16, 2022
 
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Il Decimo nono libro di Lettere dedicatorie di diversi (Bergamo 1604)

a cura di Anna Laura Puliafito



Il Decimo nono libro di Lettere dedicatorie di diversi si compone di 23 carte numerate che raccolgono nove dediche, cui seguono l'indice dei Personaggi, a' quali sono dedicate le lettere (c. 23r) e quello degli Autori delle dedicationi (c. 23v). Il volume è introdotto da una dedica di Comino Ventura (datata «Dalla stampa mia il 13. di Marzo 1604») al «Molto Reverendo Padre e mio Signor colendissimo» padre Faustino Leali, priore del Convento dei Celestini di Bergamo (cc. n.n., ma [1r]-[2r]). Si tratta della medesima dedica che introduceva il libro precedente, descrivendo la selezione dei dedicatari come una corona di gemme preziose (cfr. «Margini», 15, 2021). Le dediche selezionate riguardano questa volta una commedia e tre raccolte poetiche, cui si aggiungono un'edizione dell'Arcadia curata dal Porcacchi, il Ninfale d'Ameto con le chiose del Sansovino, un testo di documentazione storica e una raccolta di favole. Nicola degli Angeli offre la sua commedia l'Amor pazzo (Amor pazzo comedia del signor Nicola de gli Angeli. Nuovamente posta in luce, et con ogni diligenza corretta, In Venetia, appresso gli heredi di Marchiò Sessa, 1596), al cavalier Flaminio Catabeni, «Di Monte Lupone, questo di 1595» (c. 3v-6v). L'opera era già stata pubblicata a Napoli nel 1590 col titolo di Furori (Furori. Comedia del signor Nicola degli Angeli. Con un discorso dell'illustrissimo signor don Fabritio Sanseverino, intorno alla compositione delle comedie, In Napoli, appresso Horatio Salviani, 1590). La commedia conobbe un certo successo: verrà stampata nuovamente a Venezia e a Napoli nel 1600, e rappresentata nel 1634 a Genova, a Napoli e a Recanati. Originario di Monte Lupone nelle Marche, Angeli aveva studiato legge a Bologna, aveva letto di etica e poetica a Genova, ed era infine entrato come segretario al servizio del vescovo di Fermo, Felice Peretti, eletto poi papa nel 1585 come papa Sisto V. Nella dedica l'autore celebra la famiglia Catabeni, dal nome del popolo originario «dell'Arabia Fenice» giunto in Europa attraverso la Spagna. Dopo la riunificazione della penisola, la famiglia di Flaminio si sarebbe stabilita a Ferrara entrando nelle grazie degli Estensi. Flaminio è figlio di Lionello, uno dei capitani della città, inviato da Carlo V in Ungheria a combattere contro i Turchi; nominato cavaliere dal re Sebastiano I del Portogallo, entra al servizio del cardinale di Urbino, Giulio della Rovere. A Flaminio dunque viene offerto l'Amore pazzo, «Poema, intorno al quale con le regole generali della Tragedia, non si sdegnò di affaticarsi tanto il Prencipe delle scienze, Aristotele» (c. 5v). L'autore dichiara di aver lavorato sull'opera per quindici anni, e di essere ritornato sul testo in una nuova edizione «di singolari vaghezze abbellita», ma non per questo di essere sicuro di essere immune dalle critiche dei «seguaci» di Aristotele, o del Castelvetro «et di simili altri intendenti e maestri» (c. 6r). La dedica si conclude con la promessa di un'opera «di non più veduta scienza, degno della vecchiaia in cui mi trovo», di cui si farà portavoce il comune amico Scipione Tomasini, e con un saluto alla consorte del Catabeni, Leonora Ruffo, cui Angeli augura che «Dio Benedetto si degni concedere un figlio, per conservatore della Famiglia Catabeni; od almeno una figlia, che rappresenti veramente la bellezza del corpo, e dell'anima, di sì modesta, et honorata Signora» (c. 6v). Una prima opera poetica è la Canzone di don Chrisostomo Talenti Monaco I Vallombrosa nella morte del sig. Francesco Olmi di Bergamo, In Firenze, nella stamperia di Cosimo Giunti, 1604. Sebbene il Talenti venga segnalato come dedicante nell'intestazione e nell'elenco in calce al libro, l'autore della dedica a Lodovico Benagli, conte di Sanguineto (c.1r-v), datata «di Firenze li 22 Gennaio 1604», è un altro monaco di Vallombrosa, Simone Finardi, del monastero di Santa Trinita a Firenze. Finardi, legato alla famiglia Olmi da vincoli di parentela, afferma di aver ricevuto dall'autore stesso questo componimento, che ha dato alle stampe per onorare l'immatura morte del giovane Francesco Olmi da «fiera archibugiata acerbamente esseguita» (c. 1v). Una raccolta di sonetti è il testo che l'autore Francesco Antonio Oliveri offre a Giulio Cesare Riccardi, vescovo di Bari, «Di Racconigi il 24 Giugno 1601» (cc. 2r-3v). Si tratta di Alquanti sonetti del signor Francesco Antonio Olivero [...] estratti d'altre sue rime a diverse persone, in diverse occasioni, & in varij soggetti [...], In Torino, appresso Gio. Domenico Tarino, 1601. L'autore dichiara di non conoscere ancora il dedicatario, sì dunque che «contra ogni ragione il favore precede il merito», ma di aver composto i sonetti in onore di Clemente VIII in occasione della sua ascesa al Soglio pontificio, e di averne aggiunti altri di argomento religioso. Impossibilitato ad andare a Roma per offriglieli, soprattutto a causa della guerra franco-savoiarda, aveva deciso di ampliare la raccolta con rime composte in altre occasioni e in onore di altri personaggi. La scelta era stata quindi quella di dedicare il volume al «Gran Vicario di Christo appresso l'Altezza di Savoia» suo Signore, per celebrarne le virtù singolari. La stessa dedica compariva già nel libro X (cfr. «Margini», 7, 2013). Il Riccardi era stato nominato vescovo di Bari nel 1592 e nel 1595 nunzio pontificio presso i Savoia, ciò che lo aveva portato a trasferirsi a Torino. Nel 1601 avrebbe infine lasciato Torino per spegnersi a Napoli nel 1602. La silloge poetica in occasione del dottorato in utroque iure dell'abate Giovan Francesco Serbelloni (Componimenti diversi nel dottorato di leggi dell'abbate Giovanni Francesco Serbellono, pubblicati a Pavia, presso gli Eredi di Girolamo Bartoli, nel 1599) è offerta dal curatore Vincenzo Raineri alla madre dell'abate Ottavia Balbi Serbelloni, «Di Pavia, a di 4 di Settembre 1590» (cc. 7r-9r). Il dottorato era stato discusso a Pavia nel 1599 ed è in questo senso che va corretta la data della dedica. L'abate era nato dal matrimonio della Balbi con Giovan Battista Serbelloni, conte di Castiglione nel Lodigiano e signore di Romagnano. Dall'unione eran nati «nobilissimi frutti [...] dodici figliuoli vivi, de' quali puranco undeci ne vivono (Dio mercè), tutti di corpo sani et gratiosi, ma più di mente assai». E, aggiunge con rara crudezza l'autore, non è certo nel numero che risiede l'eccezionalità, quanto nel fatto che in molti altri casi i figli sono «scemi di cervello; alcuni d'aspetto difformi, o di qualche membro infermi; chi d'animo vile e basso, e tale in bruttissimi vizij sommerso» che alle loro madri «anzi di dolore, che di contento sarà perpetua materia». Anche questa dedica era già stata pubblicata, questa volta nel libro IX (cfr. «Margini», 7, 2013). Il curatore Francesco Sansovino dedica l'Ameto comedia delle nimphe fiorentine di messer Giovanni Boccaccio da Certaldo. Con la dichiaratione de i luoghi difficili di Francesco Sansovino, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1545 alla celebre Gaspara Stampa (cc. 9v-15v). Nella lettera Sansovino presenta il prosimetro come produzione giovanile del Boccaccio «come si può facilmente comprendere per lo stile, per l'inventione, e per l'ordine delle parole, e di soggetto amoroso tutto piacevole e tutto pastorale». Il testo è avvicinato, «quasi a imitatione», al Ninfale di Africo e Mensola, protagonisti del Ninfale fiesolano, opera in ottava rima, «del medesimo autore, di men vivi colori e di men fini dipinto che questo non è». Dell'Ameto, noto anche come Ninfale fiorentino, Sansovino racconta brevemente la trama e l'interpretazione allegorica, narrando di Ameto, giovane rozzo che dalla Val d'Elsa si trasferisce a Firenze imparando molto di «vita politica» e di «bellezza». Ne verrebbe una sorta di «piccolo Decamerone», in cui si parla di Firenze, dei suoi usi, dei suoi cittadini, e in cui Ameto attraverso l'amore per Lia, simbolo della bellezza corporea, si innalza all'amore per Fiammetta, simbolo della bellezza divina. Concludendo la dedica, Sansovino prega la Stampa di mostrare il volume a Francesco Cavazza e Giovanni Roma, con i quali aveva «disputato dello stile del Conte Baldessar Castiglione, e del Boccaccio». Degli interlocutori non è dato sapere molto di più, ma si tratta di incontri che si erano svolti nel salotto della stessa Stampa negli primi anni Quaranta. Un'altra edizione celebre presente nella raccolta è quella dell'Arcadia curata da Tommaso Porcacchi, celebre poligrafo attivo a Venezia: Arcadia di m. Iacopo Sannazaro nuovamente corretta, & ornata d'alcune annotationi da Thomaso Porcacchi. Con la vita dell'auttore, descritta dal medesimo, & con la dichiaratione di tutte le voci oscure, che son nell'opera, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1566. L'edizione conobbe ventuno stampe entro il 1599. La dedica che il Porcacchi indirizza al giovane Giulio Martinengo della Pallata, nobile letterato, compare a partire dalla prima edizione da lui curata nel 1566, ed è datata «18 Dicembre 1566, di Venetia» (cc. 20v-22v). Vi si loda l'origine antichissima della famiglia Martinengo, il cui «splendore» antico si rafforza per le azioni magnanime di Giulio, che, sebbene la nobiltà «sia incapace d'accrescimento», riescono a farla crescere «nel suo infinito» e a offrirle «ogni cumulo di splendore». Con la sua «mal considerata lettera», Porcacchi vuole rivolgere a Giulio le sue lodi per il successo negli studi padovani prima che la prematura morte del padre Ludovico, proprio nel 1566, lo richiamasse in patria, da cui, seguitando a coltivare arte e musica, ha preso a governare con lungimiranza e integrità i territori del bresciano che ricadono sotto il suo dominio, in particolare Urago d'Oglio e Pavone del Mella. La devozione che il Porcacchi gli riserva, lo porta a dedicargli l'Arcadia del Sannazaro «quanto più ho potuto corretta da certi errori, derivati dall'ignorantia di color, che l'hanno lacera; et ornate d'alcune poche Annotationi, forse non del tutto impertinenti, ma ne ancho interamente conformi al disegno mio, per decoro esterior dell'opera». Leggendo l'opera, Martinengo potrà giudicare «che non in Arcadia sia stato finto il concorso di tanti Pastori a cantar le lor passioni amorose, a gareggiare, et a fare tanti giuochi boscherecci, ma nel territorio amenissimo d'Urago iurisdittion sua [...] o più tosto in quel suo veramente divino sobborgo di Colle beato, detto volgarmente Cobeato [...] nel qual par che risieda Apollo». Ancora alla curatela del Porcacchi si deve il volume che raccoglie i Funerali antichi di diversi popoli, et nationi; forma, ordine, et pompa di sepolture, di essequie, di consecrationi antiche et d'altro, descritti in dialogo da Thomaso Porcacchi da Castiglione Arretino. Con le figure in rame di Girolamo Porro padovano, In Venetia, appresso Simon Galignani de Karera, 1574 (poi riproposto sempre a Venezia nel 1591, appresso Giorgio Angelieri, alle spese de gli heredi di Simon Galignani de Karera). Si tratta di un dialogo che viene offerto da Porcacchi a Ottaviano Manini (forse da identificarsi con Ottavio o Ottaviano Manini o Menini, letterato friulano) «di Venetia, il di dopo l'Ascensione a 21 di Maggio 1574» (cc. 19r-20r). L'opera raccoglie gli usi e costumi funebri dei diversi popoli, soprattutto Egizi, Greci, Romani, Sciti, Cristiani. Le notizie sono raccolte dalle Historie, «ma anchora da gli scritti de gli amici, da diverse lettere, relationi, diarij, informationi varie». Un ruolo particolare in questo panorama è riconosciuto alle Historie di Francesco Giucciardini, fonte indiretta di molte informazioni, e un valore aggiunto nel volume è rappresentato dalle ventitre calcografie del padovano Girolamo Porro. Il dialogo arriva alle stampe unendo questo materiale alle discussioni sull'argomento intervenute tra un amico di vecchia data del Porcacchi, il conte Cesare Locatelli da Alzano e il suocero, Vespasiano Cuovo da Soncino, che vi compaiono come interlocutori. Ad essi, come personaggi del dialogo, sono in gran parte affidate le lodi del cavalier Manini, di cui nella dedica si ricorda la virtù e la grande magnanimità nei confronti del dedicante: «aggiugnerei, come è solito farsi nelle dedicationi, molte lodi di Vostra Signoria se in questo Dialogo non ne fosse a pieno stato trattato da quei due Signori, che ci ragionano: i quali hanno molta cognitione del suo molto valore». La lettera si chiude con la menzione del «gentilissimo Signor Giovanni Gherardo», amico comune. L'ultima dedica da menzionare è quella di Pietro Targa, alias Cesare Pavese, ad Alfonso II del Carretto, principe e marchese del Finale, datata «di Venetia, il dì 27 d'Ottobre 1558» delle Cento, e cinquanta fauole, tratte da diuersi autori antichi, e ridotte in versi, e rime, da m. Pietro Targa, In Venetia, appresso Giovanni Chrigero [Chrieger, Johann], 1569 (cc. 16r-18v). Si tratta della riscrittura di centocinquanta favole tratte da Esopo ed «altri antichi favolatori», ad opera del letterato aquilano. Ancora una volta la data riportata dal Ventura è imprecisa: se il dedicatario è davvero Alfonso II, e non l'Alberto indicato nella stampa, la dedica è in realtà da datare al 1568, come si legge nella stampa originale del 1569. Come accennato già nel titolo, le favole sono presentate in ottava rima, e sono inoltre introdotte da alcune incisioni. La scelta del dedicatario si basa sulla certezza che egli saprà apprezzare il valore delle favole, senza sdegnarlo «come farà qualcuno, tosto che vedrà il titolo di lui; credendosi, che favola altro non voglia importare, che quelle narration sciocche, che le semplici vecchiarelle a' lor bambini raccontano intorno al fuoco». I racconti tratti da Esopo come da altri autori antichi sono invece da considerare insegnamenti morali che poeti e filosofi non hanno sdegnato che nei tempi moderni già Alciati e altri autori hanno già voluto raccogliere. La scelta di presentare le favole in volgare si spiega col desiderio di soppiantare più antiche traduzioni prima circolanti ormai quasi scomparse. Per questo Pavese sceglie un dedicatario così illustre da poter salvare la sua raccolta dall'oblio. La famiglia di Alfonso infatti è detta aver ottenuto i suoi feudi di Savona e del Finale dall'imperatore Ottone I, come risulterebbe da un privilegio «dato in Ravenna, il mese d'Aprile dell'anno 997». Pavese si dilunga nel presentare i più noti membri della famiglia, per concludere infine con l'auspicio di ricevere protezione dal marchese, e l'augurio di ogni felicità.



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Bibliografia

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A. L. P.