Maria Antonietta Terzoli
Dediche leopardiane II: lavori eruditi e falsi
dell'adolescenza e della giovinezza (1815-1825)
La prima parte di questa ricerca, introduttiva all'argomento e relativa alle dediche leopardiane dell'infanzia e dell'adolescenza (tra il 1808 e il 1815), è uscita nel primo numero di «Margini».1 Tenendo conto dei risultati lì acquisiti, riprendo ora l'indagine per occuparmi in particolare delle dediche comprese tra il 1815 e il 1825, relative cioè agli anni dell'adolescenza e della giovinezza di Leopardi, concentrando l'attenzione sulle dediche premesse a lavori di tipo erudito o dichiarati tali dall'autore. Come ho anticipato nella prima parte di questo studio, colpisce la differenza tra le dediche dei primi anni e quelle della maturità: non nel senso, ovvio, di una diversa qualità stilistica, ma nel senso di un passaggio da una sperimentazione variegata a una notevole omogeneità di forma. Se per i primi anni si sono indicate molte dediche in versi (per giunta in vari metri) e in diverse lingue (italiano, francese, latino), composte dal giovanissimo Leopardi quasi a tentare molteplici possibilità espressive, a partire dal 1815 si trovano dediche assolutamente omogenee: di tipo epistolare, in prosa e in italiano, con l'unica eccezione della dedica epigrafica e latina a Georg Barthold Niebuhr di incerta datazione.2
Una scelta così selettiva appare tanto più sintomatica in quanto più anomala e anacronistica rispetto alla tendenza generale degli anni successivi al 1815, che vede piuttosto la diffusione di brevi dediche epigrafiche.3 Lo stesso Monti, che nella sua lunga carriera della dedica epistolare aveva fatto un'arte sapientissima, ne stigmatizzava l'impiego in una lettera del 6 marzo 1826, sconsigliandolo come ormai fuori moda:
Il costume di siffatte lettere è meritamente andato in disuso, e con più senno al presente si suole supplire con una semplice iscrizione, anche quando l'opera viene intitolata ai Potenti: e ciò molto più si conviene ad umile persona come la mia. Si appigli dunque al mio suggerimento, e con quattro parole significanti la sua benevolenza renda più pago il mio cuore e il giudizio del pubblico.4
Eppure in Leopardi queste dediche epistolari offrono, come mostrerò, una straordinaria varietà di realizzazione: come se proprio la rigidità della forma stimolasse nello scrittore maturo un esercizio di variatio estremamente complesso, una sperimentazione sofisticata, per minime variazioni, del potenziale semantico e stilistico disponibile entro confini circoscritti e formalizzati. Un po' come accade nel caso di forme metriche cogenti e artificiose come per esempio la sestina lirica. Nell'analisi di alcune di queste dediche vedremo che si tratta in effetti di testi nel senso più complesso del termine: dove le scelte lessicali e stilistiche, la posizione delle parole nella frase e la costruzione dell'intera argomentazione tendono all'estremo le potenzialità espressive consentite da una forma relativamente rigida e da un lessico altamente codificato. È questo un aspetto di cui tutti gli autori di dediche sono in qualche modo consapevoli (almeno nella pratica della loro scrittura), ma che in Leopardi raggiunge un'assoluta eccellenza di risultati. Nella differenza di livello stilistico e di forma tra le prime prove e i testi della maturità, resta tuttavia un tratto comune che vale la pena di segnalare subito: il rapporto che lega l'autore ai destinatari dei suoi testi, quasi sempre di tipo intellettuale o affettivo. Come se una traccia dell'inizio 'familiare' dell'esercizio dedicatorio, di lettera rivolta - pur nell'estrema formalità - al padre o alla madre, sopravvivesse anche nei rapporti con dedicatari successivi e più lontani.
Unica eccezione, che per la sua anomalia vale la pena di considerare subito e probabilmente escludere dal novero delle dediche leopardiane, è una dedicatoria del 28 dicembre 1815 al cardinale Alessandro Mattei.5 Nato a Roma nel 1744 e ivi morto nel 1820, il Mattei era lontano parente della famiglia Leopardi, in quanto zio di Marianna Mattei Antici, a sua volta zia acquisita di Giacomo per matrimonio con Carlo Antici, che era fratello della madre. Dal punto di vista grafico l'attribuzione di questa dedica è messa in forse dal fatto che la grafia del manoscritto non è di Giacomo e sembra invece di Monaldo. Nel testo è usato tra l'altro un tipo di accentazione per la terza persona del passato remoto del verbo "essere" («fù») e per il pronome personale di prima persona, per giunta seguito da «stesso» («mè stesso») che, se ho ben visto, non si riscontra nella scrittura contemporanea di Giacomo.
Un altro elemento che induce a diffidare della paternità leopardiana è la difficile individuazione di un'opera a cui riferirla. L'ipotesi di Giovanni Ferretti, ripresa da Francesco Flora, e poi dai moderni editori dell'Epistolario, è che la dedica possa essere stata scritta per il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, appunto del 1815, perché si legge sul verso di un foglio accluso all'autografo del Saggio stesso.6 Ma quest'opera presenta, come vedremo, un'altra dedicatoria, questa volta autografa di Giacomo, indirizzata ad Andrea Mustoxidi. Si aggiunga che Alessandro Mattei non risulta destinatario di nessuna altra lettera leopardiana. Difficile fare ipotesi in assenza di altri dati, ma forse non è troppo azzardato immaginare che il padre possa aver scritto una dedica che poi il figlio non volle utilizzare: né per il Saggio (a cui peraltro poco si addice, mi pare, la definizione di «componimento» con cui l'opera è presentata in questa dedica), né per altra opera. Sembrerebbe quasi una prima incrinatura nel rapporto di intenso discepolato che − come ben mostrano le dediche analizzate nella prima parte di questo studio − fino a poco prima legava Giacomo a Monaldo. Vale comunque la pena di osservare da vicino questa dedica, per verificare la sua fedeltà alle forme e ai topoi più codificati del genere, con una ripresa inerte e un po' scolastica, lontana da quella tanto più sofisticata della dedica ad Andrea Mustoxidi dello stesso anno e radicalmente diversa da quelle successive ad Angelo Mai, a Vincenzo Monti e a Leonardo Trissino.
Aperta da un appellativo, «Eminentissimo Principe», come accade in poche dediche leopardiane degli anni infantili (in quella alla madre del 26 marzo 1809 e in quella al padre del 24 dicembre 1811,7 presentate nella prima parte di questo saggio) e come non accade più in nessun'altra già a questa altezza cronologica, la lettera comincia con una dichiarazione sulla pratica dedicatoria. La cosa non è infrequente in questi testi liminari, che per loro natura comportano spesso una riflessione autoreferenziale. Ricordo qui per esempio la dedica «Alla Libertà» del trattato alfieriano Della Tirannide, uscito nel 1790 (con falsa data 1809), che fin dalla redazione manoscritta del 1777, si apriva con una riflessione su questa pratica, che inficia anche le opere più degne:
Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o Divina Libertà, spente affatto in tutti i moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne' loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di cui autori altro non manca che il pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico.8
Questa dichiarazione serviva all'Alfieri per prendere le distanze da quella consuetudine e proporre un cambiamento di regole. Nel caso della dedica al Mattei la riflessione iniziale suona piuttosto come un'esortazione a carattere operativo-precettistico, che sembra rivolta in prima istanza proprio al giovane, e forse renitente, autore: «Il fregiare le opere proprie col nome di personaggio illustre fù spesso orgoglio, interesse, costume. L'umiliare all'Emza v˜ra R˜ma [Eminenza Vostra Reverendissima] questo mio componimento è rispetto amore riconoscenza».9 Nel rispetto di una pratica costante nei testi di dedica, che tendono a presentare come unico e diverso un omaggio estremamente codificato, il secondo ternario vorrebbe configurarsi come una presa di distanza, in direzione di un'autenticità di sentimenti («rispetto amore riconoscenza»), dalla pratica consueta («orgoglio, interesse, costume»). Segue, con una progressione un po' meccanica nel suo rigido parallelismo, l'esplicitazione di questo ternario: "Rispetto l'augusto e sacro carattere che la veste, amo le virtù somme che ne la rendono degna, e professo devota gratitudine alla parzialità con cui le è sempre piaciuto riguardare mè stesso, e la mia Famiglia".
Lessico e figure retoriche sono quelli più topici delle dediche di Antico Regime: «augusto e sacro carattere», «virtù somme», «abituale bontà» per il dedicatario; «devota gratitudine», «piccola opera», «coraggio di dedicargliela», «profonda venerazione» per il dedicante. Il verbo «umiliare» per "offrire" («L'umiliare all'Em˜za v˜ra R˜ma questo mio componimento») è quasi un tecnicismo dei testi di dedica: «gran motivo ho avuto io per umiliarle e dedicarle questa mia Operetta, e in essa il divoto e profondo ossequio mio» scriveva per esempio Ludovico Antonio Muratori, offrendo nel 1749 il trattato Della pubblica felicità all'arcivescovo e principe di Salisburgo, Andrea Jacopo di Dietrichstein.10 Nella dedica al Mattei colpisce però la sua iterazione nel giro di poche righe, con riferimento non più solo all'opera offerta ma anche a chi scrive: «l'opportunità di umiliarmi al bacio della Sacra Porpora».11 Anche colpisce, da parte di un Leopardi sì giovanissimo, ma all'altezza del 1815 già consapevole del livello stilistico raggiunto, l'insistente riferimento alla giovane età («A compatire la mia piccola opera la ecciterà il riflesso alla mia età poco più che trilustre»), che sembra riprendere una frase, allora naturalmente più motivata, di una dedica latina al padre del 1810, firmata da Giacomo e dal fratello Carlo (analizzata nella prima parte di questo studio), dove il consueto topos di modestia, con la richiesta di benevolenza per la debolezza dei dedicanti, era declinato in termini inconsueti proprio con riferimento alla giovanissima età: «Si in illis nostram debilitatem respexeris, duplicis lustri aetatis esse opus memento».12 L'indicazione dell'opera offerta come primizia («Io chiamerò compensate le primizie dei miei travagli, e fausti gli esordii della mia letteraria carriera»), suona del resto quanto meno impropria se riferita a chi aveva ormai alle spalle decine e decine di scritti.
Per cogliere quanto lontane siano queste dichiarazioni dalla coscienza che il giovanissimo Leopardi aveva del proprio lavoro basta scorrere la lettera con cui, poche settimane dopo, all'inizio del 1816, egli presenta all'editore Stella proprio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.13 Soprattutto è istruttivo l'accostamento della dedica apografa al Mattei a quella, sicura e autografa, ad Andrea Mustoxidi, dove l'identità di genere consente di verificare immediatamente la radicale differenza di livello e di tono. Come è noto, il Saggio non fu accettato dallo Stella e più tardi Leopardi rifiutò di stampare un «lavoro troppo giovanile», che sentiva ormai non più adeguato al livello filologico e storico raggiunto.14 Rimasto inedito, uscì per la prima volta nel 1846 a cura di Prospero Viani.15 La dedica, in forma epistolare, è preceduta da un'intestazione che registra i nomi del dedicante e del dedicatario:
al chiarissimo signore andrea mustoxidi
giacomo leopardi,16
e da un'epigrafe greca, «Ἀρετῇ τε καὶ Δόξῃ καίρειν [Onore alla virtù e alla fama]»,17 di cui non è dichiarata la fonte, a differenza dell'epigrafe riferita all'intera opera per la quale è fornito invece un rinvio («Plutarco, Della Superstizione»). Segue la dedica vera e propria, in prosa e in italiano, con citazioni in latino e in greco, fino al congedo tutto in greco, che ricorre a una formula epistolare di chiusura e di augurio: «‘Υγίαινε, ὅμως Θεῷ, καί σοι, καὶ παιδείᾳ, καὶ δοξῃ, καὶ Ἑλλάδι, καὶ πατρίδι, καὶ φίλοις ἀεὶ διασωϑῇς [Sta bene, affinché ti conservi sempre sano per Dio, e per te, e per la gioventù, e per la gloria, e per la Grecia, e per la patria, e per gli amici]». Al dedicatario sono addirittura messe in bocca, in greco, parole tratte dal canto decimo dell'Iliade (X, vv. 248-50), pronunciate da un eroe antico celebre per il suo ingegno, in una sorta di ideale colloquio col dedicante: «Io non parlerò delle vostre lodi. Voi potreste rispondermi con Ulisse: Μή τ' ἄρ με μάλ' αἴνεε, μή τε τι νείκει, Εἰδόσι γάρ τοι ταῦτα μετ' Ἀργείοις ἀγορεύεις [Non mi lodare troppo né biasimare, parli infatti ad Argivi che sanno queste cose]». Il ricorso a citazioni in lingue classiche, di cui non viene indicata l'origine, è certo un omaggio al dedicatario − filologo classico di origine greca, legato alla cerchia del Monti e del Giordani − ma anche una forma di complicità erudita con lui, che seleziona drasticamente il pubblico dei potenziali lettori, dal quale è escluso anche il padre dell'autore che non conosce il greco.18 Esclusione ben significativa se davvero la dedica alternativa prevista per quest'opera − quella al cardinale Mattei − era opera di Monaldo.
La dedica al Mustoxidi, che dimostra una conoscenza perfetta delle regole del genere, si apre con l'offerta dell'opera, dichiarata fin dalla prima parola: «Dedico al nome e alla fama vostra questa mia piccola opera». L'aggettivo riferito all'opera, «piccola», topico fin dal «libellum» catulliano («Cui dono lepidum novum libellum?», Lib. i, 1), ritorna con perfetta circolarità nella conclusione, prima del congedo in greco, accompagnato da aggettivi di segno opposto riferiti al dedicatario:
Il dono, che vi offro, è molto piccolo: non dirò che sia reso grande dal cuore con cui ve l'offro, poichè è piccolo dono anche il cuore di un uomo da nulla: ma solo che può renderlo grande il cuor vostro. Se voi lo accetterete con benevolenza, sembrerà largo il donativo, e certo larghissimo ne sarà il compensamento.19
La frase richiama, anche nella costruzione sintattica, la chiusa della dedica alla madre della Merope alfieriana: «di cui un picciolissimo attestato le do, col dedicarle questa mia tragedia; ma grandissimo ne sarà il contraccambio, se ella mi darà segno di averla gradita»:20 a conferma della forte consapevolezza di genere del giovane Leopardi e insieme della precisa scelta dei suoi modelli. Vale anche la pena di notare che il topos di modestia, qui declinato nella consueta antitesi di «piccolo», riferito al dono, e «grande», «largo», «larghissimo», riferito al destinatario, è però espresso con una decisa presa di distanza dalla forma abituale: «non dirò che sia reso grande dal cuore con cui ve l'offro». Qui la negazione segnala il rifiuto della frase abusata, come già nella prima parte segnalava l'abbandono delle più inerti formule di cortesia, «Per chiedervi la vostra amicizia, non uso le cerimonie volgari che disprezzo, sicuro che non ve ne offenderete, perchè questo dispregio è cagionato dalla stima», utilizzando tra l'altro termini come «disprezzo», «dispregio» e «dispregiati» che raramente compaiono nel controllatissimo lessico dedicatorio.21
L'abbandono delle convenzioni è anche nella volontà dichiarata di non descrivere i pregi del dedicatario: «Io non parlerò delle vostre lodi».22 Non si tratta qui di una reticenza retorica, come in molte dediche, dove la litote serve ad accrescere l'ampiezza delle lodi piuttosto che a diminuirla, ma sembra il segno − anche grammaticale − di un rifiuto caparbio delle convenzioni, che non può non ricordare, per l'esatta antitesi, l'inizio programmatico e di segno opposto della dedica al Maffei appena vista: «Il fregiare le opere proprie col nome di personaggio illustre fù spesso orgoglio, interesse, costume».23 Nella dedica al Mustoxidi l'elogio del dedicatario è affidato in effetti alla sola menzione, in apertura, del merito e della fama dello studioso, quasi personificati in figura di dedicatari («Dedico al merito e alla fama vostra»), e poco più avanti dell'ingegno, dichiarato più importante dell'aspetto fisico, che invece è accompagnato da un segno di negazione: «Io non conosco le vostre sembianze, bensì, per quanto è possibile, l'ingegno vostro: è qualche tempo che l'ammiro; vorrei amarlo».24
Il rapporto tra dedicante e dedicatario si declina dunque nei termini di una complicità intellettuale («Le mie inclinazioni somigliano molto alle vostre»), nel segno di un'equivalenza («somigliano»), così inusuale che sùbito richiede di essere corretta: «Si licet exemplis, in parvis, grandibus uti». Ma è interessante che l'abbassamento − pur ricorrendo alla codificatissima antitesi tra "piccolo" e "grande" − sia espresso con una formula latina, che lo colloca su un piano diverso, in qualche modo secondario, rispetto al discorso principale. Una sorta di acutezza epigrammatica aveva del resto aperto l'enunciazione di questo rapporto: «Il mio nome vi riuscirà nuovo, ed io gusto così un piacere, che a voi sarebbe impossibile di gustare, recandovi col mio nome una sorpresa, che voi col vostro non potreste recare ad alcuno». La frase, nell'accorta struttura a simmetrie plurime con variazioni e iterazioni di parole, è tutta giocata su pronomi e aggettivi che rinviano all'io e al voi, ed esibisce subito il collegamento privilegiato tra dedicante e dedicatario, che attraversa poi l'intero testo con continue iterazioni dei pronomi «io» (quattro volte, di cui tre in apertura di frase) e «voi» (cinque, di cui una in apertura di frase).
Scopo dichiarato di questa dedica, in effetti, non è la ricerca di qualche protezione, bensì una richiesta di amicizia («Per chiedervi la vostra amicizia») e un'offerta di amore: «è qualche tempo che lo ammiro [l'ingegno vostro]; vorrei amarlo». Il rapporto tra i due − io / voi − si declina in termini di dotta complicità e affinità di gusti e di studi, in un clima di alta cultura da cui sono esclusi gli incolti: «Io vo in estasi quando leggo gli scritti dei vostri cari Greci, e, ardisco dirlo, non cedo che a voi nel vivo trasporto per quegl'incantati alberghi delle muse, degnissimi di essere dispregiati da chi non può conoscerli». Nella frase, di intensa emotività, sono esibite con giovanile entusiasmo le passioni intellettuali più forti ed esclusive, fino al tono sublime di «quegl'incantati alberghi delle muse», che incastona nella prosa un perfetto endecasillabo (con accenti di 4a, 6a, 8a, 10a) degno del grande lirico, come poi accadrà in luoghi strategici di altre dediche leopardiane. Un'aristocrazia della cultura si sostituisce qui alla nobiltà di sangue, implicitamente ripudiata dal conte Leopardi che nella dedica omette il suo titolo nobiliare.
Questo comune amore per i classici, insieme con la dichiarazione di amicizia, era una delle ragioni evocate dal Foscolo nel 1803 per la dedica della Chioma di Berenice a Giovan Battista Niccolini: «mando a te il mio lavoro come premio della tua devozione a' poeti greci, e come nuovo testimonio della nostra amicizia».25 Non è escluso che questa dedica toccasse profondamente il giovane Leopardi per la dichiarata intenzione di rivolgersi ai giovinetti amanti dei classici: «mandandoli a te, io intendo di mandarli, senza lusinga di gloria, a tutti i giovinetti tuoi pari». Nella dedica al Mustoxidi sembra di coglierne qualche tangenza lessicale: «Onde accogli frattanto questo piccolo dono» di Foscolo sembra riaffiorare nella frase «Il dono, che vi offro, è molto piccolo», soprattutto il lamento «sebbene per la tristezza allontanato dalle vergini Muse»26 sembra riecheggiare, capovolto, in «quegl'incantati alberghi delle muse» di Leopardi. Ma tracce di quella dedica foscoliana si possono cogliere, come vedremo, anche in altre dediche più tarde, fino all'ultima del 1831.
Alcune delle caratteristiche formali che ho indicato − iterazione dei pronomi di prima e seconda persona, uso di strutture retoriche elaborate, variazione del topos di modestia − si ritrovano nella dedica del Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone, steso nei primi mesi del 1816 e offerto ad Angelo Mai, ma rimasto poi inedito per volontà dell'autore, che nella lettera del 21 febbraio 1817 lo dichiara «indegno di veder la luce».27 Anche qui si tratta di un rapporto di tipo intellettuale, quasi da allievo a ideale maestro. L'epistolario testimonia la reazione compiaciuta e insieme imbarazzata del Mai alla lettura della dedica. Dopo aver elogiato il lavoro del giovanissimo studioso, il 21 luglio 1816 così chiede di ridurre le lodi:
Le gentili espressioni della Dedica potrebbero lusingare l'amor proprio di chiunque: ma conoscendo io di essere troppo inferiore a quelle lodi, non saprei che pregarlo (nella ipotesi che il libro si pubblicasse, e che Ella a me lo indirizzasse) di moderarne anzi toglierne ogni cosa che a me fosse occasione di rossore.28
La risposta di Leopardi del 31 agosto − con l'accettazione di suggerimenti e consigli per la traduzione e il commento, ma con una forte riluttanza a modificare la dedica − mi pare sintomatica della posizione del giovane autore nei confronti della pratica dedicatoria:
Tutto abbisognerà di emendamento, ma quanto alla Dedica, non rimproverandomi la mia coscienza se non di aver detto troppo poco, la supplico a permettere che la si rimanga qual è, e l'assicuro che non ho ancora appreso ad adulare; e già vi vorrebbe molto, perchè le lodi date alla sua insigne e veramente esemplare φιλοπονίᾳ ed alla sua, per nostra mala ventura, straordinaria dottrina, fossero adulazioni.29
La dedica al Mai, in prosa e in italiano, è preceduta da un'intestazione epigrafica in cui è registrato, come d'uso, il nome del dedicatario, seguito − come talora accade − da quello del dedicante:
al chiarissimo sig. dott. angelo mai, scrittore
di lingue orientali nella biblioteca ambrogiana
giacomo leopardi.30
La dedica vera e propria, in forma epistolare, si apre con una frase di tono epigrammatico e paradossale, che sembra quasi il segnale di un rovesciamento della pratica dedicatoria: «Altri donano dedicando; io vi dedico un dono, che voi mi avete fatto».31 Qui il chiasmo semantico tra "donare" e "dedicare" è complicato dalla variazione grammaticale degli elementi che lo compongono (i primi tre sono verbi e il quarto, «dono», è un sostantivo) e dall'inserzione di un altro chiasmo − questo con variazione dei casi − che lega i pronomi personali (io : vi : voi : mi). Questo secondo chiasmo introduce il rapporto tra dedicante e dedicatario, sottolineato dai pronomi e dagli aggettivi di prima e seconda persona ripetuti con insistenza nel breve testo: «voi» (quattro volte), «vostro» / «vostra» (cinque), «vi» (tre); «io» (quattro, di cui una in apertura di frase), «mi» / «me» (quattro). L'iterazione riguarda anche altri elementi del lessico, che ritornano identici («altri», due volte, in apertura di frase; «dono», tre; «Italia», due; «piccolo», due), o con variazioni: «non morrà» / «non muoia», «fatto» (due volte) / «farlo», «conosca» / «conosciuto» / «conoscereranno».
La dedica si chiude con l'esplicita offerta dell'opera, modulata di nuovo in termini di contraccambio: «Ricevete questo piccolo presente, e siate certo che non potrò mai rendervi giusto cambio del piacere, che mi avete dato». L'aggettivo topico, riferito all'opera offerta («piccolo presente»), riprende quello usato nella dichiarazione di modestia, riferito niente meno che al proprio ingegno: «Io nella età, in cui mi trovo, non posso averlo fatto, e con un ingegno sì piccolo non posso sperare di farlo». Ma nell'elaborata frase che precede l'offerta formale, il topos di modestia è riscattato dal rinvio a un esclusivo piacere intellettuale: «Altri potrà fare della vostra scoperta miglior uso di quello che io ne ho fatto, ma sentirne gioia più grande che non io, nessuno». Qui l'esclusività è ribadita anche dalla posizione dei pronomi, collocati in apertura e in chiusura di frase, in rapporto chiastico con il pronome di prima persona, che costituisce la parte interna e identica del chiasmo: altri : io : io : nessuno. Si può aggiungere che l'antitesi tra il soggetto e gli altri, nel nome di una superiorità intellettuale di risultato, sembra tener presente un analogo vanto, che si legge nella già ricordata dedica della Chioma di Berenice: «E se tu trovassi ch'io possa essere superato da chi verrà, non troverai certamente ch'io non abbia avanzato chi mi ha preceduto. Però dove io avessi mancato, altri più dotto e più curioso di siffatti studi supplisca».32
L'ultima dedica di un lavoro erudito è quella, pure rimasta inedita, a Georg Barthold Niebuhr, filologo classico e ambasciatore prussiano a Roma, con cui Leopardi entrò in contatto nel 1823 durante il suo soggiorno a romano. Il Niebuhr si era dato da fare, ma senza risultato, presso il Segretario di Stato Cardinale Ercole Consalvi per aiutare Leopardi a ottenere un impiego presso la cancelleria vaticana.33 La dedica a lui rivolta, in latino e in forma epigrafica, è di datazione incerta (forse del 1825) e di difficile collocazione. Era stata pensata probabilmente per un lavoro erudito: forse, come ipotizza Gino Scarpa, che la pubblicò per primo nel 1935,34 per un esemplare delle Annotazioni a Eusebio da inviare al Niebuhr stesso. Ma non si trovano indicazioni più precise nell'epistolario. La trascrivo qui integralmente:
magno niebuhrio,
novo scaligero, novo leibnitio; cuius ego doctrinam ita suspicio, ut meae me
pudeat levitatis, quod litteris aliquid committere audeo; quem vidisse me, cuius
colloquio usum esse, quum cogito, non carere me fructu studiorum et vitae iudico;
i. leopardius,
ut (in) benignissimo (tanto) viro memoria renovaretur mei, et amoris quondam
erga me sui, hunc libellum oblatum
volui.35
L'innalzamento del dedicatario è ottenuto non solo tramite l'aggettivo «magno», e la protesta di ammirazione per la sua dottrina («cuius ego doctrinam ita suspicio»), ma anche tramite l'accostamento a modelli di grandi filologi e pensatori del passato come Scaligero e Leibniz («Magno Niebuhrio, novo Scaligero, novo Leibnitio»). Tuttavia anche qui domina la nota affettiva con il ricordo delle conversazioni colte e della comune, esclusiva passione per gli studi.
Non mi risulta che ci siano altre dediche di Leopardi per opere erudite o lavori critici di studioso. Le due Crestomazie della prosa e della poesia italiana, uscite a Milano, rispettivamente nel 1827 e nel 1828, per i tipi dello Stella, non presentano dedica: entrambe si aprono invece con un avviso Ai lettori, in cui sono definite in maniera magistrale le scelte e gli intenti della raccolta.36 Neppure le opere creative in prosa, come le Operette morali o i Pensieri, sono dedicate. Solo edizioni di testi poetici e solo fino al 1831 presentano ancora dediche: cinque, tutte successive al 1816 e tutte in forma epistolare. Quattro si addensano tra il 1816 e il 1820, e una quinta, splendida e solitaria, è scritta alla fine del 1830 e premessa alla prima edizione dei Canti nel 1831. Di queste, quattro furono effettivamente utilizzate e una uscì postuma. In ordine cronologico sono: la dedica criptica (e falsa) dell'Inno a Nettuno edito nel 1817; quella a Vincenzo Monti delle prime due canzoni (All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava a Firenze), uscite a Roma all'inizio del 1819 con data 1818; la dedica alla protagonista della canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (rimasta inedita); quella a Leonardo Trissino della canzone Ad Angelo Mai pubblicata nel 1820; quella della prima edizione dei Canti del 1831, indirizzata Agli amici suoi di Toscana. Su queste poche, ma intensissime scritture vale la pena di concentrare l'attenzione, cominciando dalla prima, premessa a una singolare operetta che, almeno nella finzione editoriale, si presenta ancora come un lavoro erudito, e sembra costituire quasi una sorta di transizione tra il lavoro filologico e quello poetico. Alle altre quattro dediche di testi poetici è riservato uno studio specifico, che uscirà nel terzo numero di «Margini».
La più antica di queste dediche, come ho detto, è premessa a un singolare falso del giovane Leopardi, l'Inno a Nettuno d'incerto autore nuovamente scoperto. Traduzione dal greco del conte Giacomo Leopardi, uscito sullo «Spettatore Italiano» del 1° maggio 1817 (t. vii, quaderno lxxv), e subito ripubblicato con stampa più corretta in un fascicolo autonomo contenente anche le Odae adespotae. L'operetta segna in qualche modo la prima uscita di Leopardi poeta: nascosto dietro lo stratagemma della traduzione di un antico testo greco, trovato nel «codice tutto lacero» di una piccola biblioteca romana da un amico filologo non meglio identificato. Mi pare davvero sintomatico che il passaggio pubblico di Leopardi alla poesia in proprio avvenga attraverso la mediazione di una falsa traduzione, e con il supporto − si vorrebbe quasi dire la protezione − di un apparato di note esplicative (di fatto un autocommento d'autore), che segnalano sia i rapporti con la tradizione antica sia le innovazioni di miti e vicende rispetto a quel precedente. L'inno, in endecasillabi sciolti, è accompagnato da un ricco apparato paratestuale (dedica, Avvertimento e Note), che con il suo statuto di verità presupposta − e in qualche modo rafforzata proprio dalla collocazione in margine al testo vero e proprio − ha anche lo scopo di accreditare come vera la pretesa traduzione.37 La dedica, rivolta al preteso scopritore e futuro editore critico dell'inno, è preceduta da un'intestazione che porta la firma del dedicante e risulta invece criptica per quanto riguarda il dedicatario, pur nell'ostentata esibizione dei suoi titoli:
Al Sig.***,
Ciamberlano di S.M.I.R.A., Cavaliere dell'Ordine Gerosolimitano ec.
Giacomo Leopardi.
L'epigrafe greca di cui si dichiara l'origine, «᾿Υμνοι δὲ καὶ ἀϑανάτων γέρας αὐτῶν [«Gli inni privilegio degli dei immortali»]. Teocr., Idill. 17, v. 8»,38 entra in risonanza con l'ultimo verso della poesia stessa: «Proteggi i vati che degl'inni han cura» (v. 203). Segue una parte epistolare in prosa, molto breve, che richiede di essere integrata con il più ampio Avvertimento, dove Leopardi fornisce altri particolari sulla presunta scoperta, che ovviamente non potevano figurare in una dedica rivolta al preteso scopritore. La dedica, come si è detto, va considerata criptica, in quanto il nome del dedicatario è sostituito da tre asterischi: in realtà si tratta di uno sdoppiamento dell'autore che, dietro la finzione, risulta insieme dedicante esplicito e dedicatario criptico, in una sapiente costruzione di doppi, ai quali va aggiunto anche il non identificabile autore dell'immaginario testo greco. Di quest'ultimo nell'Avvertimento si finge addirittura di ricostruire la possibile identità, commentando poi esplicitamente nelle Note il suo comportamento − fedele o deviante − rispetto alla tradizione letteraria di riferimento.
La forma editoriale di questo falso poetico-filologico sembra prendere come modello la traduzione foscoliana del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne, presentato a sua volta come tradotto da un non meglio identificato Didimo Chierico, di cui un terzo autore, suo amico, traccia un'affascinante presentazione bio-bibliografica intitolata Notizia intorno a Didimo Chierico. Stampata alla fine della traduzione del Viaggio sentimentale nel 1813,39 la Notizia era stata riproposta con notevoli varianti nell'edizione dell'Ipercalisse uscita a Zurigo nei primi mesi del 1816. In questa seconda edizione tra l'altro − coincidenza davvero curiosa − l'editore Lorenzo Alderani, nell'intestazione di una lettera premessa da Didimo alla sua visione, è insignito proprio del titolo di Cavaliere Gerosolimitano: «Didymus clericus / M. I. Rainero Eq. Hier. Sal.».40 Non si dimentichi che la stessa Ipercalisse rientrava in qualche modo nella categoria del falso letterario, dal momento che era presentata come scritta non da Foscolo, ma da Didimo Chierico e pubblicata dall'amico Lorenzo Alderani. La suggestione foscoliana, del resto, non sembrerebbe da escludere per l'intera operazione del giovane Leopardi. Tanto più se si tiene presente che quattro frammenti dello stesso Foscolo, attribuiti a un presunto e anonimo inno alle Grazie, erano stati pubblicati all'interno del commento e delle Considerazioni che accompagnavano il volgarizzamento della Chioma di Berenice. Presentati come traduzione in endecasillabi sciolti di un non meglio precisato originale greco («Ne' frammenti greci ch'io credo d'un antico Inno alle Grazie, da me un tempo tradotti, veggonsi»), erano accompagnati, come poi in Leopardi, da un giudizio stilistico-attributivo sull'anonimo autore: «Quantunque questa poesia non abbia i caratteri della nobile semplicità omerica, e senta al mio parere la raffinatezza dei poeti latini, veggonsi nondimeno disjecti membra poetae, ed un ardire felice».41
Ma torniamo alla dedica leopardiana dell'Inno a Nettuno. Il tema dell'autore che offre al suo dedicatario un dono in qualche modo da lui ricevuto, «Dando al Pubblico, per vostro comandamento, trasportato nella mia lingua, il bell'Inno da voi scoperto, a voi lo intitolo, o mio diletto amico, che avete in certa guisa voluto donarmelo e farlo mio»,42 ricollega questa dedica a quella del Discorso su Frontone ad Angelo Mai («Altri donano dedicando; io vi dedico un dono, che voi mi avete fatto»),43 ma portando all'estremo il gioco sul donare che è in realtà un ricevere attraverso la coincidenza, criptica, di dedicatario e dedicante. Alla dedica al Mai e a quella al Mustoxidi rinvia poi l'iterazione di pronomi e aggettivi di prima e seconda persona, ripetuti più volte nel brevissimo testo: «vostro» / «vostra» (quattro volte), «mio» / «mia» (cinque, di cui due in chiusura di periodo e come ultima parola), «voi» (due), «io» (due), «vi» (una). Esattamente al centro si collocano i pronomi «noi» e «ci», che sembrano quasi un divertito riferimento, allusivo e criptico, al rapporto specialissimo (di identità) che lega dedicante e dedicatario: «Moltissimo rallegromi di potere con questo mezzo [la dedica] fare a tutti noto e chiaro che noi ci amiamo veramente, e che se non il vostro, certo l'amor mio è ben collocato».44 La dedica in tal modo prolunga ed esalta all'estremo il gioco di sdoppiamento tra lo scopritore del codice e il suo traduttore, moltiplicando le false identità. Si presenta come testimonianza pubblica di amicizia e di amore, e non come richiesta e offerta come accadeva in quella al Mustoxidi vista all'inizio. In questo è piuttosto simile alla già ricordata dedica foscoliana della Chioma di Berenice: «mando a te il mio lavoro come premio della tua devozione a' poeti greci, e come nuovo testimonio della nostra amicizia»,45 dove pure figurava il sintagma «amico tuo» («e vivi memore dell'amico tuo, com'io vivo sempre pieno di te»), variato da Leopardi in «mio diletto amico».
Sulla parola «amico» si apre del resto l'Avvertimento premesso all'Inno a Nettuno, che, come ho detto, è complementare alla dedica e fornisce indicazioni pseudo-filologiche: dalla data del rinvenimento del codice («6 gennaio dell'anno corrente») fino alla descrizione materiale del codice stesso:
Un mio amico in Roma nel rimuginare i pochissimi manoscritti di una piccola biblioteca il 6 gennaio dell'anno corrente, trovò in un Codice tutto lacero, di cui non rimangono che poche carte, quest'Inno greco; e poco appresso speditamene una copia, lietissimo per la scoperta, m'incitò ad imprenderne la traduzione poetica italiana.46
Segue poi, con la citazione in greco di incipit ed explicit, la descrizione del codice presentato come relativamente recente («L'Inno pare antichissimo, avvegnachè il Codice non sembri scritto innanzi al trecento») e ovviamente mutilo: «Il nome dell'autore non è nelle carte che ci avanzan del Codice già molto più ampio, e non si può di leggieri indovinare. [...] da che apparisce che avea nel manoscritto altri componimenti dello stesso poeta». Dopo le ipotesi attributive, progressivamente scartate, è fornita l'indicazione di possibili coordinate geografiche e storiche utili a identificare il presunto autore: «Ma l'autore di questo mi pare sì bene istrutto delle cose degli Ateniesi, che io lo credo d'Atene, o per lo meno dell'Attica. [...] ma quello ora scoperto, benché molto antico, non può essere di quel poeta che si dice vissuto avanti Omero».47 È questo, mi pare, un caso di straordinario interesse, dove il falso apparato para-testuale gioca un ruolo di primissimo piano per accreditare la presunta scoperta: e insieme contribuisce attivamente a costruire e rafforzare le molteplici e diffratte immagini di un raffinatissimo e spregiudicato pasticheur, di un autore che ormai domina senza riserve ogni forma e ogni registro della scrittura letteraria. E che in chiusura può permettersi senza cedimenti un ultimo, ironico capovolgimento della realtà con una paradossale e provocatoria dichiarazione di fedeltà a un testo che non esiste affatto: «Ho adoperato molto per tradurre fedelissimamente, e non ho trascurato pure una parola del testo, di che potrà agevolmente venire in chiaro chi vorrà ragguagliare la traduzione coll'originale, uscito che sarà questo alla luce».
M. A. T.
Note
1 Cfr. M. A. Terzoli, Dediche leopardiane I: infanzia e adolescenza (1808-1815), in «Margini», 1, 2007: http://www.margini.unibas.ch/web/rivista/numero_1/saggi/articolo1/leopardi.html.
2 Per la descrizione tipologica e formale delle dediche utilizzo categorie e definizioni elaborate nell'ambito del progetto di ricerca I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica (Università di Basilea, 2002-2006, diretto dalla sottoscritta): si vedano in proposito il Glossario e l'Help dell'Archivio Informatico della Dedica Italiana (aidi), in http://www.margini.unibas.ch.
3 Cfr. in proposito di chi scrive I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in Dénouement des Lumières et invention romantique, Actes du Colloque de Genève, 24-25 novembre 2000, Réunis par G. Bardazzi et A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 161-92, in particolare pp. 190-91 (riproposto in «Margini», 1, 2007); e G. Balducci, Epigrafi e dediche in scrittori moderati del Risorgimento, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 317-44, in particolare pp. 317-19 e 330-35.
4 Cfr. lett. 2801, del 6 marzo 1826, a Nicolò Biscaccia, in V. Monti, Epistolario, Raccolto ordinato e annotato da A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928-1931, vol. vi (1824-1828), pp. 165-66, la cit. a p. 166: l'episodio è ricordato in S. Garau, Dediche di Vincenzo Monti, in Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. iii, Monti nella Milano napoleonica e post-napoleonica, a cura di G. Barbarisi e W. Spaggiari, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 263-82, in particolare p. 282, che anche si raccomanda per la conoscenza di questa pratica nel Monti. Le dediche epistolari sembrano trovare nuova fortuna tra fine Ottocento e inizio Novecento, per esempio nel Pascoli.
5 Lett. 12, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (d'ora in avanti Epistolario), vol. i, p. 16.
6 Cfr. la nota in Epistolario, vol. ii, p. 2125. Cfr. anche la lett. 1923, in G. Leopardi, Epistolario, Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative, a cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1941, vol. vii, Appendice con lettere e note aggiunte a cura di G. Ferretti, e indice analitico generale di A. Duro, pp. 2-3; e lett. 7, in G. Leopardi, Tutte le opere. Epistolario, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 1949.
7 Lett. 2 e 6, in Epistolario, vol. i, pp. 4 e 8.
8 Della Tirannide. Libri due di Vittorio Alfieri da Asti, Dalla Tipografia di Kehl, co' caratteri di Baskerville, 1809 [ma 1790]; ora in Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d'Alfieri, 1951, vol. i, pp. 1-109; la dedica è alle pp. 7-8; la cit. a p. 7. L'attacco su parola sdrucciola rinvia alla dedica del Principe, aperta dallo stesso verbo: «Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquistar grazia appresso uno principe farsegli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care» (N. Machiavelli, De Principatibus, Testo critico a cura di G. Inglese, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1994, pp. 181-83; la cit. è a p. 181): in proposito si veda di chi scrive Dediche alfieriane, in I margini del libro cit., pp. 263-89, in partic. pp. 268-70.
9 Lett. 12 cit., in Epistolario, vol. i, p. 16; così la successiva. Mio il corsivo: così nel séguito, salvo indicazione contraria.
10 Della pubblica felicità, oggetto de' buoni principi. Trattato di Ludovico Antonio Muratori, in Lucca, 1749, pp. 1-10 (non numerate); la cit. a p. 9. Su questa dedica cfr. di chi scrive I testi di dedica cit., p. 170.
11 Lett. 12 cit., in Epistolario, vol. i, p. 16; così la successiva.
12 Cfr. G. Leopardi, «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi, 1809-1810, a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972, p. 462. La citazione successiva in Epistolario, vol. i, p. 16.
13 Lett. 13, in Epistolario, vol. i, p. 17. La lettera, senza data, è collocata dagli editori nei «primi mesi del 1816»: credo che si possa restringere la datazione entro il 16 febbraio 1816, se questa lettera, come indicato, è allegata a quella inviata da Monaldo allo stesso Stella in data 16 febbraio 1816 (cfr. ivi, vol. ii, p. 2125).
14 Si veda in proposito la lett. 1568, del 2 settembre 1830, in cui Leopardi rispondendo allo Stella che il 21 agosto (lett. 1563, ivi, vol. ii, pp. 1749-50; in partic. p. 1750) gli aveva suggerito di pubblicarlo con qualche ritocco, scrive: «Ma Ella ritenga ancora il ms. degli Errori popolari, lavoro troppo giovanile, perch'io possa farne uso» (ivi, p. 1753).
15 G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di P. Viani, Firenze, Le Monnier, 1846. Si legge in Id., Tutte le opere. Le poesie e le prose, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 19658, vol. ii, pp. 217-456 e 1127-30; e in Id., Poesie e prose, ii, Prose, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 19987 (d'ora in avanti Poesie e prose), pp. 634-879 e 1429-33. Si vedano ora due edizioni commentate, rispettivamente a cura di G. B. Bronzini (Venosa, Edizioni Osanna, 1997) e di A. Ferraris (Torino, Einaudi, 2003).
16 Cito da Poesie e prose, vol. ii, pp. 634-35, reintegrando la scansione fornita dal Flora, in Tutte le opere cit., ii, pp. 217-18 (a p. 217).
17 Bronzini segnala come possibile origine l'innografia greca (in G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari cit., p. 58).
18 L'uso del greco come lingua segreta, anche con semplice traslitterazione della parola dai caratteri latini a quelli greci, è ben attestato negli scritti del giovane Leopardi. Si veda per esempio una lettera al Giordani del 26 luglio 1819, che precede di pochi giorni la progettata fuga dalla casa paterna, drammaticamente fallita: «Risposi, ma non ho avuto mai replica, e sono due mesi e più. Colpa o delle poste, o come sospetto, di una censura domestica istituita novellamente p[er] le lettere che vanno; e questo perchè cum horrore et tremore si sono accorti ch'io ἐλεύϑερα φρονῶ περὶ τῶν κοινῶν» (lett. 237, in Epistolario, vol. i, pp. 314-15; la cit. a p. 314). L'alfabeto greco come codice segreto per criptare parole italiane è utilizzato per esempio negli argomenti in prosa di poesie a carattere amoroso progettate nel 1818: «Che posso io fare περ τε? che soffrire che τι sia utile. Benchè io già ηρωμην σου (che così si è detto nella prima Elegia) non era ben deciso nè conosceva l'αμωρη quand'io τι compariva innanzi», «Oggi finisco il ventesim'anno. [...] Torpido giaccio tra le mura paterne. Ho amato τε σωλα [...]. E come πιακερὼ a τε senza grandi fatti?» (rispettivamente Argomento di un'elegia e D'un'altra, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. i, Poesie, a cura di M. A. Rigoni, con un saggio di C. Galimberti, Milano, Mondadori, 19987, p. 617, corsivo dell'autore).
19 Poesie e prose, vol. ii, pp. 634-35.
20 Cfr. V. Alfieri, Merope, in Id., Tragedie, a cura di G. Zuradelli, Torino, Utet, 1973, vol. i, pp. 879-972; la dedica è alle pp. 885-86, la cit. a p. 886; su questa dedica mi sia consentito rinviare al mio saggio Dediche alfieriane cit., pp. 285-89.
21 Poesie e prose, vol. ii, p. 634. Le sole occorrenze del termine «disprezzo» che mi siano finora note si trovano in una dedica di Giuseppe Bernasconi, premessa al primo tomo del Parnasso democratico ossia Raccolta di poesie repubblicane de' più celebri autori viventi (Bologna, 1801?): «Chi è difatti che si sovviene se non col più alto disprezzo, e con virtuoso sdegno delle melense canzoni del Tornielli» (Ai liberi Italiani, pp. 3-8; la cit. a p. 4); e in un'altra di Francesco Saverio Salfi, premessa al poemetto Iramo (Milano, 1810?): «e quel ch'era un momento fa l'idolo di più stolti, ne diventa ben tosto il disprezzo ed il giuoco» (Ai FF. MM., pp. 3-9; la cit. a p. 4); cito da aidi: http://www.margini.unibas.ch (schede redatte da S. Garau).
22 Poesie e prose, vol. ii, p. 634.
23 Lett. 12 cit., in Epistolario, vol. i, p. 16.
24 Poesie e prose, vol. ii, p. 634; così tutte le successive citazioni da questa dedica.
25 Cfr. La Chioma di Berenice. Poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo volgarizzato ed illustrato da Ugo Foscolo, Milano, Dal Genio Tipografico, 1803; ora in Id., Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Edizione Nazionale delle Opere, vol. vi, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 267-447; la dedica è alle pp. 270-71, la cit. a p. 270; le due successive a p. 271.
26 Ivi, p. 270. Al giovane Niccolini il Foscolo aveva dedicato nello stesso anno anche le Poesie (Milano, Destefanis, 1803), con una breve lettera che lascia qualche traccia in Leopardi, come ho mostrato in Esercizio di commento sopra un testo di dedica: 'Giacomo Leopardi al conte Leonardo Trissino', in Per leggere i classici. Saggi di commento ai classici italiani, antichi e moderni. Atti del Convegno di Ginevra, 23-24 ottobre 2007; a cura di G. Bardazzi, R. Leporatti e E. Manzotti, Lecce, PensaMultimedia (in corso di stampa), in particolare nota 11 del commento.
27 Cfr. lett. 37, ad Angelo Mai, in Epistolario, vol. i, p. 54; cfr. anche la lett. 69, del 2 giugno 1817, sempre al Mai: «la mia traduzione di Frontone, non tanto p[er] la svogliatezza dello Stella, quanto p[er] mia assoluta volontà, perchè non posso più approvarla, si rimane e rimarrà nelle tenebre» (pp. 115-16; la cit. a p. 115).
28 Lett. 18, in Epistolario, vol. i, pp. 23-25; la cit. a p. 23.
29 Lett. 19, ivi, pp. 26-31; la cit. a p. 26.
30 Poesie e prose, vol. ii, pp. 933-53; la dedica è a p. 933. Il Mai in realtà non era «Scrittore di lingue orientali», come precisa egli stesso alla fine della già citata lettera del 21 luglio: «L'Editore non ha titolo di Scrittore di lingue Orientali ma è semplicemente Dottore del Collegio Ambrosiano» (lett. 18, in Epistolario, vol. i, p. 25; corsivo dell'autore).
31 Poesie e prose, vol. ii, p. 933; così le tre citazioni successive.
32 U. Foscolo, La Chioma di Berenice cit., p. 270.
33 Si vedano al riguardo le lett. 529 (del Niebuhr, dell'11 marzo 1823), 530 (del 12 marzo 1823), 531 (del 13 marzo 1823) e 726 (di Carlo Antici, del 30 agosto 1825), in Epistolario, vol. i, pp. 666, 667-69, 670, 933-34.
34 G. Leopardi, Opere. Saggi giovanili ed altri scritti non compresi nelle Opere, Carte napoletane con aggiunte inedite o poco note, Testo riscontrato con le migliori stampe o cogli autografi, [a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa], Milano, Officina Tipografica Gregoriana, 1935, pp. 1227 e 1297.
35 Poesie e prose, vol. ii, p. 1005; e cfr. note alle pp. 1445-46. «Al grande Niebuhr, nuovo Scaligero, nuovo Leibniz; la dottrina del quale io tanto ammiro, che mi vergogno della mia leggerezza, perché oso affidare qualcosa alle lettere; che ritengo abbia giudicato che a me, della cui conversazione era uso, non mancasse il frutto degli studi e della vita, io, Giacomo Leopardi, perché in quell'uomo benevolentissimo si rinnovi il ricordo di me e dell'amore suo di una volta per me, volli offrirgli questo libretto» (traduzione mia).
36 Si veda G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Introduzione e note di G. Bollati, Torino, Einaudi, 1968, pp. 3-5; e Id., Crestomazia italiana. La poesia, Introduzione e note di G. Savoca, ivi, 1968, pp. 3-4.
37 L'Inno si legge ora in Poesie e prose, vol. i, pp. 313-37; la dedica è a p. 313; l'Avvertimento alle pp. 313-15; cfr. note alle pp. 1051-52. Le odi sono alle pp. 338-39; note alle pp. 1052-53.
38 Ivi, p. 313, così la precedente; la successiva a p. 320.
39 Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l'Italia. Traduzione di Didimo Chierico, Pisa, Presso Giuseppe Molini, 1813. Si noti che questa edizione era presente nella biblioteca leopardiana di Recanati, come si ricava dal Catalogo della stessa (cfr. Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati, pubblicato da E. De Paoli, in «Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Province delle Marche», vol. iv, Ancona, 1899, pp. 1-447). Cfr. ora l'edizione commentata a cura di G. Lavezzi, in U. Foscolo, Opere, vol. ii, Prose e saggi, Edizione diretta da F. Gavazzeni, con la collaborazione di G. Lavezzi, E. Lombardi e M. A. Terzoli, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, pp. 211-343 e 850-905; la Notizia intorno a Didimo Chierico è alle pp. 344-53 e 905-11.
40 Didymi Clerici prophetae minimi Hypercalypseos Liber singularis [Ipercalisse], Pisis, in Aedibus Sapientiae, 1815 [ma Zurigo, Orell e Füssli, 1816]; ora in U. Foscolo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, Edizione critica a cura di L. Fassò, Edizione Nazionale cit., vol. viii, 1933 (seconda ristampa xerografica 1972), pp. 65-118; la lettera è alle pp. 72-73, la cit. a p. 72. Con commento di F. Gavazzeni e traduzione di C. Saggio, si legge in U. Foscolo, Opere cit, vol. ii, pp. 355-446 e 912-34; la cit. a p. 362.
41 Cfr. La Chioma di Berenice cit., pp. 350 e 432-34; le cit. alle pp. 350 e 434.
42 Poesie e prose, vol. i, p. 313.
43 Ivi, p. 933.
44 Ivi, p. 313.
45 La Chioma di Berenice cit., p. 270; la successiva a p. 271.
46 Poesie e prose, vol. i, pp. 313-15; la cit. a p. 313; le due successive a p. 314.
47 Ivi, pp. 314-15; la successiva a p. 315.