L'undecimo libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1603)
a cura di Anna Laura Puliafito
L'Undecimo libro di lettere dedicatorie di diversi raccoglie in 27 carte 16 dediche. Come di consueto vi compaiono, su carte non numerate che precedono la serie dei testi, anche l'indice degli Autori delle Dedicationi e quello dei Personaggi, a' quali sono dedicate le Lettere.
Nella sua globalità il volume è dedicato a Giovanni Franchetti, combattivo rappresentante di una ricca famiglia bergamasca. Comino stesso afferma che nell'alternativa tra Apollo, dio della «Lingua», protettore delle anime, e Marte, dio del Lauro e protettore dei corpi, per questo libro, segnato dal primo dei numeri «misti» − secondo la vocazione pitagorizzante dello stampatore − la scelta è caduta piuttosto su un signore della guerra. I «librari», afferma Comino, «udendo e leggendo più spesso degli altri la garra, e concorrenza dell'arme, e delle lettere, per lo più nuovi, e rari soggetti delle stampe» eleggono «saggi, e prodi o Letterati o Armigeri». Nel continuare dunque la sua «inventione di raccoglier in certi Volumi le Pistole dedicatorie di questa lingua: & havendone già tessuti dieci volumetti» ciascuno dedicato ad un personaggio di rilievo, Comino giudica questa volta «ispediente all'officio, e costume dei miei pari volgermi dallo stile de' dotti, allo stocco de forti» e scegliere dunque chi è dotato dei beni di fortuna, di corpo ed animo, ma è ancor più illustre per il «maneggio dell'arme». Le doti del Franchetti si erano mostrate agli occhi di tutti in particolare durante le giostre e i tornei organizzati nel 1602 per celebrare le nozze di Caterina Martinengo ed Ezio Bentivoglio al castello di Cavernago, antico possesso di Bartolomeo Colleoni, passato per asse ereditario alla famiglia Martinengo. Le celebrazioni avevano avuto una risonanza enorme, tanto da essere descritte nel Dialogo di Matteo Bordonia (Dialogo de' giuochi fatti da cavaglieri bergamaschi, in honore dell'eccellentiss. sig. conte Francesco Martinengo generale della caualleria venetiana, nelle nozze della sig. Catherina sua figluola, col signor Entio Bentiuoglio. Di Matteo Bordonia dottor di leggi, In Bergamo, per Comin Ventura, [1602], cfr. «Margini», 7, 2013) che Comino cita nel testo.
Se la gloria del Franchetti condottiero veniva in qualche modo deviata dal campo di battaglia verso gli intrattenimenti ludici di una corte lombarda, alcuni dei testi scelti per il volume si caratterizzano per l'argomento storico e militare. Apre la serie la dedica di Girolamo Ruscelli al banchiere fiorentino Pandolfo Atavanti (cc. 1r-4v) di alcuni volgarizzamenti di Appiano (Appiano Alessandrino, Delle guerre de' Romani, così esterne, come ciuili. Tradotte da m. Alessandro Braccio secretario fiorentino. Nuouamente ristampato, & tutto ricorretto, & di copiose tauole migliorato. Con l'istoria della guerra Illirica, & di quella contra Annibale, del medesimo autore, nuouamente ritrouata in lingua greca, & tradotta in italiano dal s. Girolamo Ruscelli, In Venetia, appresso Domenico, & Gio. Battista Guerra, fratelli, 15631, voll. 3; In Vinegia, appresso Giacomo Bendolo, 15844).
Un secondo importante volgarizzamento è quello dei Commentarii di Cesare (cc. 14r-v), offerti da Agostino Ortica ad Ottaviano Fregoso, condottiero e poi duca e governatore di Genova (Commentarii di C. Iul. Cesare tradotti in volgare per Agostino Ortica della Porta genovese, Stampato in Venetia, per Iacopo Penzio da Lecho, 1517 adi iiii de Fevraro). Si tratta del primo volgarizzamento dei Commentarii, che verrà ristampato già nell'ottobre e nel novembre dello stesso anno 1517, e conoscerà diverse edizioni nel corso del Cinquecento, soprattutto presso stampatori veneziani. Lo Haym segnala (p. 29) un'edizione precedente, Venezia, Vitali, 1512. Di seguito compare nella raccolta la Vita di Carlo V che Alfonso Ulloa (cfr. «Margini», 6, 2012, «Margini», 7, 2013) offriva a Filippo II re di Spagna. Si tratta della terza edizione dell'opera (Vita dell'invittissimo, e sacratissimo imperator Carlo V. Descritta dal S. Alfonso Vlloa, & da lui medesimo in questa terza impressione revista, & in piu luoghi corretta & illustrata. Con la giunta di molte cose utili all'historia, che nelle altre impressioni mancarono. Nella quale vengono comprese le cose piu notabili occorse al suo tempo; cominciando dall'anno 1500 insino al 1560. Con una copiosissima tavola delle cose principali, che nella opera si contengono. In Venetia, appresso Vincenzo Valgrisio, 1566 e sgg.), come viene ribadito dall'autore nel corso dell'epistola (datata «In Venetia il primo di Giugno 1565») anche per giustificare il cambio di dedicatario. La prima edizione infatti era stata stampata sempre dal Valgrisi nel 1560 ed era stata indirizzata al cardinale di Trento Cristoforo Mandruccio, «uno dei più antichi, et fedeli servitori» di Filippo e di tutta la casa d'Austria, come sottolinea l'autore. Si era trattato di una sorta di 'prova editoriale': solo dopo che può dirsi «certificato, et molto chiaro del buon giudicio, che il mondo ha di essa [i.e. opera] fatto, [...] et che è riuscita secondo il desiderio mio», Ulloa si dice pronto a dedicarla, dopo la revisione, alla Maestà del «Catolico e Potentissimo» re di Spagna perché «la vegga, et l'habbia fra le più pretiose Gemme del suo Thesoro» (cc. 15v-16r).
Agli ideali della vita activa sono ancora ispirate opere come gli Avvedimenti civili, di m. Giovanfrancesco Lottini da Volterra (In Firenze, nella stamperia di Bartolomeo Sermartelli, 1574), che il fratello Girolamo Lottini, curatore dell'opera come si apprende dalla prefazione, dedica postuma a Francesco de' Medici Granduca di Toscana (cc. 10r-v). Così anche per il trattato Dell'Agricoltura che Giovanni Tatti, alias Francesco Sansovino − già più volte incontrato nella raccolta («Margini», 3, 2009; «Margini», 4, 2010) − dedica a Niccolò Tinto, medico e scrittore veneziano, iscritto tra i membri dell'Accademia Veneziana della Fama (Della agricoltura di M. Giovanni Tatti Lucchese. Libri cinque. Ne quali si contengono tutte le cose vtile, & appartenenti al bisogno della villa, tratte da gli antichi & da moderni scrittori. Con le figure delle biave, delle piante, de gli animali & delle herbe cosi medicinali, come comuni & da mangiare, In Venetia, appresso F. Sansouino, et compagni, 1560).
Dall'«acerbissima nemistà con il vitio» nasce invece l'impeto che spinge Nicolò Franco a dedicare i suoi Dialoghi sulla bellezza umana e divina (cc. 21v-23v) a Maria d'Avalos, marchesa del Vasto, chiamata ad «illustrare» con il suo nome di donna «bella» e «pudica» «le più sconce macchie, che si riportano dalle più sovrane bellezze». La lode di Maria si intreccia all'elogio nei confronti del consorte Alfonso, i cui meriti sono tali che «a quello è venuto il grido commune, che il sol valor d'Alfonso, e la sola beltà di Maria, sono le voci, dalle quali per valorosa, e per bella si divolga Italia» (c. 23r). Ma è ancora una volta la superiorità di Maria sugli altri esempi di donne presentate dal Franco che ne esalta la bellezza fisica e interiore: «Et avenga che il nero (come sapete) si dia per ornamento de l'oro, l'oscuro di quelle [i.e. donne] non si poteva illustrar senza il chiaro di Voi. Egli non è dubbio che per nessuna della bellezze che io vi riconto, s'abbelliranno le charte mie: percioche il vostro nome sarà quanto elleno mostreranno di bello» (c. 23v). La lettera è datata «di Casale in Monferrato. Del 1542», anno cui risalgono le due stampe del testo, l'una presso Guidone, in 4° (Dialogo di M. Nicolo Franco. Dove si ragiona delle Bellezze. Alla eccellentissima Marchesana del Vasto, In Casale di Monferrato, ne le stampe di Gioannantonio Guidone, Del mese di aprile. Nel 1542), l'altra veneziana, presso Gardane, in 8° (Venetiis, apud Antonium Gardane, 1542). Entrambe le stampe contengono anche stanze dedicate alla Marchesa e alcune lettere del Franco. In entrambi i casi premessa alla dedica è una lettera al Franco di Alberto del Carretto, che insieme a Sigismondo Franzino, governatore di Casale, lo aveva sostenuto e protetto nella sua fuga da Venezia dopo la rottura con Pietro Aretino, di cui era stato segretario e collaboratore.
Al 1542 risale anche l'edizione de I dialogi di Messer Speron Speroni (Venezia, Figliuoli di Aldo Manuzio, 1542) che il curatore, Daniele Barbaro, offre a Fernando Sanseverino, Principe di Salerno (cc. 18r-19v). La dedica è citata anche dal Mazzucchelli, e spiega perché «senza il consentimento dello Speroni», Barbaro abbia intrapreso la stampa dei Dialogi: «e fu per restituirli al suo Autore, a cui alcuni li avevano tolti, pubblicandoli per propri». Si era trattato di un vero e proprio plagio, ad opera di Alessandro Piccolomini, che avendo tra le mani alcuni dialoghi manoscritti ne aveva fatto confluire parte nel suo De la Istitutione di tutta la vita del homo (Venezia, Scotto, 1542). La ricostruzione verrà avallata dallo stesso Speroni, che ne farà cenno nell'Apologia, ricordando la natura originariamente privata dei dialoghi. Ma la citazione del Mazzucchelli è rilevante perché chiama esplicitamente in causa la raccolta del Comino: «Sì bella è stata considerata la detta dedicatoria che si è veduta di nuovo pubblicata nel Libro V delle Dedicatorie di diversi, a c. 7». Effettivamente la dedica era stata inserita una prima volta nel libro v, cc. 7r-8r (cfr. «Margini», 5, 2011), se non per la sua bellezza, certo per la statura dei personaggi coinvolti.
Dedicato «a molti, ma però congiunti in uno» è il volume delle Orationi, che Luigi Groto, il Cieco d'Adria, offre all'Accademia Olimpica con «dedicatura», di Vicenza il 20 dicembre 1585 (cc. 24r-26r). Come recita il titolo stesso, si tratta di discorsi tenuti in diverse occasioni e stampati singolarmente nel corso degli anni Settanta, che vengono ora raccolti per la prima volta in un volume unico «parte a prieghi di amici, e parte per debito mio mosso a giusta compassione per le mie fatture, che non vadano più disperse, e solinghe, sien da' loro domandatori cercate indarno; ma che si giungano insieme in una famiglia commune» (c. 24v). Si tratta de Le orationi volgari di Luigi Groto cieco di Hadria da lui medesimo recitate in diversi tempi in diversi luoghi, e in diverse occasioni, parte stampate, e ristampate altre volte ad una ad una, e parte non mai piu venute in luce. Et hora dall'Autore istesso ricorrette, agevolate con gl'argomenti, distinte con le annotationi nel margine, e tutte insieme con l'ordine de' tempi raccolte in un sol volume. In Venetia, appresso Fabio, & Agostino Zoppini fratelli, 1586. Nella dedica si annuncia la pubblicazione delle Lettere famigliari, uscite effettivamente a Venezia, presso Brugnolo, nel 1601.
Due i volumi ad opera di Giulio Camillo Delminio che compaiono in questo undicesimo libro. Ludovico Domenichi offre infatti a don Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore spagnolo «appresso il Sommo Pontefice, e del Consiglio di Sua Maestà Cesarea», L'idea del theatro (Firenze, Torrentino, 1550). La dedica è datata «a dì primo d'Aprile 1500. Di Fiorenza» (così andrà corretta l'errata indicazione «1600» che compare alla c. 6r) e illustra il contenuto dell'opera che, scritta «in spatio di pochi giorni», voleva fornire il «modello» di quel teatro, appunto, in cui Camillo intendeva ordinare, secondo le tecniche dell'arte della memoria, l'intero sapere umano, secondo una struttura capace di rispecchiare quella dell'universo. Morto Camillo, e morto anche Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto e governatore di Milano, che aveva sostenuto il progetto, era stato Antonio Cheluzzi da Colle ad «accomodare amorevolmente a gli stampatori» l'operetta che ora Domenichi presentava, «affin che non potendosi ancora scoprire la macchina intera di si superbo edificio [...], da questo picciolo esempio di lei si cononosca, come l'autor suo promise cose simili al vero, e se ben difficili a mediocri intelletti, non però impossibili, ma agevoli al suo grandissimo ingegno: il quale con l'altezza de suoi pensieri arrivava dove huom per se non sale» (cc. 4v-6r). L'intero Discorso in materia del suo theatro verrà invece pubblicato nella raccolta di Tutte le opere del Camillo (Di m. Giulio Camillo Tutte le opere, cioè Discorso in materia del suo theatro. Lettera del riuolgimento dell'huomo a Dio. La idea. Due trattati: l'uno delle materie, l'altro della imitatione. Due orationi. Rime del detto. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, 1552) dedicata «di Venetia il primo di Aprile 1552» dal curatore, Ludovico Dolce, a Jacopo Valvassone, gentiluomo e storico del Friuli. La raccolta conoscerà diverse ristampe nella seconda metà del Cinquecento, e verrà almeno in parte integrata da un secondo volume a partire dall'edizione giolitiana del 1560, che vedrà anche il coinvolgimento di Francesco Patrizi, estensore della dedica del secondo volume al conte Sertorio di Collalto. Nel 1566-67, Giolito ripubblicherà il testo, corretto a cura di Tommaso Porcacchi che si sostituirà al Dolce anche come dedicatante dell'opera, offerta questa volta ad Erasmo da Valvasone, uno dei più noti letterati friulani dell'epoca.
Di nuovo al Dolce, e in parte al Camillo, è da ricondurre il volume delle opere del Petrarca, dedicate da Ludovico Dolce al cavalier Marco Antonio Zantani, «in Venetia a li 4. di luglio 1556» (cc. 6v-7v). È questo uno dei volumi più rilevanti della sezione di opere di poesia riunite dal Comino in questo xi volume (Il Petrarca, nuouamente reuisto, ricorretto da M. Ludouico Dolce; con alcuni dottissimi auertimenti di M. Giulio Camillo; et indici del Dolce utilissimi di tutti i concetti, e delle parole, che nel poeta si trouano e di piu con una breue, e particolare spositione di tutte le rime di esso poeta, In Venetia, appresso Gabriel Giolito De' Ferrari, 1557). Petrarca vi è presentato come poeta che può gareggiare non solo con i toscani, ma anche «contender con i più Eccellenti Latini e Greci».
Quasi a permettere un confronto immediato, Comino sceglie di presentare anche la dedica che lui stesso ha composto e indirizzato a Giovan Paolo Nicolini e fratelli de Le Muse Toscane di diversi nobilissimi ingegni Del Sig. Gherardo Borgogni. Di nuouo poste in luce. Al molto mag. & generoso signore, il Sig. Gio. Ambrogio Figino, Bergamo, Comin Ventura, 1594. La lettera del Ventura (cc. 9r-v) evoca la figura dello zio dei dedicatari, quel Giovanni Antonio Nicolini che «così visse, mentre habitò sotto il cielo, che morto tuttavia vive, nel Mondo con gli essempi, del suo molto valore, nella Patria con la gloria, nel Paradiso con l'anima, e nelle Memorie con il nome» (c. 9r). Con enfasi, e forse non senza manipolazione delle intenzioni originarie dell'autore, il volume vuole raccogliere rime scritte in onore del Niccolini, «accompagnate con altre, solo per aggiustar il volume», e Comino non esita ad annunciare nuove raccolte proclamando il suo orgoglio nel fare uscire le Rime dalle sue «Stampe, che erano ambitiose d'honorarsi col pregiatissimo di quella grand'anima» (c. 9v).
Tra le opere letterarie in senso stretto Comino propone ancora la dedica (cc. 8r-v) de La Sofronia del sig. Torquato Tasso. Ridotta in fauola scenica. Da Giouanni Villifranchi volterrano, In Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti sanese, 1603. Qui il Villifranchi, poeta e sacerdote, metaforicamente cerca nella protezione dell'Abate Angiolo Capponi l'«albergo più honorato» alla «Verginella Sofronia», uscita con il «povero vestimento fabricatole dalla mia Musa» per seguire le vicende narrate nel Canto ii della Gerusalemme Liberata (vv. 14-36).
Le ultime tre dediche presentate nel libro xi si riferiscono a testi di elevazione e riflessione morale. Un «parto» definito «frale, & non perdurabile» in quanto prodotto di «basso ingegno», ma «per quello, che dalla materia & da lei depende, solido, & sempiterno» è la Divina Settimana che Ferrante Guisone offre a Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato (cc. 26v-27v). Si tratta della traduzione dal francese de La Sepmaine, ou Creation du monde, de G. de Salluste, seigneur du Bartas (A Paris, chez Michel Gadoulleau, au Clos Bruneau, à la Corne de Cerf, 1578), celebre poema sulla creazione del mondo più volte tradotto e ristampato, e spesso indicato tra le fonti del Mondo Creato del Tasso (Venezia, Ciotti, 1600 et alia). Nel nostro caso si tratta del volgarizzamento in verso sciolto ad opera dell'ambasciatore mantovano Ferrante Guisone. Frammentarie e scarse le notizie su di lui; sappiamo tuttavia seguì l'edizione dell'Aminta del Tasso in Francia, nel 1584. Con modestia topica Guisone si scusa per l'ostinazione che lo ha portato ad un'impresa forse più grande di lui, «la quale in vero meritava il polito stile di qualche raro, & otioso Scrittore, & non la roza maniera, in che io fra gli incomodi della guerrra civile di questo Regno l'ho tradotta, desiando di potere di potere ad imitatione del sontuoso habito Francese, ch'ella porta così industriosamente tessuto, fargliene un'altro alla foggia Italiana, se non tanto compariscente, non dispiacevole almeno agli occhi de' nobili spiriti d'Italian & di vostra Altezza principalmente» (c. 27r). Di fatto il lavoro, portato avanti mentre in Francia si combattono le dure guerre di religione, venne giudicato di buona fattura, tra gli altri, per esempio, dal Croce, in un saggio dedicato al Du Bartas. La traduzione, stampata per la prima volta a Tour nel 1592 (La Divina Settimana. Tradotta di Rima Francese in Verso Sciolto Italiano, In Tours, Appresso Giannetto Metaieri, Regio Stampatore, 1592, Con Privilegio), venne riproposta dal Ciotti nel 1595 (La Divina settimana, cioè i sette giorni della Creatione del Mondo , del signor Guglielmo di Salusto signor di Bartas; tradotta di rima francese in verso sciolto italiano. Dal sig. Ferrante Guisone. Aggiuntovi di nuovo le figure intagliate in rame di Christoforo Paulini, In Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1593) e ancora ristampata nel 1601 (In Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, al segno della Minerva, 1601). Tutte le edizioni recano la dedica del Guisone.
Un «divoto Libretto» è quello che l'autore, il frate minore Bernardino Obicino del Convento di Santa Maria delle Grazie fuori Bergamo, spera sia gradito al suo dedicatario, il bergamasco Aurelio Furietti, barone di Valenzano (cc. 11r-12r). Esso deve poter essere come «l'acqua torbida di quel povero Contadino [...] al sitibondo, & arso Artaserse, che di sapor, e pregio vinse i più saporiti, e pregiati Nettari» (c. 11r). Si tratta della Corona della Beata Vergine, pubblicata probabilmente dal Comino nello stesso 1603, che compare nella data della dedica, «Dal Convento delle Grazie li 6. Di Maggio 1603». Questo «ricamo delle lodi e grandezze di Maria Vergine» si inserisce nella vasta produzione di fra' Bernardino, che raccoglie una numerosa serie di sermoni distribuiti secondo gli insegnamenti fondamentali della liturgia cattolica. Purtroppo, allo stato attuale, non mi è stato possibile rinvenire alcun esemplare del volume. Va notato che al Furietti il Comino aveva dedicato l'edizione del 1588 delle Lettere familiari del Tasso (cfr. «Margini», 1, 2007).
L'ultima dedica da ricordare è quella che Benedetto Varchi indirizza a Cosimo de' Medici, ancora duca di Firenze, nel consacrargli il suo volgarizzamento del De consolatione philosophiae di Severino Boezio (Boezio Severino, Della consolazione della filosofia. Tradotto di lingua latina, in volgare fiorentino, da Benedetto Varchi, In Firenze, [Lorenzo Torrentino], 1551). Si tratta della prima di numerose ristampe della traduzione del Varchi, che segue di alcuni anni quella veneziana di Anselmo Tanzi (in Vinegia, per Giouanantonio & fratelli da Sabio, 1527) e quella, immediatamente precedente del Domenichi (Firenze, Torrentino, 1550) mentre affianca quella del Bartoli (Firenze, Torrentino, 1551). Nella dedica − in realtà già presente, firmata, nel libro iii della raccolta, cc. 44v-45v, cfr. «Margini», 3, 2009 − il Varchi ricorda le circostanze drammatiche in cui venne composta, ai tempi delle invasioni da parte dei Goti, quella che egli considera certo la più «dotta» e la più «santa» opera di Boezio, sopravvissuta alle guerre e alla «trascuraggine de' Principi». Ed è «per comandamento» di Cosimo che egli afferma di averla «dal favellare Romano nel Fiorentino idioma trasportata, traslatando (si come spressamente imposto mi fu) le prose in parlare sciolto, & le varie maniere di versi, in diverse varietà di rime» (c. 17r). Quanto tale impostazione sia risultata «malagevole» viene efficacemente dichiarato dal Varchi, che, incalzato dalla «cortezza del tempo» afferma essere stati molti i giorni «ne' quali, per tacere delle prose, dove ho molto più di fatica, che io non credeva, durato, non una canzone sola, ma due m'è convenuto fornire, senza haver commodità havuta, non dico di rivederle, & ammendarle, ma di rileggere» (c. 17v). Di fronte a queste difficoltà Varchi si compiace, retoricamente, di tutti gli altri «de' quali alcuno per commissione vostra [i. e. di Cosimo], & molti di loro spontanea volontà si sono a volgarizzare la medesima opera messi». A costoro «con lieto animo, certo senza invidia nessuna» egli lascia «la lode [...], & e il vanto di tale impresa, pregando solo, che gl'errori da me per qualunque ragione commessi, mi siano prima dal benigno giuditio vostro, & poi da tutti gli altri (se alcuno però queste mie fatiche leggerà mai) se non iscusati, almeno perdonati» (ibid.).
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