10, 2016
 
Saggi    
 
Abstract

 


Maria Antonietta Terzoli − Vincenzo Vitale
Lucia Rizzo − Patrizia Cucolo − Elisa Desirée Manetti − Cristina Taddei

Scienziati e letterati: quattro dediche ottocentesche dal seminario di Margini



Con l’uscita di questo numero “Margini. Giornale della dedica e altro” festeggia i dieci anni di attività. Il bilancio sembra positivo: la rivista ha visto la collaborazione di studiosi di fama internazionale e di giovani ricercatori, ed è presente ormai nelle principali biblioteche universitarie europee e americane. Ci auguriamo che abbia reso e possa continuare a rendere un servigio alla comunità degli studiosi, ma ci auguriamo anche che abbia suscitato la curiosità di lettori non professionisti, interessati all’una o all’altra delle suggestioni offerte dai tanti elementi che, in un libro, accompagnano l’opera vera e propria. In particolare le dediche, esibite in apertura ma spesso effimere, soppresse nelle successive edizioni, nella loro contingenza e fragilità sembrano riflettere in maniera quasi non mediata le condizioni storiche, sociali e politiche in cui sono state scritte, e possono rivelare aspetti tutt’altro che marginali dell’opera e del suo autore, ma anche illuminare fedelmente pratiche letterarie e consuetudini editoriali di un’epoca e di una cultura. In occasione di questo decimo anniversario abbiamo pensato di aprire il numero 2016 con un articolo un po’ speciale: speciale non per gli argomenti che affronta o per il metodo impiegato, ma per le modalità della sua genesi e la tipologia degli autori. Il saggio che proponiamo è nato infatti in un contesto didattico, seppur collegato strettamente alla nostra ricerca: all’interno del seminario Nuove tecnologie e ricerca letteraria: le dediche dei libri a stampa, rivolto a studenti di Master e dottorandi. Questo insegnamento, tenuto da Maria Antonietta Terzoli e Vincenzo Vitale, si svolge regolarmente all’Università di Basilea ormai da molti anni, con variazione progressiva del secolo a cui si applica. In questo seminario i partecipanti hanno la possibilità di entrare nel vivo di un’attività di ricerca. In particolare imparano a conoscere approcci metodologici e linee di indagine sviluppati nell’ambito del progetto I margini del libro: indagine teorica e storica sui testi di dedica (www.margini.unibas.ch), utilizzando le nuove tecnologie, applicate alle discipline umanistiche, e contribuendo all’incremento dell’Archivio Informatico della Dedica Italiana (AIDI) con l’elaborazione di schede pubblicate a loro nome (blended learning). Il seminario è suddiviso in una parte teorica e storica (definizione e storia della dedica, analisi dei testi di dedica; introduzione alle modalità della ricerca e all’uso del sistema di immissione) e in una parte pratica (censimento dei fondi bibliotecari disponibili, formalizzazione dei materiali raccolti e elaborati, immissione in AIDI). Il seminario, sostenuto da un’attività di tutorato, permette anche di sviluppare l’aspetto formativo proprio di un lavoro d’équipe. Gli studenti possono così impadronirsi di competenze e tecniche della disciplina partecipando in prima persona a una ricerca in atto: come fruitori che imparano grazie agli strumenti didattici forniti on line e alla consultazione delle dediche già presenti in AIDI, e come collaboratori che contribuiscono attivamente al suo incremento. Allestendo una scheda per l’immissione di una dedica nella Banca Dati si esercitano a usare in prima persona, e con immediato riscontro, gli strumenti e i metodi della filologia e della ricerca storiografica. L’immissione formalizzata dei dati per ogni singola dedica richiede infatti un processo di riflessione teorica e di modellizzazione, che coinvolge vari ambiti del sapere letterario, storico e filologico: almeno la teoria della letteratura (per definire il genere dell’opera, la funzione della dedica), le tecniche di analisi formale e metrica per la descrizione della dedica stessa (che può essere sia in prosa sia in versi), la competenza storica per la schedatura dei dedicatari e la definizione del loro rapporto con il dedicante, la storia del libro per la descrizione dell’opera. L’esercizio di formalizzazione del materiale studiato (opera e dedica) e l’uso delle nuove tecnologie nell’ambito degli studi letterari forniscono ai partecipanti − che provengono da una materia tradizionalmente lontana da competenze tecnologiche − una notevole abilità nella produzione e nella fruizione di risorse informatiche. Prima di procedere al lavoro di schedatura delle dediche e all’immissione dei dati nel sistema informatico, ogni partecipante al seminario è invitato a presentare una dedica a sua scelta secondo modalità di analisi indicate. Esse prevedono il ricorso − critico e non meccanico − alla terminologia specifica proposta da Gérard Genette in Seuils (1987) e a quella elaborata in occasione dell’allestimento della Banca Dati AIDI (2004). Centrale è l’identificazione e la descrizione del sistema di topoi caratteristico di un genere estremamente formalizzato come quello dedicatorio. È richiesta inoltre la capacità di collocare il testo nella secolare parabola storica della dedica, attraverso il riconoscimento del grado di maggiore o minore vicinanza ai canoni classici del genere, maturati tra Quattrocento e Settecento e messi in crisi dal rovesciamento dei modelli tradizionali avvenuto in Italia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. L’approccio proposto specificamente nel nostro seminario consiste infine in un confronto testuale sistematico tra dedica e opera dedicata, in grado di fornire risultati ermeneutici significativi, talvolta persino decisivi per l’interpretazione complessiva dell’opera stessa. Nel semestre autunnale 2015 ci siamo occupati di opere pubblicate nell’Ottocento. Poiché le singole presentazioni si sono rivelate particolarmente interessanti, abbiamo chiesto alle responsabili di ognuna di queste letture di redigere un piccolo testo per il decimo numero della rivista. Ci auguriamo che questo esperimento didattico e scientifico possa trovare il consenso di molti lettori e colleghi. Le dediche proposte sono premesse all’Indagine fisica sui colori di Giambattista Venturi (1801, seconda edizione), al dialogo L’Ercolano di Benedetto Varchi (edizione della Società Tipografica dei Classici Italiani, 1804), all’edizione postuma dell’Orlando furioso tradotto in bolognese da Eraclito Manfredi (L’Urland furios, 1865), all’Igiene dell’amore di Paolo Mantegazza (1878). Si tratta di dediche di opere sia scientifiche sia letterarie, scritte in lingua italiana o in dialetto, firmate dagli autori o dai curatori, in prosa o in versi, epistolari o incluse nell’opera: una tipologia variegata, che mostra però bene la presenza di costanti e topoi ricorrenti nell’uso di questo piccolo, misconosciuto ma tenace, genere testuale.

M. A. T. e V. V.

1. Dedica dell’Indagine fisica sui colori di Giovanni Battista Venturi (1801)
In questo breve saggio sarà presentata la dedica dell’Indagine fisica sui colori (1801) di Giovanni Battista Venturi, offerta alla poetessa Diodata Saluzzo-Roero. Si tratterà di introdurre l’opera, l’autore-dedicante, la dedicataria e i peritesti, tra i quali la dedica, che è l’oggetto principale di questa indagine. Quest’ultima verrà analizzata mettendo l’accento sui topoi ricorrenti e sui richiami intertestuali. La prima edizione dell’Indagine fisica sui colori è datata 1799; la seconda, uscita a Modena nel 1801, è quella a cui faremo riferimento.1 Nella seconda edizione di questo trattato di fisica, Venturi espone le sue teorie sui colori, accrescendolo di un capitolo e aggiungendovi anche alcune Riflessioni sulla conoscenza dello spazio che noi possiamo ricavar dall’udito. Giovanni Battista Venturi nacque a Bibbiano nel 1746 e morì a Reggio in Emilia nel 1822. Fu fisico e professore a Modena e all’Università di Pavia, dove svolse anche significative ricerche di ottica e di idraulica. Inoltre si dedicò alla vita politica e s’interessò a questioni economico-finanziarie.2 Durante il suo soggiorno a Parigi, che durò dal 1796 al 1797, scrisse la sua opera più importante, Ricerche sperimentali sul principio della trasmissione laterale entro fluidi applicata alla spiegazione dei diversi fenomeni idraulici, e pubblicò anche l’Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de Léonard de Vinci.3 La dedicataria, Diodata Saluzzo-Roero, nacque a Torino nel 1775 e qui morì nel 1840. Fu scrittrice, improvvisatrice e poetessa. Già all’età di dodici anni iniziò a comporre poesie, apprezzate da uomini illustri come Parini, Alfieri, Monti e Foscolo, e fu anche membro dell’Accademia dell’Arcadia con il nome di Glaucilla Eurotea. Nel 1799 sposò il conte Massimiliano Roero di Revello e rimase vedova nel 1802. Tra le sue opere più importanti vanno citate Le Amazzoni, poema in ottave composto nel 1792, e il poema Ipazia, ovvero delle filosofie, pubblicato nel 1827. La sua lirica è caratterizzata da un gusto arcadico e classicheggiante da cui traspare una sensibilità romantica e malinconica.4 L’opera è ricca di peritesti: il frontespizio (fig. 1) è preceduto da quattro pagine dipinte ad acquerello che mostrano diverse scale di colori (fig. 2-3). Alla fine del trattato vi sono anche due pagine con rappresentazioni di vettori. Il frontespizio è seguito dalla dedica, a sua volta seguita dall’introduzione. La dedica (fig. 4-9) è di tipo epistolare e occupa ben sei pagine: lunghezza notevole per l’Ottocento, ma non insolita perché la dedica, oltre a esprimere l’offerta dell’opera, assume in questo caso anche una funzione prefatoria. Qui infatti Venturi presenta brevemente il contenuto del suo trattato elencando anche i colori che verranno studiati. Per quanto riguarda i topoi, si constata un rapporto stretto con la tradizione della dedica. In effetti, si incontra il topos del dono («offerta»,5 «dono»), il topos modestiae («Opuscolo», «Libretto»,6 «temo non dir cose degne abbastanza»,7 «qual papero gracchiar fra cigni parmi», «questo mio picciol dono qualsiasi»), quello del gradimento («pregandovi solo di aggradire»), quello dell’elogio («le Virtù vostre e il Valor poetico»,8 «sublimi Carmi vostri») e quello dell’alto e del basso («alta stima»,9 «in giovine età vi siete sollevata a volar pari ai primi Cigni d’Italia»). Il dedicante introduce anche il topos della motivazione, cioè spiega cosa l’accomuna alla dedicataria. Precisa infatti che i colori sono oggetto comune del filosofo e del poeta. Inoltre occorre ricordare che il padre della poetessa, Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio, fu il fondatore della Società delle Scienze di Torino: non è escluso quindi un possibile rapporto professionale tra il padre della poetessa e Venturi. L’autore menziona anche l’abate Caluso, «segretario della stessa Società, alla di cui Amicizia per Voi e per me debbo il vantaggio d’avervi conosciuta». Un ulteriore topos molto ricorrente in questa dedica è quello della luce: il padre della dedicataria, infatti, «ha illustrato i volumi con scoperte fisico-chimiche». L’autore cita un frammento in traduzione italiana del Paradise Lost Book III (1667), poema epico in versi sciolti dell’inglese John Milton, che contiene molte allusioni alla luce. La trascrivo qui di seguito:
  Salve o del Cielo prima Figlia! o Luce,
Eterno Raggio dell’eterno Sole!
Qual lode insino a Te sorger presuma?
Dio stesso è luce, Dio formossi eterna
Inaccessibil Sede entro il tuo grembo;
In te dunque abitò, Vivo Splendore
Della Lampa vivissima increata!
O se d’Etereo Fiume ami più il Nome,
Chi dirà le tue Fonti? E pria del Sole
Eri e pria delle Sfere; ed alla Voce
Di Dio, qual veste fulgida, il nascente
Mondo ammantasti ancora umido e oscuro,
Tratto allor dell’immenso informe Abisso.10
 
La dedica non solo rispetta i canoni del genere dedicatorio tradizionale, ma presenta anche una notevole allusività culturale, nonostante l’argomento dell’opera sia di tipo scientifico. Nella dedica, infatti, l’autore fa riferimento all’opera della poetessa stessa, Ipazia, ovvero delle filosofie: «Ipazia, l’Eroina del gran Poema che state ora tessendo, la quale da Sinesio era detta la Donna Filosofa per eccellenza, Ipazia parlerà ne’ sublimi Carmi vostri di Filosofia e di Scienze». Inoltre menziona due personaggi della tarda antichità: il filosofo greco Sinesio di Cirene, allievo di Ipazia, e lo scrittore romano Prospero d’Aquitania. Come si è detto, cita anche un’opera proveniente dalla cultura inglese. Alcune riflessioni sui colori potrebbero rimandare a quelle espresse da Kant nel 1792. Un’ulteriore eco letteraria è da Dante e da Guinizzelli. Quando descrive il compito del poeta, infatti, Venturi utilizza le seguenti parole: «ed ora con viole e giunchiglie ricama il verde smalto di Primavera, ed or di rose miste a giglj compone l’incanto d’un bel volto amabile lusinghiero». Il sintagma verde smalto si trova nel canto IV dell’Inferno («colà diritto, sovra 'l verde smalto», v. 118.) della Commedia di Dante.11 Le rose e i gigli, invece, possono ricordare Guinizzelli: «Io voglio del ver la mia donna laudare / ed assembrarli la rosa e lo giglio», vv. 1-2.12 In conclusione si può constatare che l’autore è poco all’avanguardia per quanto riguarda le mutazioni avvenute nel genere della dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento. È anche possibile che Venturi abbia scelto di optare volutamente per una forma tradizionale. La ricchezza intertestuale testimonia nel dedicante non solo sapere scientifico ma anche notevole cultura letteraria.

L. R.

2. Dedica di Giovanni Bottari in una ristampa ottocentesca dell’Ercolano di Benedetto Varchi (1804)
La dedica di cui mi occupo in questo intervento compare in una ristampa ottocentesca, uscita a Milano, dell’edizione fiorentina del 1730 dell’Ercolano di Benedetto Varchi, che ne ripropone tutte le dediche.13 All’edizione fiorentina collaborò come curatore Giovanni Bottari, che compose l’introduzione biografica e le note, e pubblicò in appendice un Dialogo anonimo sopra il nome della lingua volgare da lui attribuito a Machiavelli. La prefazione di Bottari ricorda che Varchi aveva dedicato quest’opera al futuro granduca Francesco de’ Medici, e che per questa ragione i Giunti, pubblicandola nel 1570, la intitolarono al medesimo principe.14 Di conseguenza, sia nell’edizione fiorentina del 1730 sia nella ristampa della Società Tipografica de’ Classici Italiani a Milano del 1804, che utilizzerò per questo contributo, compaiono tre dediche: una dell’autore Varchi al granduca Francesco de’ Medici, un’altra dei tipografi Giunti allo stesso dedicatario e la terza di Bottari al marchese Neri Corsini.15 Di questa mi occupo in questo intervento. La prima osservazione relativa a questa dedica (fig. 11-13) è che oltre al titolo Lettera dedicatoria vi sono altri termini, sia verbi sia sostantivi, che indicano e allo stesso tempo confermano un atto di dedica: «ho determinato di consecrarlo»16 (p. v; mio il corsivo, così nel séguito salvo indicazione contraria), «le dono liberamente» (p. vi), «offerta per V. S.» (p. vi) e «io doveva quest’Opera consacrare» (p. vii). Per quanto concerne la formulazione «le dono liberamente», meriterebbe maggior attenzione anche ciò che la precede, ovvero la seguente proposizione: Ma conoscendo questa mia insufficienza sì per la grandezza di V. S. Illustrissima, e sì per la tenuità mia, ho pensato in quella maniera che per me si può, testificarle la devozione del mio animo; il che non posso fare che con parole, ed opera d’inchiostro, nè sono, mi credo, da imputare d’un tributo sì scarso, poichè tutto quello che io posso, le dono liberamente (pp. v-vi; corsivo dell’autore). In effetti, la parte in corsivo è una ripresa dalla dedica dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto: «Quel ch’io vi debbo, posso di parole / pagare in parte e d’opera d’inchiostro» (i, 3, vv. 5-6). Facendo anche uso della metonimia «opera d’inchiostro» Bottari intende affermare che, dato il suo «poco potere», è in grado di testimoniare la devozione del suo animo, e l’onore di essere servitore di Corsini solo tramite parole e scritti. Nonostante questo suo «scarso tributo», non è tuttavia da condannare («imputare», p. vi), perché dà tutto ciò che può. Una caratteristica della dedica analizzata è la sua autonomia tipografica; difatti essa non è inclusa nel testo e assume una posizione fortemente “paratestuale”, trovandosi, tra l’altro, fra due paratesti: il frontespizio e la prefazione di Bottari. Ulteriori aspetti da notare relativi alla dedicatoria sono la forma di epistola in prosa in cui si presenta, la lingua in cui è stata scritta, l’italiano, che coincide con quella dell’opera, la sua lunghezza maggiore rispetto ad altre dediche del Settecento e dell’Ottocento e la sua struttura, che merita di essere approfondita. La dedica, in effetti, è preceduta da un’intestazione e si conclude in modo classico con una firma, ma è priva di datazione. La dedica è stata sicuramente redatta prima del 1730. Ciò lo conferma non solo il fatto che il 1730 è l’anno di pubblicazione dell’edizione curata da Bottari, bensì anche un dato biografico di Neri Corsini; nel 1730, difatti, egli divenne cardinale:17 poiché nell’intestazione gli è attribuito il titolo di marchese e cavaliere e non quello di cardinale, è certo che la dedicatoria è stata scritta prima di quest’anno. Osservando l’intestazione della dedica si constata che essa presenta un’intestazione epigrafica nella quale vengono menzionati sia il nome del dedicante sia quello del dedicatario: LETTERA     DEDICATORIA
DI
MONSIGN.  GIO.   BOTTARI
All’  Illustriss.   Sig.   Marchese Cav.
N   E   R   I      C   O   R   S   I   N   I 
CAPITANO DELLE GUARDIE A CAVALLO DELL’ A. R.
DEL  SERENISSIMO  GRANDUCA  DI  TOSCANA.
È subito evidente che non si tratta di un’intestazione semplice del tipo “A” seguito dal nome del dedicatario, bensì di una costruzione più complessa che svela due informazioni importanti riguardanti Neri Corsini: il suo titolo nobiliare di marchese e cavaliere, e la sua funzione militare di capitano delle guardie di Cosimo III de’ Medici, allora granduca di Toscana. L’importanza di Corsini è dimostrata sia dalla presenza del suo nome nell’intestazione − come è noto, più è importante il dedicatario e più il suo nome compare nell’intitolazione − sia soprattutto dall’uso di un carattere tipografico maggiore e dall’isolamento dal resto dell’intestazione. Un’analisi più approfondita del contenuto della dedica permette di porre in risalto alcuni topoi fondamentali come per esempio quello della motivazione. Infatti subito all’inizio Bottari scrive di aver deciso di dedicare l’opera a Neri Corsini, perché, onorato di essere un suo servitore, vuole dimostrarlo al mondo intero. Essendo in grado di mostrarlo solo tramite «parole ed opera d’inchiostro» (p. vi), come già accennato, Bottari decide di farlo attraverso una dedica. Peraltro, l’abbassamento topico del dedicante è dichiarato anche in chiusura tramite ripresa della formula convenzionale: «Umiliss. e Obbligatiss. Servitore». Un’altra motivazione che ha indotto Bottari a dedicare l’edizione dell’Ercolano a Neri Corsini è svelata verso la conclusione della dedica, nel momento in cui viene fatto il riferimento alla Biblioteca Corsiniana che il dedicatario, dopo averla ereditata dallo zio (Lorenzo Corsini), contribuì ad accrescere anche con l’aiuto dello stesso Bottari. Dal momento che tramite la Corsiniana e la sua raccolta di stampe Neri Corsini ha salvato innumerevoli libri, Bottari gli dedica l’edizione dell’Ercolano chiedendogli di prendere sotto la sua protezione non solo l’opera, bensì anche la sua persona, ovvero Bottari stesso. Racchiuso nel topos della motivazione si trova quindi anche il topos della protezione, dal quale si deduce in parte anche il rapporto esistente tra dedicante e dedicatario. Essendo presenti lodi straordinarie al dedicatario, ma anche all’opera dell’autore, nella dedica si può ravvisare anche il topos dell’elogio. Per quanto riguarda le lodi rivolte all’Ercolano, vi sono solo due passi che le mettono in rilievo: il primo a inizio dedica «opera del famoso M. Benedetto Varchi, e anche una delle più vaghe, e di quelle che più lustro apportano alla nostra favella» (p. v) e il secondo nella parte centrale «questo elegante lavoro d’un nostro cittadino» (p. vi). Gli elogi al dedicatario ricorrono invece con maggiore frequenza. Il primo è evidente già nell’intestazione, «Illustriss. Sig. Marchese Cav.», tutti gli altri si collocano all’interno della dedica e sono accompagnati da molti superlativi. Basti qui citare un esempio che mostra bene queste modalità: così V. S. Illustrissima dopo tante gloriosissime e orrevolissime sue legazioni, dopo il maneggio d’ardui e rilevantissimi affari, ha rivoltati i suoi pensieri alla protezione, e al coltivamento delle nobili arti, e delle buone lettere, [...] e si ammira il suo gabinetto ornato d’un tesoro pregiatissimo di tanti volumi di stampe, e di disegni de’ più gran valentuomini, e d’una scelta rarissima di libri tutti ottimi, e singolari d’ogni scienza, e d’ogni maniera d’erudizione (pp. vi-vii). Tra il frequente uso dei superlativi, con il quale Bottari elogia anche la biblioteca Corsiniana, è da notare la continua ripetizione del superlativo «Illustrissima», che fa riferimento alla metafora della luce. Tra l’altro, alla luce alludono anche il sostantivo «lustro» (p. v) e il verbo «illustrerà» (p. vii). Due ulteriori topoi che compaiono in questa dedicatoria sono il topos modestiae e quello della convenienza. L’abbassamento del dedicante rispetto al dedicatario si riconosce per esempio in questa dichiarazione di Bottari: «Ma conoscendo questa mia insufficienza sì per la grandezza di V. S. Illustrissima, e sì per tenuità mia, ho pensato in quella maniera che per me si può, testificarle la devozione del mio animo» (pp. v-vi). Per quanto concerne il topos della convenienza invece, nel testo esso viene segnalato da un’unica parola, ossia dall’aggettivo «conveniente» (p. vi) che definisce il modo in cui Bottari giudica la sua dedica in rapporto a Corsini. In conclusione è necessario soffermarsi su due personaggi importanti ai quali Bottari allude nella dedicatoria senza nominarli esplicitamente: Marco Tullio Cicerone e Dante Alighieri. Vale la pena di citare un frammento di questo testo: E siccome colui che meritò d’essere appellato nel tempo della maggior grandezza di Roma trionfatrice di tutte le nazioni, padre di essa, avendo i primi suoi anni consumati negli esercizj più quieti delle filosofiche discipline, dopo essere stanco da una lunga, e faticosa amministrazione della repubblica, ritornò ad essi di buona voglia, e quasi a suo dolce nido ricoverò di nuovo coll’ali aperte in seno alla Filosofia (p. vi). Il riferimento a Cicerone è riconoscibile nella designazione «padre di essa» (p. vi), ovvero padre di Roma, riferito a Neri Corsini, che ricorda il titolo di «pater patriae» attribuito a Cicerone per aver salvato la Repubblica dalla congiura di Catilina. Inoltre, grazie alla parola «siccome» (p. vi) − che in questo caso non è usata con funzione di congiunzione causale, bensì introduce un paragone con lo stesso significato dell’avverbio come − si constata che Bottari si riferisce a Cicerone per comparare il suo ritorno alla filosofia con quello di Corsini. Ed è proprio all’interno di questo raffronto che compare il richiamo a Dante. L’espressione «e quasi a suo dolce nido ricoverò di nuovo coll’ali aperte» (p. vi) ricorda infatti il paragone con il volo delle colombe verso il loro nido nel canto v dell’Inferno, che descrive l’avvicinamento di Francesca e Paolo a Dante e Virgilio: «Quali colombe dal disio chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido / vegnon per l’aere dal voler portate» (vv. 82-84). Trattandosi di una dedica presente in un trattato linguistico è da notare che il riferimento a questi due grandi personaggi è molto appropriato perché entrambi si sono in qualche modo occupati di lingua; Cicerone, per esempio, trovando il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco, e Dante affrontando il tema della lingua volgare nel suo trattato latino, De vulgari eloquentia. È interessante notare come i rinvii a Cicerone e Dante siano dovuti probabilmente anche al fatto che Varchi stesso menziona entrambi nella sua dedica rivolta al granduca Francesco de’ Medici.18 In questa dedicatoria Varchi si riferisce a Cicerone per parlare dell’invidia provata da Giulio Cesare nei suoi confronti per aver accresciuto i confini della lingua latina allargando così anche i termini dell’Impero Romano. A Dante, invece, si accenna per alludere alla lingua fiorentina. Varchi dichiara infatti che la sua intenzione principale nell’Ercolano è quella di dimostrare che la lingua con la quale scrissero già Dante, Petrarca e Boccaccio e della quale oggi si servono molti altri scrittori, si deve chiamare fiorentina e non italiana o toscana. Tra l’altro, Varchi aggiunge che la lingua fiorentina è «se non più ricca, e più famosa, più bella, più dolce, e più onesta che la Greca, e la Latina non sono» e che quindi, a suo parere, vi è una superiorità della lingua fiorentina rispetto a quella greca e latina.

P. C.

3. Dedica dell’Orlando furioso tradotto in bolognese (1865)
L’Orlando Furioso è sicuramente un’opera importante per tutta la tradizione letteraria, italiana e non solo. Il suo successo è stato tale da vedere, nell’arco di pochissimo tempo, ottave, canti e persino l’intero poema tradotti non solo in altre lingue europee, come l’inglese (la cui prima traduzione integrale, a cura di John Harington, risale al 1591), bensì anche in alcuni dialetti italiani. Qui mi occuperò della traduzione del Furioso in dialetto bolognese, una «vagheggiata versione, la quale [Eraclito Manfredi] condusse a fine circa [n]el 1752».19 L’edizione a cui mi riferisco è stata stampata a Bologna nel 1865 e proviene dalla Zentralbibliothek di Zurigo (fig. 14). Della vita di Eraclito Manfredi, oltre al fatto che fosse un matematico, «non degenere fratello di quell’Eustachio»,20 non si conosce molto altro. Alcuni dati all’interno dei peritesti del Furioso in bolognese forniscono però opinioni positive su questo personaggio e sulla sua opera che, a quanto pare, è stata particolarmente apprezzata dai suoi concittadini. Un primo giudizio è quello del dedicante e curatore, Ferdinando Guidicini, il quale, nell’epistola dedicatoria che precede l’opera (fig. 15), scrive che «[q]uel faticoso lavoro è ora da [lui] tolto alla immeritata obblivione». Successivamente, anche un certo Raffèl Burian (Raffaello Buriani) autore di un Sunètt in lode alla traduzione di Manfredi (fig. 16), scrive di come «st lavurir […] fa unòur alla zittâ».21 Sia Guidicini sia Buriani non nascondono il fatto che questa traduzione sia stata un’ardua impresa per l’autore. Il primo, infatti, parla del «faticoso lavoro» compiuto da Manfredi, mentre il secondo lo loda per la sua perseveranza: «A-l fú Eraclit Manfrèid ch’fé st lavurir, / Sèinza curar fadig, difficultâ».22 Curiosamente, Manfredi decide di non dedicare a nessuno questa sua enorme impresa. La dedica è infatti stata scritta circa un secolo dopo il completamento dell’opera (l’epistola dedicatoria è datata 30 ottobre 1865)23 e da una persona quasi completamente estranea ad essa, ovvero il curatore, il bolognese Ferdinando Guidicini, figlio di Giuseppe Guidicini (importante ingegnere e ricercatore, vissuto tra il 1763 e il 1837).24 Di lui si sa soltanto che ha dato alle stampe molte delle opere in precedenza pubblicate dal padre. Per quanto concerne il dedicatario, l’allora sindaco di Bologna Carlo Pepoli, rimando all’articolo redatto da Axel Körner nel Dizionario Biografico degli Italiani.25 Conte, importante personalità del mondo politico (e letterario) bolognese dell’Ottocento, Pepoli è designato come destinatario ufficiale nonché protettore della traduzione del Furioso perché l’opera è vista come «cosa che torna a vanto di questa Città di cui [Pepoli cura] sempre il maggiore lustro».26 L’epistola dedicatoria, firmata da Ferdinando Guidicini, contiene molti dei topoi canonici della dedica,27 a cominciare dall’intestazione. Il nome del dedicatario, stampato con carattere molto più grande rispetto al resto, è ben visibile e, più in basso, è accompagnato dall’indicazione della carica (politica) ricoperta da Pepoli nell’anno 1865 («R[egio] Sindaco di Bologna»).28 A differenza dell’epistola che segue, l’intestazione presenta la classica struttura a scansione. Il vero e proprio atto di offerta dell’opera si trova all’interno della lettera di dedica ed è direttamente espresso attraverso l’espressione «oso dedicarlo a Voi». In queste poche parole si evidenzia inoltre un abbassamento del dedicante rispetto al dedicatario. Il dedicante anche in séguito ribadisce la sua sottomissione. Un altro topos qui presente è quello della richiesta di protezione, in questo caso sia per l’opera sia per il dedicante, collocata in chiusura: «Piacciavi dunque tenerlo sotto i benevoli vostri auspicii, ed in pari tempo siavi sempre raccomandato chi, con profondo ossequio, ha l’onore di rassegnarsi Di V. S. Illustrissima Umilissimo e Devotissimo Servitore Ferdinando Guidicini». «Piacciavi» è un richiamo evidente alla dedica inclusa “originale” dell’Orlando Furioso rivolta da Ludovico Ariosto a Ippolito d’Este, protettore del poeta tra il 1503 e il 1517:
  Piacciavi, generosa Erculea prole,
Ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
E darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
Pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
Né che poco io vi dia da imputar sono,
Che quanto io posso dar, tutto vi dono.
Voi sentirete fra i più degni eroi,
Che nominar con laude m’apparecchio,
Ricordar quel Ruggier, che fu di voi
E de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
Vi farò udir, se voi mi date orecchio,
E vostri alti pensier cedino un poco,
Sì che tra lor miei versi abbiano loco
 
  (i, 3-4).29  
Come è stato notato, verso questo gesto di dedica Ippolito non sembra «dare particolari segni di gratitudine».30 La dedica è però di fondamentale importanza per la struttura del poema: attraverso queste prime ottave encomiastiche, Ariosto designa un interlocutore preciso, che è invece assente nel testo di Manfredi. Nella traduzione in bolognese di questo primo canto del Furioso la famiglia estense non viene mai menzionata (ma farà poi la sua comparsa nel canto terzo, le cui ottave sono notoriamente encomiastiche degli Estensi). Non solo Manfredi non cita il nome di Ippolito, ma sostituisce persino le due ottave di dedica con altre due ottave in cui illustra le ragioni che lo hanno spinto a intraprendere un’impresa difficile come quella di tradurre integralmente il poema di Ariosto (fig. 17):
  Am vui un po’ pruvar ancora mì:
Cascarà ’l mond per quèst, cosa in po vgnir?
Se quì am faz minchiunar an son sol mì
Ch’ai critichèn daga uccasion da dir.
Al salta fora pur a dì per dì
Di nuv pueta, spzial, ost, e barbir,
E nssun za i pagn addoss a quisti taia;
A mi sol dònca a s’ha da far la baia?
 
  An vui mìga cumpeter con l’Ariost,
Nè con qui ch scrissen ben anc in bulgneis;
Al virtù d quìsti a so ch’a son più dscost
D quel ch’è al parlar toscan dall’albaneis.
L’è un pur caprìzzi che in testa em s’è post,
E, d divertìrm sol ai ho preteis,
Nè za pr’acquistar fama e rputazion,
Nè immurtalarm, ch’a cgnuss d’ n’esser bon
 
  (i, 3-4).31  
Da queste ottave risulta facilmente comprensibile perché Manfredi non designa nessuno come dedicatario della sua opera. L’autore dice infatti di non avere la presunzione di mettersi a confronto con Ariosto («An vui mìga cumpeter con l’Ariost»)32 e che quello che sta compiendo è un puro capriccio («l’è un pur caprìzzi») che ha come scopo solo quello di divertirlo («d divertìrm»).

E. M.

4. Dedica dell’Igiene dell’amore di Paolo Mantegazza (1878)
Paolo Mantegazza,33 autore dell’opera e della dedica analizzata in questo breve saggio, fu un rinomato medico, patologo e antropologo italiano. Nato a Monza il 31 ottobre del 1831 da Giovan Battista e da Laura Salera, dopo aver completato gli studi classici a Milano si iscrisse al primo anno del corso di medicina e chirurgia a Pisa. Si trasferì poi a Pavia dove nel 1854 si laureò con una tesi sulla Fisiologia del piacere, pubblicata a Milano lo stesso anno. Dopo aver terminato gli studi il Mantegazza lasciò l’Italia e, dopo essere passato in Francia, Germania e Gran Bretagna, si spostò in Sud America, in particolare in Argentina, in Paraguay e in Bolivia, dove svolse ricerche naturalistiche, botaniche e antropologiche. Nel 1858 Mantegazza rientrò in Italia, più precisamente a Milano, dove iniziò a esercitare la professione di medico, prima privatamente poi presso l’Ospedale Maggiore. Nel 1860 divenne Professore ordinario di Patologia all’Università di Pavia. Durante i suoi anni di insegnamento (durati fino al 1869) Mantegazza chiese al Ministero dell’Istruzione un vero gabinetto di sperimentazione, dove, nel 1863, diede inizio a un corso di Patologia sperimentale. Il suo gabinetto «svolse [così] un ruolo importante nel favorire la ricerca scientifica».34 Mantegazza‚ curioso di fenomeni naturali e instancabile osservatore, durante gli anni di insegnamento all’Università di Pavia, pubblicò innumerevoli lavori di argomenti anche molto diversi, su autorevoli periodici. Morì a San Terenzo di Lerici il 28 giugno 1910. Il medico faceva parte, insieme con Giovanni Canestrini (1835-1900), Filippo De Filippi (1814-1867) e Michele Lessona (1823-1894), del gruppo dei primi seguaci italiani del darwinismo. Mantegazza stesso si definiva «darwiniano con benefizio d’inventario». Nel 1878 Mantegazza pubblica per la prima volta il volumetto Igiene dell’amore (fig. 18). Non si tratta di un romanzo, bensì di un’opera scientifica che rappresenta il primo manuale italiano che tratta i temi dell’amore e della sessualità. Nella dedica Mantegazza spiega che quest’opera può sembrare a molti lettori troppo audace e addirittura impertinente: «il mio libro potrà sembrare a molti troppo franco, a parecchi a dirittura sfacciato».35 E osservando l’indice del volume si può capire come mai l’autore la pensi in questo modo: il libro «discute di igiene, pubertà, mestruazioni, masturbazione, erezione, impotenza, deviazioni sessuali, eiaculazione precoce, vaginismo, castità, genetica, endogamia, sterilità e contraccezione».36 Tutti questi argomenti vengono trattati da Mantegazza, «uno dei pionieri della medicina sessuale», senza reticenze dal punto di vista fisiologico e anche psicologico. Mantegazza dedica l’opera a un suo sodale e affine negli studi, ma soprattutto amico, il dottor Luigi Billi. Le informazioni biografiche riguardanti Luigi Billi sono piuttosto ridotte. Si sa che nacque a Firenze nel 1838 dove studiò medicina e fu «medico di società operaie e di associazioni di beneficenza» alle quali dedicò molto del suo ingegno, del suo sapere e del suo tempo.37 Sposò la scrittrice Marianna Giarré (1835-1906) e fu amico di molti letterati illustri, tra cui Giosuè Carducci (1835-1907) ed Enrico Nencioni (1837-1896). Billi morì a Firenze nel 1910. La dedica di Mantegazza a Billi è di tipo epistolare (fig. 19-20), ed è collocata tra il frontespizio e l’inizio del testo scientifico. La dedica è scritta per due occasioni: l’inaugurazione del nuovo Ospedale della Maternità di Firenze e la nomina a direttore dell’Ospedale del dottor Billi. La dedica si apre con un’intestazione epigrafica, centrata, che mette in evidenza il nome e i titoli del dedicatario: «All’Egregio Dottor Luigi Billi / Direttore / dell’Ospedale della Maternità di Firenze».38 Dopo l’intestazione epigrafica troviamo le parole «Ottimo amico» che evidenziano esplicitamente il rapporto tra Mantegazza e Billi, di solida, anzi ottima, amicizia e stima. La messa in risalto di questo buon rapporto tra i due sodali si trova nelle indicazioni «come medico e come amico» e «segno della mia viva riconoscenza e della mia alta stima per voi». Mantegazza prosegue la dedica epistolare rievocandone l’occasione: «La Città di Firenze sapientemente vi chiamava a dirigere il nuovo e simpatico ospedale della Maternità» (p. 1, n.n.). L’autore prosegue con uno dei topoi dedicatori, quello dell’alto e del basso, applicato qui solo implicitamente a dedicante e dedicatario: «Son queste le vere opere buone del Vangelo, son queste le vere riforme della sana democrazia, che non abbassa i grandi, ma innalza i piccini». Non essendo presenti i tradizionali termini dedicatori come dedicare, offrire e regalare, ciò che ci permette di definire il testo come dedica è la frase «Pensando a voi e alla mia Firenze ho voluto scrivere il vostro caro nome sopra un libro». Mantegazza continua la dedica con una locuzione che esprime il suo giudizio sull’Ottocento, «in questo secolo tartufo» (p. 2, n.n.), ripreso anche in forma di sostantivo: «a tutti i tartufi grandi e piccini». Come mai il secolo viene denominato tartufo? Chi sono i tartufi? Non si può negare che il termine tartufo del Mantegazza richiami Le Tartuffe ou l’Imposteur, una commedia in cinque atti, di Molière (1664). Ma si può trovare un altro legame, riconducibile direttamente a Mantegazza. L’autore dell’Igiene dell’amore compone nel 1889 un’opera intitolata Il secolo tartufo, in cui spiega con una «psicologia umoristica»39 il vero significato del termine tartufo. Mantegazza reputa l’Ottocento un secolo ipocrita,40 un secolo in cui si fa «ciò che piace, ma [si nasconde] ciò che si è fatto»,41 come fece Eva con la mela: «Eva desiderava il frutto proibito, e non avrebbe voluto disubbidire a Dio; ma le due cose insieme non si potevano fare, ed essa trovò la diagonale prima di tutte le menzogne future». Nascondere l’azione oppure trovarsi un complice: Eva scelse il complice, Adamo, con cui divise «il peccato, riducendolo al cinquanta per cento». Mantegazza così descrive l’Ottocento: «è moralmente tartufo; cioè il più bugiardo dei secoli che furono e saranno». Ma perché? Secondo Mantegazza questo è dovuto al fatto che «il secolo XIX è figlio, in Europa almeno, dell’89»,42 ovvero della Rivoluzione Francese, dell’ideologia della «nuova trinità»: liberté, egalité, fraternité.43 Questa trinità corrisponde a essere moderni fuori, ma ancora antichi dentro: «noi tutti quanti uomini del secolo XIX […] siamo ancora uomini del medio evo, cioè dei selvaggi della prepotenza vestiti col figurino della libertà nuova e della nuova scienza». Mantegazza incarica Billi di insegnare a «tutti i tartufi grandi e piccini» (p. 2, n.n.), ovvero a tutti gli ipocriti grandi e piccoli, che le ferite, «le piaghe» (ibid.), non si nascondono più attraverso le menzogne o per carità pelosa, ovvero per proprio interesse, ma si guariscono, si scoprono e si confrontano. Con questa metafora il Mantegazza vuole combattere l’ipocrisia di un secolo poco veritiero e per niente onesto. La locuzione «carità pelosa» (ibid.), ovvero il prestare aiuto soltanto in vista di un proprio utile futuro,44 richiama un passo del xviii capitolo dei Promessi Sposi, dove il Conte Attilio, raggirando il Conte Zio per ottenere l’allontanamento di fra Cristoforo e poter rapire Lucia, descrive il cappuccino con queste parole: «Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospetta, permalosa».45 Ritornando alla dedica, Mantegazza menziona nel penultimo paragrafo, le qualità del dedicatario Luigi Billi. Quest’ultimo unisce «l’arguzia attica al buon senso» (p. 2, n.n.), tiene sempre la testa alta contro i pregiudizi e l’ipocrisia e ha sempre un «benevolo sorriso» che porta «rimedio o [...] conforto» (ibid.) ai malati. Per concludere questa breve analisi della dedica di Paolo Mantegazza, si può notare come la dedica sia diversa, se paragonata ad altre dediche. Essa contiene soltanto uno dei topoi classici della tradizione dedicatoria, quello dell’alto e del basso. I termini chiave che servono a indicare che il testo è effettivamente una dedica, non sono presenti nell’intestazione epigrafica, ma all’interno della dedica stessa. Inoltre, il rapporto tra dedicante e dedicatario è di amicizia, anzi ottima amicizia, si tratta dunque di un legame più intimo tra due eguali a livello sociale, culturale e professionale. Leggendo la dedica, si può infine notare come essa non sia unicamente incentrata sulla lode del dedicatario, ma presenti digressioni riflessive in parte anche politiche, su come l’Ottocento sia, secondo l’autore, un secolo tartufo.

C. T.



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Note

1 G. Venturi, Indagine fisica sui colori, Modena, La Società Tipografica, 1801. L’edizione in questione si trova nella biblioteca dell’Università di Basilea (segnatura: Ju VIII 11:2). Cfr. nell’Archivio Informatico della Dedica Italiana (AIDI) la scheda redatta da L. Rizzo (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html).torna su
2 Venturi, Giovanni Battista, in AA.VV., Enciclopedia italiana delle scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1937, vol. xxxv, p. 137, http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-venturi_%28Enciclopedia-Italiana%29/.torna su
3 Cfr. il sito del comune di Bibbiano, Giovanni Battista Venturi, http://www.comune.bibbiano.re.it/servizi/Menu/dinamica.aspx?idSezione=616&idArea=27515&idCat=18207&ID=18169&TipoElemento=categoria (data di consultazione: 31.05.2016). torna su
4 Cfr. M. Fubini, Saluzzo-Roero, Diodata, in AA.VV., Enciclopedia italiana cit., vol. xxx, 1936, p. 573. torna su
5 G. Venturi, Indagine fisica cit., p. i; la successiva a p. vi.torna su
6 Ivi, p. i.torna su
7 Ivi, p. vi; così le successive. torna su
8 Ivi, p. i; la successiva a p. ii.torna su
9 Ivi, p. i; così le successive (mio il corsivo, così nel séguito salvo indicazione contraria). torna su
10 Ivi, p. v.torna su
11 Dante Alighieri, La Commedia, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966, vol. ii, p. 71. torna su
12 G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970, p. 157. torna su
13 Cfr. B. Varchi, L’Ercolano, dialogo nel quale si ragiona delle lingue, ed in particolare della toscana e della fiorentina, Milano, Dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1804, pp. v-vii (fig. 10). torna su
14 Cfr. la prefazione di G. Bottari in B. Varchi, L’Ercolano, pp. vii-lxv, in partic. pp. xli-xlii.torna su
15 Cfr. la scheda redatta da P. Cucolo in AIDI (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html). torna su
16 Le citazioni da questa dedica verranno indicate a testo tra parentesi solo con il numero di pagina. torna su
17 Cfr. M. Caffiero, Corsini, Neri, in AA.VV., Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1983, vol. 29, pp. 651-57, http://www.treccani.it/enciclopedia/neri-corsini_(Dizionario-Biografico)/. torna su
18 Cfr. la dedica di Benedetto Varchi a Francesco I de’ Medici, scheda redatta da P. Cucolo, in www.margini.unibas.ch; così la successiva. torna su
19 E. Manfredi, L’Urland Furios d mssir Aldvigh Ariost tradutt in bulgnes da Eraclit Manfred, Bologna, Stamperia Reale, 1865, p. iv. Cfr. in AIDI la scheda redatta da E. D. Manetti (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html). torna su
20 Ivi, p. i; così la successiva. torna su
21 Ivi, p. v; “questo lavoro fa onore alla città”, traduzione mia, così nel séguito. La successiva a p. i.torna su
22 Ivi, p. v; “Fu Eraclito Manfredi a fare questo lavoro / senza curare fatica e difficoltà”. torna su
23 Cfr. ivi, p. i.torna su
24 Cfr. M. Poli, Guidicini, Repubblicano illuminato ci racconta la storia di Bologna, in «Il Resto del Carlino Online», http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/2013/07/08/916524-guidicini_repubblicano_illuminato_racconta_storia_bologna.shtml (data di consultazione: 08.07.2013). torna su
25 Cfr. A. Koerner, Pepoli, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2015, vol. 82, pp. 261-66, http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-pepoli_(Dizionario_Biografico)/. torna su
26 E. Manfredi, L’Urland Furios cit., p. i.torna su
27 Cfr. G. Genette, Seuils, Paris, Seuils, 1987, pp. 110-31; M. A. Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento: metamorfosi di un genere, in AA.VV., Dénouement des lumières et invention romantique, Actes du colloque de Genève, 25-25 novembre 2000, Réunis par G. Bardazzi et A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 161-92 (ora in «Margini. Giornale della dedica e altro», 1, 2007 (www.margini.unibas.ch/web/it/index.html); M. Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale (Italia, secoli XVI-XIX), Prefazione di L. Bolzoni, Lucca, Pacini Fazzi, 2009, pp. 49-105. torna su
28 E. Manfredi, L’Urland Furios cit., p. i; così le due successive. torna su
29 L. Ariosto, Orlando Furioso, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1992, p. 4; mio il corsivo. torna su
30 G. Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno, 2008, p. 22. torna su
31 E. Manfredi, L’Urland Furios cit., p. 1; “Mi vado un po’ a mettere alla prova anche io: / Cascherà il mondo per questo, cosa può succedere? / Se qui mi faccio prendere in giro sono solo io / Che do ai criticoni occasione di parlare. / Saltano fuori giorno per giorno / Dei nuovi poeti, speziali, osti e barbieri, / E nessuno a questi taglia i panni di dosso; / Solo io sono dunque da canzonare? / Non vado mica a competere con l’Ariosto, / Né con quelli che scrissero bene in bolognese; / Nei confronti di questi so che sono più lontano / Di quello che è il parlare toscano dall’albanese. / È un puro capriccio che mi si è posto in testa, / E ho solo la pretesa di divertirmi, / Non già per acquistar fama e reputazione, / Né per rendermi immortale perché riconosco di non esserne in grado”. torna su
32 Ibid; così le successive. torna su
33 Per la biografia di Paolo Mantegazza cfr. G. Armocida e G. S. Rigo, Mantegazza, Paolo, in AA.VV., Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2007, vol. 69, pp. 172-75; F. Govi, I classici che hanno fatto l’Italia − Per un nuovo canone bio-bibliografico degli autori italiani, Modena, Regnani, 2010, pp. 283-84; P. Govoni, Mantegazza, Paolo, in AA.VV., Il contributo italiano alla storia del pensiero: scienze, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2013, http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-mantegazza_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero%3A-Scienze%29/%29/.torna su
34 G. Armocida e G. S. Rigo, Mantegazza, Paolo cit., p. 173; la successiva a p. 174. torna su
35 P. Mantegazza, dedica a Luigi Billi, in Igiene dell’amore, Milano, G. Brigola, 1878, p. 2. Si veda la trascrizione integrale della dedica in aidi (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html; scheda redatta da C. Taddei). D’ora in avanti il rinvio alla pagina sarà indicato a testo, tra parentesi. Sempre mio il corsivo, salvo indicazione contraria. torna su
36 F. Govi, I classici che hanno fatto l’Italia cit., p. 283; così la successiva. torna su
37 E. Michel, Billi, Luigi, in AA.VV., Dizionario del Risorgimento Nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, Milano, Vallardi, 1931-1937, vol. ii, p. 296. torna su
38 P. Mantegazza, Igiene dell’amore cit., p. 1, n.n.; così la successiva. torna su
39 P. Mantegazza, Il secolo tartufo, Milano, Fratelli Treves, 1889, p. 51. torna su
40 Ivi, p. 62, «Il secolo è critico, è industriale, è positivo, è scettico, è tante altre belle e brutte cose; ma è innanzi tutto e soprattutto ipocrita» (ivi, p. 62); «l’ipocrisia è divenuta l’atmosfera in cui tutti ci muoviamo e respiriamo» (ivi, p. 33). torna su
41 Ivi, p. 32; così le due successive. torna su
42 Ivi, p. 63. torna su
43 Ivi, p. 64; la successiva a p. 66. torna su
44 Si vedano le voci carità e pelosa in N. Zingarelli, Lo Zingarelli − Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2005; vocabolario Treccani, on-line: (http://www.treccani.it/vocabolario/. torna su
45 A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di L. Caretti, vol. ii, Torino, Einaudi, 1971, p. 426. torna su