Il nono libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1603)
a cura di Monica Bianco
Il nono libro di lettere dedicatorie di diversi fu pubblicato a Bergamo da Comino Ventura nel 1603. Composto, come il precedente volume della raccolta, da 32 carte (4 non num., seguite da 28 num. 1-26), contiene diciassette dediche, due in più rispetto al Libro ottavo.
La silloge è dedicata da Comino Ventura a Cherubino Ferrari († 1625) «Di S. Theologia Dottore», con lettera datata Bergamo, 10 maggio 1603 (cc. A 2r-4r). Milanese di nascita, il Ferrari era frate carmelitano della Congregazione di Mantova - come Zaccaria Bergomelli, dedicatario del Libro ottavo - e aveva l'incarico di teologo del duca Vincenzo Gonzaga. Esperto di lettere greche e latine, egli affiancava all'amore per la poesia quello per la musica, come dimostrano le sue stampe musicali e l'amicizia, tra gli altri, di Claudio Monteverdi. Nella dedica il Ventura, lodata la «divina Sapienza» (c. A 2r) che gli ha suggerito i nomi di coloro che ha «fin qui eletto protettori di questa mia trovata di formar compiti misti di varij semplici affetti dedicanti hor a questo hor a quel Personaggio le vigilie, i sudori, le viscere de gl'intelletti suoi» (c. A 2v), riconosce che «niuno con altezza di nome uguale» a quella del Ferrari lo ha «sollevato a sperar meglio di questi composti di saggi intelletti» (c. A 2v). Questo perché «essendo il nome Cherubino tratto dalla sapienza, dono eminente dell'ottavo ordine de' Beati spiriti» gli «predice il glorioso incontro che haverà ne gli occhi del mondo questo ben aventurato volume, mentre andarà divolgandosi sotto l'ale d'un Cherubino, che, molto più ch'Alloro od Aquila, lo ripararà da quei fulmini che sovente ne l'ardor della malignità strepitosamente per le labra si spiccano dai cuori, tanto al ben altrui opposti quanto al proprio tutti intenti» (cc. A 2v-3r).
Cherubino Ferrari ha un ruolo di spicco nel volume anche per il numero di lettere dedicatorie in cui è a vario titolo coinvolto. Alle cc. 10r-v si legge la sua dedica a Carlo Emanuele I di Savoia (1562-1630), datata Milano, 6 dicembre 1598, del Pianto della morte della Maestà Catholica, Filippo II di Spagna, deceduto il 13 settembre di quell'anno. Nella lettera, tutta giocata sulla metafora del mare di lacrime, Ferrari prega il dedicatario di «accettar con lieta fronte queste mie ancorché poche e non ben chiare» acque, che «così facendo di torbide diverran limpide come l'acque de' fiumi entrate nel mare d'insipide divengon salse" (c. 10v). Opera del Ferrari è molto probabilmente anche la lettera dedicatoria, datata Milano, 23 dicembre 1600 e firmata da Giovanni Andrea Lupati (cc. 19v-20v), con cui si offriva ad Alessandra Francesca Sforza, monaca nel Monastero Maggiore di Milano, Il gaudio di Maria Vergine nella natività di Cristo e il Pianto della sua morte. Il Lupati, nipote del carmelitano, aveva allora appena otto anni. Nel 1604 in una lettera al duca di Mantova, il Ferrari, che aveva cura dell'educazione del giovinetto, lo avrebbe presentato come virtuoso di liuto e cantore del Duomo di Milano (8.IX.1604; Mantova, Archivio di Stato-Archivio Gonzaga, b. 1728). Con la dedica il Lupati offriva alla Sforza - che aveva avuto modo di conoscere in occasione di una visita al Monastero Maggiore, rimanendo «a tanta luce abbagliato e pieno d'alto stupore» (c. 20r) - i componimenti chiesti appositamente allo zio, «supplicandola annoverarmi fra suoi servitori, ché tanto maggiore apparirà la grandezza sua, quanto più col favorirmi s'avicinerà alla bassezza mia, sendo io fanciullo» (c. 20v). Alessandra Francesca Sforza era figlia del marchese Francesco, del ramo di Caravaggio, e di Costanza Colonna, e quindi sorella di Muzio II, fondatore nel 1594 dell'Accademia milanese degli Inquieti, che ospitava nel proprio palazzo e della quale fu il primo principe. Il Ferrari ritorna in veste di dedicatario alle cc. 11r-v e, cosa abbastanza rara, di proprie composizioni. Il dedicante, lo stampatore Agostino Tradate († 1608), gli offre infatti, il 30 ottobre 1598, l'edizione di una sua Scelta di canzonette, ricordandone la genesi. Andato a far visita al Ferrari, egli era giunto mentre nella cella del frate si eseguivano alcune «leggiadrissime Canzonette, la cui dolcissima harmonia fu tale, che con la dolcezza sua mi tirò poco meno che in estasi» (cc. 11r-v). Poiché le musiche erano «fattura de' più Eccellenti Musici» di Milano e il testo poetico «parto del felicissimo ingegno» del Ferrari, Tradate lo aveva pregato di dargliene copia. Avendo deciso poi di pubblicarle, lo stampatore aveva pensato di dedicarle allo stesso Ferrari «poiché essendo [...] di loro degnissimo Padre, era anco ragionevol cosa che a lei s'appoggiassero e vivessero come carissime figliuole sotto l'ombra e sicura protettione di chi già ne fu felicissimo genitore» (c. 11v). Le pur minuziose ricerche non mi hanno permesso di identificare alcuna delle tre edizioni appena menzionate, non ricordate, escluso Il gaudio di Maria Vergine (ma solo nell'edizione milanese del 1618), neppure dagli antichi eruditi.
Milanese era anche Francesco Ferrari († 1617), della Congregazione degli Oblati di s. Carlo, canonico e teologo presso la cattedrale di Cremona. Il Nono libro accoglie la sua dedica, datata 18 dicembre 1593, al vescovo di Cremona Cesare Speciani (1539-1607), del Libro de' secreti et misterii ascosti nelle consacrationi delle chiese, altari et cimiteri, edito a Cremona da Barucino Zanni nel 1594 (cc. 6r-7v). L'opera, composta su invito del dedicatario («Caro in vero mi fu il comandamento di V.S. Illustrissima, quando mi accennò che le sarebbe piacciuta un'operetta, la quale trattasse de' secreti ascosti nelle Consecrationi delle Chiese, Altari et Cemeterij, secondo che ne discorrono e' Santi Padri Greci e Latini», c. 6r), non può che essere a lui offerta. Il dedicante ammette del resto che allo Speciani «fin dalla morte del Signor Cardinal Borromeo mio padrone feci dono e di me e delle cose mie» (c. 7r).
Una parte rilevante nel volume, seconda solo a quella di Cherubino Ferrari, ha Aurelio Corbellini (1562-1648), già dedicatario del Libro settimo. Frate agostiniano della Congregazione di Lombardia, fu consultore del Santo Uffizio e commissario generale. Carlo Emanuele I di Savoia lo nominò teologo di corte. Oratore, storico, poeta, fu ascritto all'Accademia milanese degli Inquieti e a quella pavese degli Intenti. Alle cc. 8r-v si legge la sua dedica, senza luogo e data, a Juan Fernández de Velasco y Tovar (1550 c.-1613), della Corona di dodeci sonetti in lode della sacra, e catholica reina di Spagna. Dell'Accademico Ammirante Intento. Con una canzone bellissima in ultimo del signor Ghirardo Borgogni detto l'Errante Academico Inquieto, edita a Milano, presso Pandolfo Malatesta, nel 1598. Margherita d'Asburgo, figlia dell'arciduca Carlo e sposa di Filippo III nell'aprile del 1599, nel corso del viaggio che la conduceva in Spagna, era passata per l'Italia, trattenendosi a Milano dal 30 novembre 1598 al 3 febbraio 1599. Il soggiorno aveva ispirato molti poeti tra i quali Corbellini e Borgogni, che avrebbe poi inserito la canzone anche nel suo dialogo La fonte del diporto. Il dedicatario - al cui «glorioso et Illustrissimo nome» la corona decide di appoggiarsi «sgomentata dalla rozzezza del suo basso stile» (c. 8v) - era allora governatore di Milano. Amante delle lettere e scrittore lui stesso, Fernández de Velasco y Tovar aveva partecipato ad alcune sedute dell'Accademia degli Inquieti, come ricordato dal Borgogni nel succitato dialogo. Sempre in veste di dedicante il Corbellini torna alle cc. 13r-v e 25r-26v. Con la prima lettera dedicatoria offre, il 6 gennaio 1600, le sue Rime (Torino, Giovanni Domenico Tarino, 1603) a Michele Antonio Saluzzo, ricordandone la brillante carriera. Al servizio della Francia, il dedicatario era stato governatore della cittadella di Lione e luogotenente del marchesato di Saluzzo per conto di Enrico III. Quando, con il trattato di Lione del 1601, Enrico IV di Francia aveva ceduto il marchesato a Carlo Emanuele I di Savoia, questi ne aveva creato governatore e luogotenente generale il Saluzzo, nominandolo poi nel 1602 Cavaliere dell'Annunziata. Già nel 1598 Carlo Emanuele aveva investito il Saluzzo del feudo di Chissone. Per questo il Corbellini afferma che «nella stampa di queste mie Rime niuna gloria confesso d'havere, se non che mi convenga pubblicarle al tempo di V.S. Illustriss. poiché col nome di lei in fronte acquisteranno elleno assai maggior credito appresso gli studiosi et io, se non glorioso, almeno di qualche stima sarò tenuto da tutti, havendo eletto per Protettore dell'opere mie uno de' più nobili Signori et uno de' più famosi Cavalieri dell'età nostra» (cc. 13r-v). Con la seconda lettera Corbellini dona, in data 8 marzo 1600, al duca Vincenzo Gonzaga (1562-1612) Le fiamme amorose, egloghe pastorali boscarecce, edite a Venezia da Francesco Bariletti nel 1600. Nella dedica l'autore spera che le sue egloghe pastorali «composte per virtuoso trattenimento fra gli studi [...] più gravi» (c. 25r) «apporteranno utile [agli animi di chi le leggerà], perché, havendo nel principio il nome di Vincenzo, vinceranno ogni opinione di chi le tiene di così poco importante genere, e faranno conoscere in loro stesse cose di tanta moralità che, non uguali, almeno poco inferiori si dimostreranno alle Comiche Poesie, per non dire alle Heroiche» (cc. 25v-26r). Le egloghe pastorali del Corbellini ebbero una seconda edizione nel 1601 a opera di Comino Ventura, che le dedicò, in data 17 agosto, a Faustino Leali (cfr. Libro Primo, cc. 49v-50r, in «Margini», 1, 2007).
Accademico Intento, come il Corbellini, era Bartolomeo Olevano, che il 6 gennaio 1600 offriva a Giacomo Menochio i Componimenti di diversi Academici Intenti, nella morte dell'ill.re sig.ra Caterina Bianca Bottigella Candiana, editi a Pavia, presso gli Eredi di Girolamo Bartoli, nel 1600 (cc. 12r-v). Le rime nelle quali «non tanto si piagne la dura morte, quanto si maraviglia il felice passaggio al Cielo» (c. 12r) della defunta, sono donate dall'Olevano al Menochio perché «mi rendo sicuro di porgerle anzi soggetto di gioia che materia di sconforto e conseguentemente di darle opportuno testimonio della molta osservanza che, come figlio di tanto suo servidore, debitamente le porto» (c. 12v). Giacomo Menochio (1532-1607), sposo dal 1557 di Margherita Candiani, figlia del mercante Giovanni Antonio e sorella di Caterina Bianca, oltre che accademico Intento era un personaggio di spicco della vita politica milanese. Docente di diritto canonico nello Studium di Mondovì dal 1561 al 1566 e poi di diritto civile in quello di Padova dal 1566 al 1588, egli era entrato a far parte del Senato milanese nel 1592 e l'anno seguente era stato eletto presidente del Magistrato dei redditi straordinari.
Nate in seno alla medesima Accademia sono le Rime d'alcuni Academici Intenti, per l'ingresso dell'ill. et ecc. sig. D. Federico Pico, principe della Mirandola marchese della Concordia, etc. et dell'eccellentiss. sig. D. Alessandro suo fratello, nell'Accademia Intenta (Pavia, Eredi di Girolamo Bartoli, 1600), offerte da Ercole Cimilotti, in datata 5 maggio 1600, al conte Pirro Visconti Borromeo (cc. 17r-v). Pavese, medico e letterato, il Cimilotti era ascritto dal 1594 anche all'Accademia degli Inquieti, dove ebbe modo di conoscere Gherardo Borgogni, che accolse un suo carme ne La fonte del diporto, dialogo ambientato, molto probabilmente, proprio nel ninfeo della splendida villa di Lainate di proprietà del colto e raffinato collezionista d'arte Pirro Visconti (1560-1604). Accresciute le sue sostanze grazie alle cospicue doti delle due mogli (Ippolita Porro, morta nel 1584, e Camilla Marino, che gli sopravvisse), il Visconti fu uno dei più ricchi mecenati della Milano di fine Cinquecento. A lui Comino Ventura aveva offerto la prima edizione del dialogo del Borgogni (Bergamo, 1598: cfr. Libro Secondo, cc. 8r-v, in «Margini», 2, 2008).
La dedica del Cimilotti è preceduta da quella di Vincenzo Raineri a Ottavia Balbi Serbelloni (10 settembre 1590: cc. 14v-16v) di un'altra silloge poetica: i Componimenti diversi nel dottorato di leggi dell'abbate Giovanni Francesco Serbellono, pubblicati a Pavia, presso gli Eredi di Girolamo Bartoli, nel 1599. Giovanni Francesco (1575-1610) era il quarto dei tredici figli della dedicataria e di Giovanni Battista Serbelloni, conte di Castiglione nel Lodigiano dal 1581 e signore di Romagnano dal 1588. Intrapresa nei primi anni la carriera ecclesiastica, egli aveva ottenuto, tra i vari benefici, l'abazia di S. Bartolomeo in Strada di Pavia nel 1591. Dopo essersi addottorato in utroque a Pavia nel 1599, divenne nel 1606 governatore di Ascoli e dal 1609 al 1610 di Camerino, dove morì appena trentacinquenne. Le rime, opera di «spiriti elevati e peregrini ingegni di diverse Città» che «non hanno potuto contenersi che con sue dotte carte di cotanto valore [dimostrato dal Serbelloni in occasione della discussione del dottorato] non facessero pubblica fede a tutto il mondo» (c. 16r), sono donate alla Balbi, «madre amorevolissima», nella speranza che «saranno di non poco piacere in leggerle tal'hora per diporto» (c. 16r).
Del più volte citato Gherardo Borgogni è la dedica, senza luogo e data, al conte Giovanni Battista Borromeo de Il Tancredi. Tragedia del signor Conte di Camerano. Dal Sig. Gherardo Borgogni di nuovo posta in luce, edita a Bergamo da Comino Ventura nel 1588 (cc. 21r-22v). Nella lettera il dedicante si sofferma a raccontare la genesi dell'edizione. Appassionato lettore di opere teatrali, solo con grande fatica egli era riuscito a procurarsi le due copie presenti a Milano della tragedia, ancora inedita, composta dal compianto conte di Camerano, Federico Asinari (1527-1575). Considerato il valore dell'opera e deciso a pubblicarla, si era scontrato con il fatto che una delle copie era priva della divisione in atti e l'altra era incompleta. Si era quindi messo all'opera e «d'ambedue formai e ridussi alla sua vera lettione la presente, la cui fatica feci con molta mia soddisfattione e d'altri virtuosi e nobilissimi Signori di questa Città» (c. 21v). L'edizione è offerta al Borromeo, dotato «di tutti quegli ornamenti che a vero e nobilissimo Cavagliero si convengono», poiché egli si compiace «talhora per suo diporto di leggere componimenti gravi» (c. 22v). Figlio del conte Camillo I, Giovanni Battista Borromeo aveva intrapreso la carriera militare. Deputato al consorzio della Misericordia di Milano dal 1573 al 1596, ne era stato rettore dal 1575 al 1589. Sposo dal 1564 di Giulia Sanseverino, figlia di Giovanni Francesco, conte di Colorno, l'aveva uccisa nel 1577, ma era riuscito a sfuggire alla condanna a morte e alla confisca dei beni dimostrando di non essere stato in possesso delle sue facoltà mentali quando aveva agito. Nel Libro Primo, alle cc. 74r-75r, il Ventura aveva proposto la dedica di Gherardo Borgogni a Federico Quinzio e Geronimo Callent dell'edizione accresciuta de La fonte del diporto, pubblicata a Venezia da Giovanni Battista Ciotti nel 1602 (cfr. «Margini», 1, 2007).
Legato alla famiglia Borromeo fu lo storico Giovanni Botero (1544-1617), al quale venne affidata, nel 1585, l'educazione del giovane Federico, che accompagnò fino alla porpora e all'arcivescovado di Milano. Passato nel 1599 al servizio di Carlo Emanuele I di Savoia, ottenne l'incarico di seguire l'educazione dei due principi minori, Maurizio e Tommaso. Di lui sono proposte due dediche alle cc. 3v-5v. Con la prima, datata 26 luglio 1601, il Botero offre a Carlo Emanuele I di Savoia La prima parte de' prencipi christiani, edita a Torino, presso Giovanni Domenico Tarino, nel 1601. L'opera, che raccoglie quindici biografie di pii sovrani cattolici, è dedicata al duca perché non ha pari «nel maneggiar Christianamente l'arme» (c. 4r) ed è imparentato con buona parte dei principi di cui si parla. Il Botero fa rientrare l'opera in un suo più ampio disegno. Poiché nulla di più «salutare e più desiderabile» vi è per uno stato che avere un principe «che l'importanza dell'ufficio e del carico suo intenda e all'essecutione di quello con ogni spirito attenda» (c. 3v), considerazione da cui discende che ogni «uomo privato» non può meglio impiegare il suo tempo che nel «servire o di consiglio o di aiuto» al principe, il Botero ha dato alle stampe «le più importanti maniere del buon governo» nella Ragion di stato (c. 4r). Pubblica ora la prima parte de I prencipi cristiani «ove nelle attioni di ottimi e valorosissimi Re la pratica e l'uso di essa Ragione di Stato, quasi pittura al suo lume, si scorge» (c. 4r). A Carlo Emanuele I di Savoia Botero aveva dedicato Le relationi universali (cfr. Libro primo, cc. 92r-v, in «Margini», 1, 2007). Nell'edizione cominiana del 1596 la quarta parte di esse era offerta dall'autore a Juan Fernández de Velasco y Tovar (cfr. Libro primo, cc. 98v-100v, in «Margini», 1, 2007). La seconda dedicatoria è quella, datata 20 ottobre 1600, con cui Botero offre al primogenito del duca, Filippo Emanuele, la biografia di Alessandro Magno contenuta ne I prencipi [...] con le aggionte alla Ragion di stato nuovamente poste in luce, editi a Torino, presso Giovanni Domenico Tarino (per Pantaleone Goffi e Lorenzo Vallino), nel 1600. Nella lettera Botero confessa che da tempo desiderava offrire al giovane principe un'opera che da una parte «fede della molta mia divotione le facesse» e dall'altro avesse «qualche convenanza con la grandezza dell'animo suo» (c. 5r). Gli offre quindi la biografia di Alessandro Magno, al quale pur in tenera età Filippo Emanuele assomiglia «nell'armeggiare, nel cavalcare, nell'intelligenza delle cose nobili et pellegrine e in ogni parte degna di Cavaliere e di Prencipe Eccellente» (c. 5v). Nato nel 1586, Filippo Emanuele era destinato a morire di vaiolo di lì a pochi anni, nel 1605, a Madrid, dove era giunto nel 1603, accompagnato dal Botero, in veste di precettore, e dai fratelli Emanuele Filiberto e Vittorio Amedeo.
Filippo Emanuele di Savoia è il dedicatario anche dell'Amfiteatro del signor Bartolomeo Romani filosofo et medico eccellentissimo di Saluzzo: nel quale si veggono brevemente le eccellenze d'Italia, ma in particolare le felicità della nobilissima sua patria. Con due tavole per ordine d'alfabetto, l'una de' scrittori cittati, l'altra delle cose più notabili e di memoria degne (Torino, Luigi Pizzamiglio, 1603). Nella dedica, senza luogo e data (cc. 9r-v), l'autore si augura che come gli antichi romani furono «favorevoli e liberali» (c. 9r) alle colonie liguri più che a tutte le altre (e così si comportarono con la colonia dei Liguri Vagienni, ora Saluzzo), così il giovane principe, che «in tutte le virtù morali, ragionevoli et heroiche» va «imitando il [...] Padre et avanzando i più famosi Cavaglieri Romani» (c. 9v) nell'«amare la nobilissima» Saluzzo «nel proteggerla, nel favorirla e nel beneficiarla non soffrirà per l'altezza dell'animo proprio d'essere da loro avanzato» (c. 9v). Con questa speranza il Romani gli dona l'opera, augurandogli l'immortalità.
Carlo Emanuele I di Savoia ritorna come dedicatario alle cc. 18r-19r, nelle quali si legge la lettera con la quale Annibale Guasco gli offriva la sua Opera [...] in ottava rima, per la natività del Signore; con altri componimenti spirituali, et alcuni pochi per giunta in diverse materie, con cento madrigali a due sue figliuole, tutti d'un medesimo soggetto, notato in principio di essi, edita ad Alessandria, presso Ercole Quinciano, nel 1599. Dottore in legge, oratore e poeta, il Guasco (1540-1619) ebbe diversi incarichi di rappresentanza dal governo di Alessandria, sua città natale. Appartenne all'Accademia degli Illustrati di Casale Monferrato e successivamente a quelle degli Inquieti di Milano e degli Immobili di Alessandria. Nella dedica, dopo aver ricordato che due sono i principali motivi per cui si offrono gli scritti a grandi personaggi, «l'una per dar all'opera credito et vita con simile favore et sostegno, l'altra in segno di devotione et affetto dall'Auttore alla persona a cui viene dedicata» (cc. 18r-v), l'autore si domanda «Ma dove possono essi [motivi] più efficaci et possenti che nella grandezza di V.A. et nella devota et antica servitù mia et di tutta la mia Casa verso di Lei?» (c. 18v). Offre quindi al Savoia i suoi versi «sperando nel favor suo, che debbano con esso più lungamente vivere, che non farebbono con lo spirito che hanno da me havuto» (c. 18v). Di Annibale Guasco Comino Ventura aveva riportato nel Libro Ottavo, alle cc. 25r-26v, la dedica, datata aprile 1601, del Primo libro di lettere a Juan Fernández de Velasco (cfr. «Margini», 6, 2012).
Il Nono Libro è completato da due dediche. La prima, che apre il volume alle cc. 1r-3r, è di Comino Ventura e offre, in data 15 aprile 1603, a Lodovico Rota (1579-1630) la terza edizione delle Historie del suo tempo dell'Ill. Sig. Lionardo da Maniaco Da Cividale del Friuli: Nella quale si contengono le cose più notabili successe nell'Universo (Bergamo, 1603). Leonardo di Maniaco - canonico a Cividale del Friuli, storico e poeta - aveva pubblicato La prima parte delle historie del suo tempo [...] nella quale, diuisa in undici libri, si contengono le cose più notabili successe nell'universo a Bergamo, presso Comino Ventura, nel 1597, dedicandola, il 3 luglio 1597, a Odoardo e Ranuccio Farnese (cfr. Libro Primo, cc. 57r-v, in «Margini», 1, 2007). Il seguito dell'opera era andato perduto, ad eccezione dei primi due libri, perché, a causa della peste, i superiori del convento in cui viveva lo storico avevano fatto bruciare ogni cosa. Il Ventura aveva ripubblicato nel 1600 la prima parte dell'opera con l'aggiunta dei primi due libri della seconda (La prima parte delle historie del suo tempo dell'ill. sig. Lionardo da Maniaco di Ciuidale del Friuli [...] Aggiunti due libri della seconda parte, hauuti dal proprio autore), dedicandola al Rota (cfr. Libro Primo, cc. 58r-59r, in «Margini», 1, 2007). Giunto alla terza edizione lo stampatore non aveva voluto mutare il dedicatario: l'opera, infatti, ritornata in vita, «ricordandosi delle accoglienze amorevoli et infinite cortesie che, quando si presentò avanti Vostra Signoria, ricevè, m'ha fatto intendere che con altri che con il suo primo Signore non potrebbe mai star né più nobil né più ricca né più felicemente riunita» (c. 1v). La seconda dedica, penultima del volume alle cc. 23r-24v, è di Giovanni Battista Gelli e offre a Cosimo I de' Medici La Circe, edita a Firenze, presso Lorenzo Torrentino, nel 1549. In essa l'autore ammette di aver voluto dimostrare, seguendo le orme di Plutarco e «per giovare il più che io posso a gli altri» (c. 24r), una verità. Poiché solo all'uomo è stato concesso «il potersi eleggere quel modo nel quale più gli piace vivere et, quasi come un nuovo Prometeo, trasformarsi in tutto quello che egli vuole, prendendo a guisa di Camaleonte il color di tutte quelle cose a le quali egli più s'avvicina con l'affetto» (c. 23v), ne risulta che coloro che «vivon tutti intenti et occupati nelle cose del mondo, tenendo sempre fissi gli occhi in questi obietti sensibili senza mai punto levargli al Cielo» hanno in sorte una vita «poco migliore di quella delle fiere, anzi divengono quasi simili a gli altri animali che mancano al tutto della ragione» (c. 23v), mentre coloro che «espeditisi il più che posson da quelle, ritornano a le lor vere et proprie operationi [...], inalzandosi dalle cose basse et terrene alle alte et divine, divengono, condotti alla vera perfettione loro, simili a quei ben avventurati spiriti che, fuor di questo mondo corruttibile, vivon nella contemplation delle cose divine felicissima et beatissima la vita loro» (cc. 23v-24r). Il Gelli, «per natura et per elettione servidor» di Cosimo I, «conoscendo quanto et naturalmente et per i benefici ricevuti» è tenuto a onorarlo sempre e «desiderando, non potendo farlo nel modo» in cui vorrebbe, dimostrargli «almanco la prontezza dell'animo» suo (c. 24r), ha deciso di offrirgli l'opera. Nel Libro Ottavo, alle cc. 17r-18r, era stata proposta la dedica, senza luogo e data, di Girolamo Giovannini da Capugnano a Francesco Ferro dell'edizione espurgata del dialogo, uscita a Venezia, presso Giovanni Angelo Ruffinelli, nel 1588 (cfr. «Margini», 6, 2012).
Anche il Nono libro è corredato da un indice dei «Personaggi, a' quali sono dedicate le Lettere» (c. [27]r) e degli «Autori delle Dedicationi» (c. [27]v).
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M. B.