10, 2016 | ||
Wunderkammer |
Pier Jacopo Martello
Sermoni della Poetica. Proemio
a cura di Damiano D'Ascenzi
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Nota
Il testo qui trascritto − che riproduce le pagine 237-43 di Versi / e / Prose / di / Pierjacopo / Martello // [fregio] // in Roma / Per Francesco Gonzaga in via Lata / MDCCX. / Con licenza de’ Superiori − è il Proemio con cui il poeta arcade e tragediografo oriundo di Bologna corredò i suoi nove Sermoni della Poetica in terzine, dati alle stampe nel 1710 a Roma (ove Martello si era trasferito nel biennio precedente al séguito dell’ambasciatore felsineo presso la Santa Sede), ma il cui inizio deve esser forse fatto risalire al 1700 (cfr. Noce 1963, pp. 511-12). Come suggerisce l’incipit del primo sermone, «Sempre io starommi ad ascoltar, né mai / fra lo stuol che dettando arte poetica / t’assorda, Italia mia, me pure udrai?» (appariscente la ripresa dell’emistichio iniziale delle Satire giovenaliane «Semper ego auditor tantum?»), l’operetta didascalica martelliana nasce sull’onda di un’ansia comunicativa: l’autore, dopo aver per lungo tempo passivamente subìto l’inflazione di trattati di poetica intrisi di un autoritario quanto astratto dogmatismo aristotelizzante, sente di dover prendere la parola e inserirsi nel coro precettistico mediante un personale vademecum indirizzato all’aspirante poeta, costellato di consigli empirici e tutto affidato alla persuasione che ut pictura poësis. Tra le «instituzioni» più interessanti, quella che invita a schivare un’incontrollata proliferazione di dettagli superflui nelle sequenze prosopografiche («Che importa a me, quando il re d’Argo armossi / saper se alle gambiere avea d’argento / fibbie con correggiuoli o negri o rossi?», iii 40-42) in favore di una più sobria gerarchizzazione delle informazioni («Così pittore a crin per crin non piglia / a imitar chiome d’oro, e il pel trascura / se stender barbe o se curvar vuol ciglia / [...]. / Su quel ch’ei vuole in maggior pregio aversi / mette il pittor più finimento e forza; / languir fa il resto in fra color men tersi», iii 79-81 e 241-43); quella che raccomanda la specularità personaggio-ambiente («Tal, se a tendere insidie alcun s’adopra, / pingasi in loco intorniato e folto / di vie, di boschi», iii 184-86); quella che prescrive la verosimiglianza nella sermocinatio applicata alle figure di pastori nelle composizioni bucoliche («Proprio sia, non traslato, ogni lor detto: / quando umil cosa e pastoral si canta / lo stile umile sia, ma non abbietto», v 280-82). Fin dal principio del Proemio viene svelato l’indebitamento oraziano del suo estensore: di “Orazio satiro” si cita, in modalità esplicita non letterale, un passo di chiara impronta metapoetica: «neque enim concludere versum / dixeris esse satis neque, siqui scribat uti nos / sermoni propiora, putes hunc esse poetam» (Sermones i 4 40-42). Nella traduzione che improvvisa di questi esametri − «Né pensare che se qualcuno scriva, come io, con istilo il qual più s’accosti alla prosa, costui sia poeta» − Martello ottempera a ciò che propugna negli adiacenti sermoni, ovverosia il diniego della ridondanza nemica dell’«evidenza»: nel riadattamento del bolognese si rileva infatti l’eclissi della prima infinitiva oggettiva «concludere versum [...] esse satis», la degeminazione di «neque [...] neque» e il fondersi dei due verbi estimativi «dixeris» e «putes» in «pensare». Alle satire del Venosino è poi ascritto il pregio stilistico dell’«artificiosa naturalezza», espressione che pare recuperare il concetto di neglegentia diligens di matrice ciceroniana, forse con la mediazione della “sprezzatura” castiglionesca (cfr. Burke 1998, p. 12). In aggiunta all’inserto oraziano, campeggia nel testo anche un’ampia citazione non letterale sguarnita di rinvio alla fonte: il «bravo moderno», che ha illustrato i progressi della filosofia mediante l’apologo di Pitagora, Aristotele e Cartesio spettatori a teatro, altri non è che Bernard Le Bovier de Fontenelle, autore del dialogo diegetico di argomento cosmologico Entretiens sur la pluralité des mondes (1686): è proprio nel primo dei sei colloqui del libello francese che viene affabulato ciò cui allude Martello: «...mi immagino sempre la natura come un grande spettacolo rassomigliante a quello dell’Opéra. Dal posto che occupate all’Opéra non vedete certamente il teatro così come esso è; le decorazioni e i macchinari sono disposti in modo da rendere, da lontano, un effetto piacevole, e quelle ruote e quei contrappesi che fanno tutti i movimenti sono nascosti alla vostra vista. [...]. C’è forse soltanto qualche macchinista nascosto nella platea che si preoccupa di un volo che gli sarà sembrato straordinario, e che vuole assolutamente scoprire come sia stato compiuto. Vedete bene che questo macchinista somiglia molto ai filosofi. [...]. Immaginatevi tutti i saggi all’Opéra, i vari Pitagora, i vari Platone, i vari Aristotele e tutte quelle persone il cui nome fa oggi tanto rumore, supponiamo che essi vedessero il volo di Fetonte, apparentemente trasportato dal vento, e che essi non potessero scoprire le corde e che non sapessero come fossero disposte le quinte del teatro. Uno di essi direbbe: “È una virtù segreta che solleva Fetonte”. L’altro: “Fetonte è composto di certi numeri che lo fanno salire”. Un terzo: “Fetonte ha una certa predilezione per il soffitto del teatro; non è a suo agio se non è là”. L’altro: “Fetonte non è fatto per volare, ma preferisce volare più che lasciare vuoto il soffitto del teatro” [...]. Alla fine sono sopraggiunti Descartes ed alcuni altri moderni, che hanno detto: “Fetonte sale perché è tirato su da alcune corde e perché scende da un contrappeso più pesante di lui”» (de Fontenelle 1978, pp. 77-78). Taluni periodi del Proemio, poi, sono veri e propri “doppioni” di altrettanti segmenti in versi ubicati al di là dell’anticamera prosastica. Ad esempio, nei pronunciamenti a proposito del carattere esornativo dell’attività letteraria alla luce del più complesso congegno della vita associata («questa bell’arte non è di quelle le quali sieno al commerzio dell’onesto vivere necessarie») e della rarità degli autentici ingegni poetici («Appena un secolo ne può contar due o tre che meritino il nome d’insigne») vengono ritessuti i versi 55-60 del Sermone primo: «Ma della poesia cui solo è scopo / il sollevar con armonie la mente, / non far dotto, espor testi, o dar silopo, / come non necessaria a ogni vivente / vuol perfetti i suoi seguaci, e darne al mondo / appena uno per secolo consente». Anche dello scetticismo circa l’ostica teoresi filo-aristotelica («È stata un’esquisita politica della peripatetica scuola l’involvere in termini astrusi ed abbisognanti d’interpetri i suoi oracoli») si danno ulteriori avvistamenti nei Sermoni: «Né Aristoteli Omero avea per guida: / libero feo quanto guidar dovea / Aristotele a dir ciò ch’altri guida. / [...] / da Stagira attendiam l’arte febea?» (iii 28-30, 33). Nella zona terminale del Proemio, Martello − non prima di essersi giustificato per il ricorso al «numero e alla rima» affermando che, se proprio si vuole insegnare a poetare, il minimo è farlo poetando, in modo che il lettore-allievo possa vedere in esecuzione lo strumento nel cui uso l’autore-maestro intende renderlo competente − suggella il proprio discorso con una clausola formulare atta ovviamente a far sì che l'opera non incorra nella censura ecclesiastica: «Se poi avessi in queste satire, o sermoni, ch’io spero in ogni modo innocenti, lasciata correre qualcheduna di quelle forme che i poeti ammettono nel loro dire più da idolatri che da cattolici, protesto di farlo con un cuore tutto contrario a quelle profane voci, fermo di vivere e di morire costantissimo in quella Fede in cui colla bocca per terra ringrazio Dio d’esser nato». Testo liminare di accompagnamento orfano di apostrofi propiziatrici di munificenza o protezione − benché la conclusiva locuzione «colla bocca per terra» possa apparire come un relitto di quelle strategie dell’«abbassamento» previste dal codice dedicatorio (Terzoli 2003, p. 170) − il Proemio martelliano è un tipico avviso ai lettori post-rinascimentali, il quale, da «appannaggio del tipografo-editore» che vi riversava ragguagli sulla «mise en page» e «segnalazioni di errata» (Marini 2011, p. viii), s’è evoluto ormai in uno «spazio in cui» l’autore in persona può «esibire le proprie doti di polemista con inserti di [...] saggistica militante» (ivi, p. iii): e invero quella dei Sermoni della poetica, come ogni prefazione che si rispetti, è ben presidiata da richiami citazionali autorevoli ed è porosa a enunciazioni ora prodromiche rispetto al restante tessuto verbale, ora responsive ai «colpi di detrattori futuri o già presenti» (ivi, p. xliv).
D. D.
Bibliografia
Burke 1998
P. Burke, Le fortune del ‘Cortegiano’. Baldassarre Castiglione e i percorsi del Rinascimento europeo, trad. di A. Merlino, Roma, Donzelli, 1998.
de Fontenelle 1978
B. de Fontenelle, Colloqui sulla pluralità dei mondi, trad. di M. Monaldi, Lecce, Adriatica Editrice Salentina, 1978.
Marini 2011
P. Marini, Introduzione, in G. Ruscelli, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di A. Iacono e P. Marini, Roma-Manziana, Vecchiarelli, 2011.
Noce 1963
H.S. Noce, Note sul testo, in P.J. Martello, Scritti critici e satirici, a cura di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963.
Terzoli 2003
M.A. Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des lumières et invention romantique. Actes du colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, a cura di G. Bardazzi e A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003.