17, 2023
 
Saggi    
 
Abstract


Maria Antonietta Terzoli

Comedia Dante:
il titolo del poema e la firma dell'autore nascosti in un verso*




La complessa trama di numeri, simboli e significati che attraversa il canto xxx sembra confermare per altra via la centralità tematica e strutturale dell'epifania di Beatrice in Purgatorio, che Natalino Sapegno riconosce come l'«episodio centrale del canto (e centrale anche rispetto all'invenzione e alla struttura di tutto il poema)».1 Beatrice pronuncia le prime parole nel canto xxx del Purgatorio e le ultime nel xxx del Paradiso, nel xxxi è già lontanissima e irraggiungibile: «e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi» (Par. xxxi 91-92).2 Resta dunque con Dante per trentaquattro canti, o meglio per trentatré più uno, con il numero 30 che si ripete due volte nella serie (30-31-32-33-1-2-3...→30). Non credo sia troppo azzardato riconoscere in questa serie numerica un'allusione alla struttura stessa della Commedia, in particolare ai numeri dei canti che compongono le tre cantiche: 1+33 (34; Inferno) - 33 (Purgatorio) - 33 (Paradiso), quasi una mise en abîme strutturale e numerica del poema, esibita proprio nei canti in cui ricompare la donna che nella Vita nova è indicata come ispiratrice di quest'opera senza precedenti («io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d'alcuna», Vn 31 3)3 e nella Commedia è presentata come colei che ha deciso il viaggio ultraterreno di Dante per salvarlo dalle colpe in cui era caduto, dunque di nuovo come colei che è all'origine della scrittura stessa del poema che di questo viaggio si vuole narrazione fedele. A partire da queste riflessioni assume rilevanza anche metatestuale il fatto che il canto xxx si chiuda proprio con la rievocazione dell'intervento salvifico di Beatrice a favore di Dante:
      Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
  Per questo visitai l'uscio d'i morti,
e a colui che l'ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti
(Purg. xxx 136-141).
Il resoconto da lei fornito in chiusura della prima requisitoria riprende sinteticamente il racconto di Virgilio a Dante (Inf. ii 52-120) e quello di Dante stesso a Forese (Purg. xxiii 118-130) sull'origine dello straordinario viaggio nell'aldilà. Riprende cioè e conferma le motivazioni della scrittura stessa del poema fornite dagli altri due protagonisti, da lei citati insieme nel verso che apre la sua dura apostrofe: « Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora» (Purg. xxx 55-56). Il canto xxx è in effetti straordinariamente significativo dal punto di vista metatestuale se proprio qui, anzi solo qui, e come prima parola pronunciata da Beatrice, è registrato il nome dell'autore, che si affretta a sottolineare l'anomalia di questa menzione nel caso fosse sfuggita al lettore: «quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra» (Purg. xxx 62-63). Molte e varie sono le spiegazioni addotte fin dai primi commentatori per la menzione del nome e la giustificazione fornita dall'autore. Benvenuto da Imola ritiene che il poeta si scusi per una citazione che potrebbe sembrare immodesta: «Et sic vide quam prudenter et caute poeta se excusat, ne videatur jactator et vanus; nam non videtur de more philosophorum inserere nomina propria operibus eorum, nisi raro et ex causa».4 L'Ottimo commento propone due ragioni, la necessità di individuare a chi si rivolge la donna e la volontà di rendere più forte il rimprovero chiamandolo per nome: «l'una, perché certa fosse la persona intra tante alle quali indirizzava il suo sermone; l'altra, però che come più addolcisce nello umano parlare il nomare la persona per lo proprio nome, in ciò che più d'affezione si mostra, così più pugne il reprensivo quando la persona ripresa dalla riprendente è nomata».5 I moderni riprendono con varie modalità queste motivazioni. Sapegno sulla scorta di questi due commenti nota che «il nome esplicitamente pronunciato del protagonista non è segno di vanità, ma serve ad accrescer la vergogna».6 Marziano Guglielminetti insiste a sua volta su ragioni legate al genere autobiografico, che richiede «identità nel nome di autore, narratore e personaggio».7 Umberto Bosco e Giovanni Reggio ritengono che il nome sia citato per fedeltà alle parole pronunciate, essendo Dante «costretto a riferire con esattezza le parole di Beatrice», e «forse anche per legare più strettamente la vicenda del Paradiso terrestre con quella terrena del suo amore».8 Anna Maria Chiavacci insiste sulle restrizioni indicate nel Convivio a proposito del parlare di sé, «parlare alcuno di sé medesimo pare non licito [...] sanza necessaria cagione» (Conv. i ii 2-3),9 giustificato dalla possibile utilità per gli altri come nel caso di sant'Agostino nelle Confessioni (Conv. i ii 14), e conclude che «il nome risuona dunque, al centro del poema, non a gloria, ma a umiliazione di chi lo porta».10 Giorgio Inglese a sua volta interpreta la menzione del nome come necessità di «una piena e personale assunzione di responsabilità [...] indispensabile alla penitenza».11 A queste ragioni, che da punti di vista diversi illuminano la scelta di iscrivere nel testo il nome dell'autore-protagonista, credo si debba aggiungerne una di carattere tecnico e metatestuale, autorizzata anche dal precedente di Virgilio, che a sua volta aveva chiuso le Georgiche con la menzione del proprio nome, «illo Vergilium me tempore dulcis alebat» (Georg. iv 563),12 e col rinvio quasi letterale all'incipit di un'opera della giovinezza aperta dal proprio nome bucolico, «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi» (Buc. i 1),13 ripreso con minime variazioni nell'ultimo verso, «Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi» (Georg. iv 566). Ma anche qui l'allievo va oltre, superando la sua guida. In effetti Dante registra il proprio nome (Purg. xxx 55) e sottolinea questa unica menzione (v. 63) non solo per scusarsi di quello che potrebbe sembrare un atto di immodestia, ma anche − e forse soprattutto − per far notare al lettore l'incredibile virtuosismo compositivo che gli ha consentito di non far pronunciare mai, nelle migliaia di versi che compongono i sessantatré canti precedenti, il nome del protagonista, che pure è stato apostrofato di continuo, nelle situazioni più diverse e da personaggi di ogni genere.14 La pronuncia del nome, riservata alla donna per cui si finge scritto il poema, è in effetti una pronuncia unica, che sancisce una sorta di rito battesimale e iniziatico: l'inizio di una vita diversa, una conversione e il passaggio a un'altra condizione alla quale non poteva essere ammesso neppure Virgilio. Questa pronuncia non sarà mai ripetuta neppure nei trentasei canti successivi, facendo di questo nome − nome del protagonista, del narratore e dell'autore − l'apax più inaudito, sorprendente e inatteso dell'intero poema.15 Sempre in questo canto e sempre in bocca a Beatrice risuona, inconfondibile, il titolo del libello giovanile così strettamente implicato con il suo ritorno, «questi fu tal ne la sua vita nova» (Purg. xxx 115), dove l'età di Dante è indicata con il rinvio preciso al titolo registrato in apertura dell'operetta: «In quella parte del libro della mia memoria [...] si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova» (Vn 1 1).16 Ma nelle parole dalla giovane donna che il poeta finge all'origine di quest'opera − proprio nel verso che segue la dichiarazione del suo proprio nome al centro esatto del canto («Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice», Purg. xxx 73)17 − si può riconoscere anche il titolo del poema, nella forma identica a quella utilizzata nella prima cantica: «e per le note / di questa comedìa, lettor ti giuro» (Inf. xvi 127-128), «altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura» (Inf. xxi 1-2).18 Nel canto xxx del Purgatorio, segnato da forti implicazioni metatestuali e strutturali con l'intero poema, il titolo Comedia è infatti iscritto, insieme con la firma dell'autore (Dante), in forma cifrata ma precisa − eppure fin qui mai riconosciuta − nelle prime parole pronunciate da Beatrice:
      Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
non sapei tu che qui è l'uom felice?
(Purg. xxx 73-75).
Nelle lettere che compongono le parole del verso 74 − uno strano verso, che fin dai primi lettori ha suscitato interpretazioni divergenti (rimprovero per essersi ritenuto degno di tale impresa o al contrario per essersi deciso così tardi a compierla)19 − sono registrati infatti in forma lineare sia il titolo del poema sia la firma dell'autore:
    COME DegnastI d'AcceDere Al moNTE
       COME D......I .'A...D... A. ..NTE
                    COMEDIA DANTE.20
E il sigillo dell'autore è anche più forte se si considera che nello stesso verso affiora − benché in forma meno evidente e non lineare (per ipogramma) − anche una variante del cognome di Dante (Alageri):
    come deGnAstI d'accedERe AL monte
         .... ..G.A..I .'.....ER. AL .....
                     ALAGERI.

M. A. T.




Note

* Si anticipano qui alcune pagine della Lectura Dantis di Purgatorio xxx, presentata all'ultimo incontro di Voci sul Purgatorio il 21 settembre 2023 (Universität Basel - University of Notre Dame). La lettura completa di questo canto sarà compresa in Voci sul Purgatorio. Una nuova lettura della seconda cantica, a cura di Z. G. Baranski e M. A. Terzoli, che uscirà presso Carocci nel 2024. torna su
1 Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, vol. ii, Purgatorio, Firenze, La Nuova Italia, 1970 (1a ed. 1956), p. 329. torna su
2 Tutte le citazioni della Commedia sono tratte da Dante Alighieri, La Commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-1967, 4 voll. (2a ed.: Firenze, Le Lettere, 1994). torna su
3 Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Einaudi, Torino, 1996, p. 232. torna su
4 Benevenuti de Rambaldis de Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comodiam. Nunc primum integre in lucem editum, curante J. Ph. Lacaita, typis G. Barbèra, Florentiae, 1887, 5 voll., vol. iv, p. 214. torna su
5 L'Ottimo commento della Divina Commedia. Testo inedito d'un contemporaneo di Dante, a cura di A. Torri, Pisa, Capurro, 1827-1829, 3 voll. (ed. anastatica a cura di F. Mazzoni, Bologna, Forni, 1995), vol. ii. torna su
6 Dante Alighieri, La Divina Commedia cit., vol. ii, p. 334. torna su
7 M. Guglielminetti, «Il suon del nome mio», in Letture classensi, Ravenna, Longo, 1979, vol. viii, pp. 27-36, la cit. è a p. 28. torna su
8 Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, vol. ii, Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1979, p. 517. torna su
9 Id., Convivio, a cura di C. Vasoli, in Id., Opere minori, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, t. i, parte ii, pp. 1-891, la cit. è alle pp. 14-15. torna su
10 Id., Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, vol. ii, Purgatorio, Milano, Mondadori, 2012 (1a ed. 1994), p. 889. torna su
11 Id., Commedia, Revisione del testo e commento di G. Inglese, vol. ii, Purgatorio, Nuova edizione, Roma, Carocci Editore, 2016 (1a ed. 2011), p. 362. torna su
12 Cito da P. Vergili Maronis, Georgicon, in Id., Opera, Recognovit brevique adnotatione critica instruxit F. A. Hirtzel, Oxonii, e Typographeo Clarendoniano, 1900 (16a ristampa 1963). Come nota Inglese «il P. ha variato la funzione e la posizione del "sigillo" autoriale che Virgilio aveva collocato al termine delle Georgiche» (Dante Alighieri, Commedia cit., p. 362). torna su
13 Cito da P. Vergili Maronis, Bucolica, in Id., Opera cit. torna su
14 In qualche caso Dante è addirittura indicato con una perifrasi che allude al fatto che non è stato pronunciato il suo nome: «cotesti, ch'ancor vive e non si noma» (Purg. xi 55). Marco Ariani nota la «strana affinità» tra questo apax e quello che designa Matelda, il cui nome è pure pronunciato una sola volta, alla fine della stessa cantica (Purg. xxxiii 119), sempre da Beatrice (cfr. M. Ariani, 'Regio spiritalis': il «seme di felicitade» e la sapienza di Matelda. Lettura del canto xxviii del Purgatorio, in «Rivista di studi danteschi», xii, 2012, pp. 388-447, la cit. è a p. 388). torna su
15 Sembra riproporsi qui, applicata al protagonista stesso, la sfida analoga − ma infinitamente più semplice − già messa in atto nel libello giovanile, dove l'autore riesce nel difficile intento di non nominare mai il luogo in cui si svolge la maggior parte della vicenda, la città di Firenze, indicata sempre con denominazioni generiche (cfr. Gorni, in Dante Alighieri, Vita Nova cit., p. 32). torna su
16 Ivi, p. 3. Il rinvio è notato fin dai primi commenti e accolto dai moderni: «il rimando al titolo del prosimetro è preciso» (Inglese, in Dante Alighieri, Commedia cit., p. 366); «con patente allusione al libello, come già vide l'Ottimo» (Id., Purgatorio, a cura di S. Bellomo e S. Carrai, Torino, Einaudi, 2019, p. 521). torna su
17 Cfr. E. Chiarini, Il canto xxx del Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1965, p. 24. torna su
18 Sulle complesse implicazioni di questo titolo si veda M. Tavoni, Il titolo della 'Commedia' di Dante, in «Nuova Rivista di Letteratura italiana», i, 1, 1998, pp. 9-34, con bibliografia pregressa.torna su
19 Tra i moderni Sapegno tende a preferire la seconda interpretazione, ricordando che la prima era proposta da Francesco Buti, la seconda da Cristoforo Landino (Dante Alighieri, La Divina Commedia cit., p. 335). Chiavacci Leonardi preferisce invece la prima, pur notando che «l'interpretazione del degnasti è controversa, perché il senso di degnare per "ritenersi degno" non è dell'uso dantesco» (Id., Commedia cit., p. 892). Inglese nota che «la battuta è contratta» e sceglie senz'altro la seconda spiegazione: «Come (mai) ti sei degnato (solo ora) di salire questa montagna?» (Id., Commedia cit., p. 363). Così anche Bellomo (Id., Purgatorio cit., p. 517). Questa interpretazione, che mette in rilievo la lunga dilazione di Dante a compiere l'impresa, pare anche a me la più convincente, funzionale al contesto e alla possibile interpretazione della colpa rimproveratagli da Beatrice. torna su
20 Anche in un'egloga latina scritta in difesa della Commedia compare (in acrostico) il nome pastorale di Dante, tityrvs, citato per esteso al v. 6: «tunc ego sub quercu meus et Melibeus eramus. / Ille quidem − cupiebat enim consciscere cantum − / "Tytire, quid Mopsus? Quid vult? Edissere!" dixit. / Ridebam, Mopse; magis et magis ille premebat. / Victus amore sui, posito vix denique risu, / "Stulte, quid insanis?" inquam: "Tua cura capelle» (Egl. ii 4-9; cito da Dante Alighieri, Egloge, a cura di G. Albanese, in Id., Opere, Edizione diretta da M. Santagata, vol. ii, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge, a cura di G. Fioravanti, C. Giunta, D. Quaglioni, C. Villa, G. Albanese, Mondadori, Milano, 2014, pp. 1593-783, la cit. è a p. 1640 e cfr. nota p. 1695; acrostico segnalato da P. Allegretti, Un acrostico per Giovanni del Virgilio, in «Studi Danteschi», lxix, 2004, pp. 289-93). torna su