinare cronologicamente le epifanie degli undici racconti, è celebrare attraverso quelle sommarie informazioni di rito anche il rituale della nota d’autore in forma di requiem, consuetudine che ripeterà in Piazza d’Italia nel 1993 e nella riedizione del Piccolo Naviglio alla fine del 2011, pochi mesi prima dalla sua stessa scomparsa, avvenuta a Lisbona il 25 marzo 2012:
Mi resta da dire che Il gioco del rovescio fu pubblicato per la prima volta nel 1981 nella collana “Le Silerchie” dell’editore Il Saggiatore per desiderio dell’amico Vittorio Sereni, la memoria del quale mi è cara.32
A. C.
Note
1 I tre libri in ordine cronologico di pubblicazione sono: Piazza d’Italia (Milano, Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Milano, Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Milano, Il Saggiatore, 1981); diverso invece è l’ordine della loro seconda edizione: Il gioco del rovescio (Milano, Feltrinelli, 1988); Piazza d’Italia (Milano, Feltrinelli, 1993), Il piccolo naviglio (Milano, Feltrinelli, 2011).
2 Fanno eccezione: l’epitesto di Sostiene Pereira (Milano, Feltrinelli, 1994), il quale nascerà come articolo sulla scia del successo internazionale del romanzo, a pochi mesi dalla sua uscita e verrà incluso in seguito in appendice alla ristampa delle edizioni successive; La testa perduta di Damasceno Monteiro (Milano, Feltrinelli, 1997) corredato da un Nota successiva al testo, così come accadrà più tardi con il romanzo epistolare Si sta facendo sempre più tardi (Milano, Feltrinelli, 2002), che contiene invece un Postscriptum finale.
3 Scrive Tabucchi nella nota introduttiva a Piazza d’Italia: «E ripubblicare un libro che fu il nostro Io di allora. Quello ero l’Io che sono oggi, mi viene da chiedermi, o un’altra persona?». Riflessioni non dissimili dal testo che introduce Il piccolo naviglio: «Dapprima mi è venuto incontro il mio tempo di allora: è il 1978».
4 P. Celan, Ausgewählte Gedichte, Frankfurt, Surkamp, 1970, p. 116.
5 Cfr. L. Weber, Con onesto amore di degradazione, Romanzi sperimentali e d’avanguardia nel secondo Novecento italiano, Bologna, il Mulino, 2007, p. 148.
6 Cfr. M. Fuchs, Enrico Filippini editore e scrittore. La letteratura sperimentale tra Feltrinelli e Gruppo 63, Roma, Carocci, 2017, pp. 36-39.
7 Cfr. ivi, pp. 131-132.
8 Cfr. T. Rimini, Notizie sui testi, in A. Tabucchi, Opere, vol. I Milano, Mondadori, 2018, pp. 1479-602, in partic. p. 1484.
9 Lettera del 3 ottobre 1974, Archivio privato di Antonio Tabucchi, Lisbona.
10 Da una trasmissione di G. Minoli, Scrittori per un anno - Antonio Tabucchi, Rai.tv, andata in onda 30/07/2008, disponibile all’indirizzo: [http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-93160968-a35b-4433-8a21-a50c8ce6897b.html].
11 In merito a Lettere al capitano Nemo, romanzo rimasto a lungo inedito e recentemente pubblicato in Tabucchi, Opere, vol. ii, p. 713; si veda anche: P. Di Paolo, Il romanzo di Tabucchi che nessuno lesse mai, in La Stampa, 3 marzo 2016; si veda anche: T. Rimini, Dalla Toscana alle falesie atlantiche e ritorno, in «Filologia e Critica», xxxix, 2014, pp. 382-421.
12 T. Rimini, Notizie sui testi, in A. Tabucchi, Opere, a cura di T. Rimini, vol. i, Milano, Mondadori 2018, pp. 1479-602, in partic. p. 1484.
13 Sono in molti a cadere in questo errore: in realtà il vero appellativo di Filippini era “Nani”, ma molti lo chiamano Nanni, forse per la sua vicinanza professionale in Feltrinelli con Nanni Balestrini.
14 Intervista di S. Fiori, Antonio Tabucchi, così l’Italia è diventata il mio grande rimorso, in La Repubblica, 27.01.2010.
15 m. Alloni, Antonio Tabucchi, Saudade di libertà, Roma, Aliberti, 2011, pp. 13-17.
16 Cfr. T. Rimini, Notizie sui testi cit., p. 1485.
17 La lettera è datata 15 luglio, senza indicazione dell’anno, ma nella ricostruzione cronologica dell’intero carteggio si desume che si tratta del 1975, pochi mesi dopo l’uscita di Piazza d’Italia..
18 Lettera del 18 luglio 1975, Lettera del 3 ottobre 1974, Archivio privato di Antonio Tabucchi, Lisbona.
19 M. J. De Lancastre, Gli archivi di Tabucchi, in Tabucchi postumo: da Per Isabel all’archivio Tabucchi della Bibliotèque nationale de France, a cura di T. Rimini, Bruxelles, Peter Lang, 2017, p. 33.
20 Nella rivista Il Caffè Tabucchi pubblicò Le macchine probabili, nei numeri 3-4 del 1971, pp. 90-109, ristampato in Micromega, 3, 1995,,pp.69-93; Cambio di velocità, 2, 1972, p. 12; La ragazza di Asip [con due disegni di Tabucchi], 5-6, 1972 pp. 100-102; Scoperta di una vocazione. Un testo inedito di Giorgio Manganelli a cura di Antonio Tabucchi, 3-4, 1972, p. 88-89, ora anche in Opere, vol. ii cit., pp. 1382-83; La lingua nostra, 2-3, 1974, pp. 43-44.
21 L. Greco, Un’altra giovinezza veniva dal mare, Livorno, Iguazù, 2018, p. 73.
22 Cfr. P. Mauri Cronologia, in A. Tabucchi, Opere, vol. i cit., pp. lix-cxv, in partic. pp. lxix-lxx.
23 Nella lettera ivi citata Filippini scrive: «Piazza d’Italia è in composizione e uscirà nei primissimi mesi del ’75».
24 «Nanni fu a pranzo da noi e tra una chiacchiera e l’altra venne a sapere del libro. Decise di portarselo via per leggerlo. Poi un giorno mi telefonò: “Sai, quel tuo libro ha vinto un premio. Ce l’ho mandato io”. Era un premio intitolato L’inedito. “Per cui lo pubblichiamo.”», in A. Scarponi, Scrittori allo specchio: Sostiene Tabucchi, in «Lettera internazionale, Trimestrale europeo di cultura», 62, 1999, (online: http://www.retididedalus.it/Archivi/2012/maggio/INTERVISTE/1_tabucchi.htm).
25 A. Tabucchi, La mia amicizia con Mascioni, «Quaderni grigioniitaliani», 73, 2004, Zurigo, p. 130.
26 Id., Il piccolo Naviglio cit., p. 10.
27 Lettera del 20 marzo 1978, Fondo Enrico Filippini, Biblioteca Comunale di Locarno.
28 Cesare Segre è autore della quarta di copertina del romanzo d’esordio (Bompiani, 1975) contributo che viene menzionato da Tabucchi nella Nota alla seconda edizione di Piazza d’Italia con estrema gratitudine.
29 La locandina in questione, che appartiene all’archivio privato Antonio Tabucchi di Lisbona mi è stata gentilmente messa a disposizione dalla vedova dello scrittore, Maria José de Lancastre.
30 Cfr. P. Mauri, Cronologia, in A. Tabucchi, Opere, vol. i cit., pp. lix-cxv, in partic. p. lxix.
31 Enrico Filippini si spegnerà a Roma il 21 luglio 1988.
32 A. Tabucchi, Il gioco del rovescio cit., p. 5.